In un libro di Mariano D’Antonio, economista ed ex assessore al bilancio nella giunta campana, la parabola discendente di una stagione
Tra le cause del declino italiano c’è anche un rapporto non risolto tra politica e tecnica. Si tratta di un paradossale frutto della cosiddetta seconda Repubblica: proprio con l’esplosione della crisi dei partiti tradizionali, si è ulteriormente indebolita la capacità della politica di accogliere nell’amministrazione della cosa pubblica competenze indipendenti, mentre contestualmente talvolta i tecnici che si avvicinano alla esperienza politica subiscono la tentazione di trasformare le competenze in credenziali adatte ad una carriera elettorale. Per questa via “si perdono i buoni professionisti al servizio del settore pubblico e non si guadagnano i nuovi talenti per la politica”: è questa una delle conclusioni alle quali giunge Mariano D’Antonio, professore di economia ed Assessore al bilancio, alla programmazione economica ed al partenariato sociale, tra febbraio del 2008 e marzo del 2010, nella ultima giunta Bassolino. D’Antonio ha raccontato la sua esperienza nel libro “Perchè la Campania ha le gambe deboli. Lezioni dal declino di Bassolino” (ilmiolibro.it., 10 euro): un racconto che offre elementi assai utili alla lettura più complessiva della crisi della politica e della crisi delle regioni meridionali.
E’ un percorso che cerca di mettere in luce le ragioni che hanno condotto al fallimento di una stagione di governo sul territorio del centro-sinistra, per tanti versi emblematica in quanto era partita dalla esperienza di un leader politico, Antonio Bassolino, che tante speranze aveva generato originariamente con la sua prima giunta al governo nella città di Napoli, a metà degli anni Novanta.
D’Antonio riconduce la crisi della politica innanzitutto all’indebolimento del tessuto civico, particolarmente visibile nel Mezzogiorno, dove “prevale la cosiddetta sindrome della risorsa scarsa, per cui l’individuo e la famiglia sono in competizione con altri e considerano il benessere ottenuto da altri individui e gruppi familiari come una sottrazione del proprio benessere”.
D’Antonio riepiloga i dati che segnalano l’arretramento nella qualità della vita in Campania, facendo riferimento all’indagine Quars di Sbilanciamoci! e ai suoi quattro indici relativi allo sviluppo umano, alla qualità sociale, alla spesa pubblica per abitante ed alla qualità ambientale: la Campania, che occupava nel 2002 il diciassettesimo posto tra le Regioni italiane, nel 2008 era scesa al ventesimo posto, cioè nell’ultima posizione. Se si prende poi in considerazione il monitoraggio condotto nel 2010 da Legambiente sulla classifica dei mari inquinati, si verifica che Campania, Calabria e Sicilia registrano questo poco invidiabile primato, con la Campania in testa in Italia per punti critici d’inquinamento marino (uno ogni 20 km di costa).
Lo stato della finanza regionale, pesantemente indebitata, riduceva fortemente i margini possibili di manovra, determinando da un lato la necessità di una ristrutturazione del debito, per allungarne i tempi di ammortamento e per ridurne il peso finanziario, ed inducendo dall’altro – da parte dell’assessorato al bilancio – un atteggiamento vigile sulla sostenibilità.
L’ex assessore racconta nel suo libro le battaglie in consiglio regionale in sede di discussione della legge di bilancio, con un atteggiamento prevalente, sia nella maggioranza sia nella opposizione, a catturare il consenso minuto piuttosto che a proporre emendamenti di interesse generale: “Tra questi minuti emendamenti c’erano quelli relativi a lavori di restauro di chiese parrocchiali. Un’ondata di devozione religiosa sembrava che avesse colto molti consiglieri, ma non era difficile leggere dietro questi emendamenti il tentativo di catturare la benevolenza dei parroci che specie nei piccoli centri della Campania rimanevano come punto di riferimento degli elettori una volta chiuse le sezioni dei grandi partiti”.
Al centro del dissesto c’è la gestione sanitaria, che assorbe gran parte delle risorse: nel caso della Campania rappresenta, con 10 miliardi di euro all’anno, i due terzi delle spese complessive. Nonostante questo poderoso costo di gestione, la Campania è la regione che ha registrato nel 2009 il debito più alto per la mobilità interregionale dei suoi pazienti (289 milioni di euro da versare alle altre regioni). Si tratta di una imponente macchina amministrativa, che occupa oltre 72.000 dipendenti, tra strutture pubbliche e private. La governance sanitaria in Campania è stata orientata a fini più di consenso politico, che non con l’obiettivo di erogare servizi di qualità ai cittadini. L’instabilità ed i conflitti che si sono determinati nella giunta Bassolino su questa area riguardavano più temi di assetto politico e di equilibrio di potere, che non percorsi di miglioramento nel processo di erogazione del servizio.
Sull’utilizzo dei fondi comunitari, D’Antonio innanzitutto evidenzia il forte accentramento di competenze nell’ufficio di presidenza della regione, con un indirizzo maggiormente teso ad un dispersione delle risorse europee in mille rivoli, ovviamente più che per motivi di consenso elettorale che non per secondare un disegno di sviluppo. Viene anche spiegato il meccanismo dei cosiddetti progetti coerenti, o progetti sponda, con i quali, al posto dei progetti originariamente presentati alla Unione Europea, venivano rendicontati altri progetti in gran parte già realizzati e finanziati con altre risorse nazionali o locali.
Una stima del ministero dell’Economia affermava che i pagamenti ammessi per i progetti coerenti ammontavano a fine 2005 a circa un terzo della spesa totale prevista in circa 46 miliardi di euro. Le regioni meridionali, in seguito alle rivenienze finanziare generate dai progetti coerenti, potevano disporre a luglio del 2010 di quasi 13 miliardi di euro, resisi liberi per essere reinvestiti secondo le destinazioni iniziali dei fondi strutturali europei.
Anche laddove, come nel settore dei trasporti, si è manifestata in Campania maggiore capacità di attivare e realizzare progetti, è emerso comunque un punto di debolezza e criticità: “la scissione tra progettazione e successiva gestione, come caratteristica tipica di un’economia centralmente pianificata, una programmazione alla sovietica, che impiega massicci fondi pubblici in fase di costruzione e di collaudo senza curarsi troppo delle fasi successive di manutenzione e di corretta gestione degli investimenti realizzati”.
In una politica sempre più guidata dalla comunicazione e dall’immagine, si afferma quella che D’Antonio chiama “una sussidiarietà alla rovescia”, vale a dire la tentazione ricorrente nei politici a passare il cerino acceso dal livello istituzionale più basso ai livelli via via più alti. Va poi aggiunto che questo percorso si accompagna anche, a livello del governo nazionale, ad una sussidiarietà evocata solo quando conviene ributtare la palla dei mancati risultati sui livelli territoriali inferiori, anche quando spetterebbe alla politica nazionale di definire le scelte. Insomma, una fuga complessiva dalla assunzione di decisioni, in entrambe le direzioni, in un gioco puramente di immagine al centro del quale c’è l’acquisizione del consenso elettorale, e non la soluzione dei problemi dei cittadini.
Proprio per questo resta sullo sfondo la sfida che dovrebbe stare a cuore a tutta la classe politica, quella di individuare le ricette di politica economica necessarie per far crescere, come scrive Mariano D’Antonio, “imprese e capitale umano di buona qualità nelle produzioni manifatturiere, nei servizi privati e pubblici forniti alla popolazione”.