A cosa è dovuta la crisi del modello distrettuale pratese? E come si lega al rapporto con la numerosissima comunità cinese? Qualche spunto per un’analisi
Il rapporto dell’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (Irpet) di gennaio 2014 conferma la provincia di Prato come il territorio con la più alta percentuale di popolazione immigrata in rapporto alla popolazione residente. Lo studio evidenzia inoltre che quella di Prato è tra le province con il più alto numero di imprese con un titolare straniero. L’analisi delle connessioni fra la massiccia presenza di comunità straniere sul territorio (su tutte quella cinese) e il tessuto socio-produttivo del distretto pratese non può prescindere da alcune specificazioni. Tra gli aspetti più caratterizzanti della città, oltre al modello di sviluppo distrettuale e le trasformazioni dello spazio urbano – spesso legate alle esigenze produttive – vi è la forte dinamica demografica che, a partire dal dopoguerra, coinvolge gruppi provenienti da luoghi sempre più lontani (1). Migrazioni, queste, profondamente legate alle dinamiche del lavoro. La parte più consistente degli immigrati proviene dai territori rurali dell’Italia centrale, le altre componenti riguardano invece gli immigrati dalle regioni italiane (prevalentemente meridionali) e gli stranieri.
La comunità cinese è saldamente al primo posto fra quelle straniere presenti ed è diventata negli anni sempre più centrale nei processi produttivi del distretto. Su 34.225 stranieri residenti nel Comune (17,88% della popolazione totale) ben 16.182 sono cinesi. Il crescente ed elevato numero di orientali che vivono a Prato rappresenta la conferma più evidente della rilevanza economica di questa comunità: su poco più di 29.000 imprese attive e dislocate su tutta la Provincia oltre 12.000 sono straniere(dati al 31/12/2012), ben 4.830 cinesi, prevalentemente costituite sotto forma di ditte individuali. Oltre la metà di queste sono concentrate nell’abbigliamento, dominato fortemente dalle aziende cinesi che costituiscono più dell’80% di quelle totali del settore. Questi dati devono far riflettere.
La comunità cinese, più di tutte, ha saputo interpretare al meglio i cambiamenti strutturali dei processi produttivi globali. Quasi li ha cavalcati. Cambiamenti determinati da nuove domande del mercato rispetto ai beni di consumo e ai ritmi di produzione esasperati richiesti. Come si colloca oggi dunque il distretto pratese nella globalizzazione? Per quale motivo Prato è diventata quello che è oggi? La struttura socio-economica di Prato è senza dubbio una delle più studiate del nostro paese, rappresentando, per molti aspetti, il paradigma stesso del modello distrettuale. Studi e riflessioni che hanno sempre esaltato un’economia incentrata sul forte legame tra mercato e comunità, mediata da istituzioni sociali e politiche attente alle esigenze collettive. Il distretto inteso quindi non solo come espressione del modello produttivo, ma come la rappresentazione più autentica di una città che faceva delle pratiche consociative fra i governi locali, i sindacati e le categorie produttive la sua cifra caratteristica, definendo una struttura sociale laboriosa e non conflittuale. L’economia pratese basata sulla piccola impresa fortemente specializzata nelle produzioni tradizionali funzionava a dispetto delle teorie economiche prevalenti, che vedevano nella crescita dimensionale dell’impresa e nell’investimento in nuove tecnologie l’unica via per il successo economico. Un sistema che, come detto, per decenni ha continuato a crescere mantenendo dimensioni aziendali minuscole e producendo beni a basso contenuto tecnologico.
Con la globalizzazione vi è stato però un mutamento radicale dei rapporti di produzione e Prato, come tante altre economie distrettuali, non ha retto l’onda d’urto di quella che è doveroso definire un’autentica rivoluzione spaziale. Rivoluzione che fa riferimento allo sconfinamento, lo sfondamento dei limiti produttivi e dei confini territoriali. Sconfinamento che produce l’effetto di ricondurre ad un unico spazio sociale globale integrato tutto ciò che un tempo era separato dalla distanza e che adesso, invece, entra in connessione (2).
La struttura economica del distretto quindi, basata sulla stretta connessione tra il pubblico e il privato e sui profondi legami orizzontali fra le piccole imprese dislocate sul territorio, perdendo il proprio spazio, sembra dunque perdere se stessa. La globalizzazione non può dunque avere un’esclusiva accezione economica; così come la struttura del distretto, anche se finalizzata alla produzione, non può avere una lettura solo in termini economicistici. I mutamenti sono avvenuti tanto nella sfera economica in termini di libera circolazione delle merci e dei capitali, della sempre più eloquente interdipendenza dei mercati del lavoro e rispetto ai processi di delocalizzazione delle imprese su scala globale, quanto nelle dinamiche sociali e politiche, strettamente connesse agli esiti produttivi della realtà distrettuale. È saltato un sistema. E l’esaltazione acritica a tratti mitologica del distretto ha generato nell’intera classe dirigente locale degli ultimi decenni la presunzione dell’autosufficienza del modello, che ha reso ovviamente inspiegabile la presenza cinese. Presenza che sarebbe stata – secondo la retorica dominante – da ascrivere a ragioni che nulla hanno a che fare con la storia produttiva di Prato.
