È bene mettere in discussione il Pil, come misura di benessere, ma ancora più importante è perseguire un modello alternativo di sviluppo, non fondato sul consumo e la mercificazione, votato alla riconversione ecologica e alla difesa dei beni comuni e ancorato al senso del limite
La denuncia dell’inadeguatezza del Pil e dell’urgenza di una revisione delle sue modalità di misurazione pervade ormai la discussione dei movimenti. Tuttavia, l’enorme impegno di analisi tecnica ed elaborazione profuso rischia di alimentare l’illusione che, una volta modificata la misura, cambieranno con essa le priorità della società. Illusione, perché senza l’elaborazione e il perseguimento di un modello alternativo di sviluppo, non fondato sul consumo e la mercificazione, l’azione demistificatoria sul Pil non potrà che rivelarsi velleitaria.
Fissiamo innanzitutto un punto di partenza. Il Pil e la sua dinamica sono per definizione inadatti a rappresentare lo stato di benessere, o di felicità, o di sostenibilità della comunità nazionale e dei suoi modi di vivere. Gli specialisti ne hanno tradizionalmente colto molti specifici elementi di inadeguatezza, ma non sono mai arrivati a metterlo in discussione quale misura di benessere, al più integrandolo con indicatori relativi alla sostenibilità o al progresso sociale. Bene ha fatto, dunque, la società civile a mettere in discussione il Pil, mostrandone in maniera incontrovertibile incongruenze e substrato ideologico, altrimenti saremmo ancora all’anno zero. Se si può ammettere, seguendo l’insegnamento di Giorgio Fuà, che, fino ad un certo punto, la crescita del Pil pro-capite si è accompagnata ad un aumento della speranza di vita e ad una riduzione della mortalità infantile, oggi alla crescita del Pil non dovrebbe essere riconosciuta cittadinanza né valenza normativa (neppure in negativo!) in qualsivoglia programma progressista. Un tale programma, infatti, non può che prevedere una profonda riconversione ecologica, de-mercificazione, difesa dei beni comuni, sobrietà negli stili di vita e senso del limite: tutte cose la cui relazione con il Pil è molto problematica.
Ciò premesso, è necessario rifuggire da schematismi del tipo: il Pil non rappresenta il benessere, quindi va cambiato. Perché in quel quindi si annidano una premessa sbagliata e un salto logico. La premessa sbagliata è che sia possibile, modificando il calcolo del Pil, ottenere un nuovo indicatore sintetico, capace, però, di rappresentare il benessere; ciò richiederebbe di stabilire rapporti di scambio tra valori di natura affatto diversa, economici e non, dichiarando implicitamente che tutto è scambiabile e nulla è indisponibile (neppure i beni comuni!). Se è importantissimo supportare con strumenti di misura appropriati il perseguimento di obiettivi di giustizia sociale e sostenibilità, è molto più promettente, da questo punto di vista, un approccio basato non su una, bensì su più misure, separate e specifiche, per ciascuno degli obiettivi, purché in numero comunque contenuto. In effetti, la statistica ufficiale già offre parecchio al riguardo, più di quanto generalmente non si sappia, anche se molto è ancora da fare.
Il salto logico sta nella convinzione, spesso inconscia, che, poiché la società si regola sul Pil, anche i suoi obiettivi possano essere modificati cambiando il Pil. Ma, quand’anche si pervenisse ad una definizione del Pil soddisfacente, è improbabile che giornalisti, economisti, imprenditori, sindacalisti e politici continuerebbero a guardare al Pil (modificato) come al faro del progresso, come fatto finora. Più probabilmente, essi si affiderebbero ad un altro metro, funzionale, com’era il vecchio Pil, all’obiettivo della crescita dei valori monetari prodotti, senza mutare la sostanza del loro giudizio e della loro azione. La crescita consumistica è infatti condizione di sopravvivenza del sistema capitalistico e, se non si è in grado di concepirne e progettarne un altro, sempre ad essa si torna.
Facciamo due esempi. Per quanto riguarda il sindacato, il cui sacrosanto obiettivo primario è la difesa dell’occupazione, la coazione “crescitista” è l’esito naturale della rinuncia all’obiettivo della riduzione del tempo di lavoro. Per il centro-sinistra, la stessa ossessione è l’esito naturale dell’aver abbandonato, pure piuttosto precipitosamente, la critica al mercato per farsene invece principale, e spesso acritico, interprete, come notava qualche anno fa Roberto Schiattarella su “Democrazia e Diritto”. D’altra parte, in un capitalismo sempre più finanziario, dove monta l’enfasi su indici di borsa, rating, spread (da ultimo, incredibilmente, identificato dal governo come bussola per la riforma del mercato del lavoro) e col definitivo prevalere a livello comunitario del parametro deficit pubblico su tutto il resto, si ha quasi un moto di rimpianto per il vecchio Pil.
Di fatto, se il Pil riflette qualcosa che è effettivamente fondamentale nella società borghese e nel modo di produzione capitalistico, questo non può essere modificato cambiando la sovrastruttura ideologico-statistica, ma solo cambiando i meccanismi sottostanti. In tal senso, abbiamo paura che si finisca per concentrare troppa energia mentale nell’inseguire una rivoluzione statistica, nel costruire alchimie numeriche capaci di misurare e sintetizzare il nostro disagio esistenziale in questo mondo sempre più precario, piuttosto che concepire e costruire la transizione a un mondo migliore. Certo, dare corpo, parola e visibilità al disagio è fondamentale, parlare di come si misura un mondo migliore è un’autocoscienza importante; ma ha senso se poi si va oltre, si passa all’azione. Il pericolo è, oggi, che la proliferazione di strumenti “fai da te” generi, cannibalizzando sempre la stessa informazione, più rumore che altro. Duplicare il lavoro di una commissione che già è insediata presso il CNEL, e che ha il limite istituzionale di poter pensare a misurare il mondo, ma non a trasformarlo, rischia di non essere la strada più promettente per movimenti che hanno la vocazione a cambiare il mondo, e del misurarlo dovrebbero sì occuparsi, ma solo come atto propedeutico. Il rischio è che, in assenza di una precisa idea di alternativa e una determinata azione per realizzarla, si finisca per abboccare all’amo ideologico di chi è disposto pure a cambiare la misura, ma solo perché ormai non strettamente funzionale alle dinamiche ed esigenze del sistema produttivo di riferimento. Invero, come leggere altrimenti la mossa geniale di Sarkozy di istituire la commissione Stiglitz e l’emergenza, nei tre anni successivi, di un’Europa che ormai lascia pure cadere il Pil, per guardare a tutt’altri indicatori?
In conclusione, il nemico è la mercificazione della vita e dell’ambiente naturale, una mercificazione di cui il Pil e la sua crescita ci parlano piuttosto chiaramente e che non sarebbe evitata da una sua mera ridefinizione. L’azione sul Pil deve necessariamente accompagnarsi alla trasformazione in proposta e azione politica di una rivoluzione concettuale che ponga al centro del discorso gli stili di vita, i beni comuni, la parità effettiva delle opportunità, la qualità e distribuzione dei frutti generati dal processo socio-economico, l’accesso dignitoso ed equo ad essi, l’abbattimento dei costi sociali ed ambientali della loro creazione, la socializzazione delle decisioni, la riconversione ecologica e, non da ultimo, le forme (pacifiche!) di resistenza e di attacco.