Nelle dotte analisi di economisti, politici e imprenditori del territorio, prende sempre più corpo l’idea che la città sia vittima inconsapevole dello sviluppo di un modello produttivo. Non vi è mai una riflessione sulle connessioni che legano i laboratori di pronto moda – le ditte dei cinesi, per intendersi – al mercato italiano ed europeo dell’abbigliamento, alle grandi griffes; mai nessuna autocritica o l’identificazione di parallelismi – che pure ci sono – fra le dinamiche produttive del passato e quelle del presente. Nell’interpretazione encomiastica, il distretto sarebbe entrato in crisi solo per fattori esterni. E la presenza ingombrante sul territorio di una comunità come quella cinese rappresenta indubbiamente una bel capro espiatorio da utilizzare come concausa della crisi che sta attraversando Prato.
La realtà, che è molto complessa, ci consegna però degli spunti su cui riflettere: il distretto pratese non è vittima di un attacco esterno da parte della comunità cinese e il laboratorio di pronto moda rappresenta dunque il prodotto di una trasformazione radicale del paradigma produttivo tradizionale sotto la spinta delle pressioni dei mercati globali. Una trasformazione che ha trovato nell’assetto imprenditoriale e urbano locale un terreno perfetto per il radicamento e la crescita delle imprese cinesi. Ciò che non si è verificato negli anni in cui tutto andava bene sta accadendo oggi, in questa particolare fase dello sviluppo, con nuovi protagonisti a livello mondiale in grado di fare concorrenza a molti dei prodotti distrettuali e non solo a quelli.
Le caratteristiche della presenza cinese non sono dunque incidentali ma funzionali ad un modello produttivo sempre più esasperato, che già conteneva delle storture negli anni quando i soldi giravano e i cinesi non c’erano. Più o meno le stesse esternalità negative di cui oggi viene accusata la classe imprenditoriale cinese: il lavoro nero, la devastazione ambientale, il mancato rispetto dei diritti e delle garanzie per la salute dei lavoratori, lo sfruttamento, ecc. E le domande che riecheggiano sono sempre le stesse: il modello distrettuale è dunque arrivato al capolinea? La comunità cinese ha un ruolo rispetto alla sua crisi? Non vi è una risposta univoca. Indubbiamente la struttura del distretto è nel mezzo di un processo di trasformazione significativo e il distretto pratese nello specifico, a causa della sua particolare specializzazione produttiva, considerando la nuova domanda dei mercati globali, potrebbe aver esaurito parte della sua spinta propulsiva. Così come accade per altre realtà distrettuali, che hanno subito fortemente i mutamenti generati dalla globalizzazione. Quanto all’incidenza della presenza cinese rispetto alla crisi del “modello Prato” le interpretazioni possono essere le più svariate, spesso opposte fra loro. C’è chi interpreta la presenza della comunità orientale come un fattore di snaturamento dell’area che ha gradualmente ma radicalmente modificato le caratteristiche del tessuto socio-economico – con accezione negativa –; e chi invece sostiene il contributo delle imprese cinesi il fattore di tenuta di un sistema che altrimenti si sarebbe già sgretolato.
La tragedia del 1° dicembre 2013 del Macrolotto (zona di insediamento produttivo delle aziende cinesi a Prato) dove hanno perso la vita bruciati vivi nella fabbrica dove lavoravano sette operai cinesi, richiama sicuramente l’attenzione su uno dei fenomeni più complessi del paese. Non esistono soluzioni semplicistiche per una situazione drammatica come quella che emerge quotidianamente dalle cronache locali. Un segmento di città devastato da una globalizzazione selvaggia senza diritti, dove il lavoro è sostenuto a ritmi indecenti con paghe da fame e dove la fabbrica diventa il luogo in cui gli operai oltre a lavorare vivono in barba a qualsiasi garanzia di sicurezza. L’analisi del distretto e del rapporto fra la comunità pratese e quella cinese, della crisi e delle soluzioni per uscire dai gravi problemi che attraversano Prato, dovrebbe quantomeno partire da un presupposto preciso: dalla ricostruzione delle connessioni che legano l’attuale modello distrettuale al capitalismo sfrenato che attraversa il nostro tempo, tenendo ben presente che determinati modelli produttivi non sono entrati in crisi incidentalmente o per chissà quale dietrologia ma per effetto delle perversioni del sistema in cui ci muoviamo. E che queste radicali trasformazioni non determinano solo uno sconquassamento degli assetti di produzione ma penetrano in profondità nel tessuto sociale cambiandone i connotati, attaccando il sistema dei diritti e delle tutele, fino a calpestare la dignità umana.
1 Massimo Bressan e Sabrina Tosi Cambini (2011).Zone di transizione. Etnografia urbana nei quartieri e nello spazio pubblico. Bologna, il Mulino, pp. 203-205. 2 Marco Revelli (2009). Sinistra destra. L’identità smarrita. Bari, Editori Laterza.