Nel volume La fabbrica del manifesto (Manifestolibri) Luciana Castellina e Massimo Serafini, hanno raccolto documenti, memorie di protagonisti, materiali su sindacato e politica negli anni delle lotte operaie 1969-79, mettendo al centro il ruolo avuto dal Manifesto-Pdup e dalla nuova sinistra.
Il testo che segue è estratto dal volume “La fabbrica del manifesto” (edito da Manifestolibri) di Luciana Castellina e Massimo Serafini, raccolta di documenti, memorie di protagonisti, materiali su sindacato e politica negli anni delle lotte operaie 1969-79 mettendo al centro il ruolo avuto dal Manifesto-Pdup e dalla nuova sinistra.
La presentazione del libro sarà online sul sito Facebook di Sinistra Italiana della Toscana venerdì 14 maggio 2021 dalle ore 18 con gli autori, il segretario della Fiom di Firenze Daniele Calosi e Nicoletta De Angelis segretaria Nidil Cgil di Prato. Introduce e coordina Mauro Santoni di SI Toscana.
Per acquistare il libro, dal sito: il manifestolibri.
Negli anni’60 era emerso non più solo il problema del lavoro come base della produzione di ricchezza, come cuore del sistema economico, ma qualcosa di molto più grande: un nuovo soggetto politico protagonista, operaio ma anche studente, che proprio a partire da una sia pure confusa percezione del carattere alienante del lavoro pretendeva una società completamente diversa.
Per dirlo con le parole dell’operaio Sergio Gaudenti: «Il padrone con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele. Tu ti vendi e io ti pago. Poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio marcire […] la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare […] Ma l’operaio è una merce un poco speciale, non basta vendersi a un buon prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace ai padroni […] È una merce, questa, che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo consumo, per questo ora si fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio».
Fu in quegli anni che nelle università si cominciò a prendere consapevolezza di un mutamento profondo che coinvolgeva gli studenti, nel frattempo raddoppiati ma non per questo appagati, destinati anzi a una proletarizzazione che li avvicinava, di fatto, alla problematica dei nuovi fratelli della fabbrica. E così persino i rinnovi dei contratti di categoria dell’industria diventarono eventi politici veri e propri, che coinvolsero una pluralità di soggetti sociali, e le istituzioni politiche. Come ha scritto lo storico Carlo Felice Casula: «non increspature della storia di quegli anni, ma la precipitazione e il coagulo di processi di trasformazione profonda dei comportamenti» (…).
Le date da tenere connesse se si vuole capire cosa accadde in Italia sono dunque innanzitutto il ’68 e il ’69, ma neppure queste bastano: occorre andar oltre, fino al ’72, quando si strappa il secondo leggendario nuovo contratto dei metalmeccanici, ma forse anche al di là, perché fino al ’79 – pur nel pieno della «solidarietà nazionale» – l’onda produsse conquiste memorabili, che ebbero riflessi anche legislativi. Non si è trattato, dunque, solo, di un «secondo biennio rosso», come Trentin ribattezzò il ’68/69, evocando il primo che segnò il dopoguerra fra il ’19 e il ’21 (…).
Proprio su questo terreno si verifica, a partire dal 1969, l’incontro fra soggetti sociali diversi da quelli che tradizionalmente avevano animato la contestazione anticapitalista: ai loro coetanei operai si aggiungono gli studenti, i tecnici, molti giovani intellettuali. Per i primi la base materiale dell’insorgenza è proprio la scoperta che l’accesso alle scuole superiori e all’università, sebbene assai aumentato, apre la strada a una collocazione sociale ben al di sotto dello status sperato, quello un tempo riservato a chi usciva dalle scuole di élite. Entrava così in scena l’«intellettuale proletarizzato», prodotto da una scuola pubblica allargata ma in cui le disuguaglianze sociali anziché ricomporsi come sperato si moltiplicano grazie a non codificate esclusioni. Mentre fra i giovani operai, che si politicizzano nella grande ondata di lotte per il rinnovo dei contratti del 1969, cominciano a maturare rivendicazioni che non investono più solo il salario o l’orario, ma più in generale quelle che riguardano l’intera vita, la natura stessa del lavoro, l’organizzazione fordista, i ritmi, la salute, l’egualitarismo, e cioè la riduzione delle disuguaglianze retributive, il diritto a rappresentarsi direttamente e non solo attraverso la mediazione esterna del sindacato (…).
Il confronto/scontro sui delegati
Il terreno di incontro e di scontro fra tutti i protagonisti della «primavera calda» che precede l’«autunno caldo» del ’69 è quello della rappresentanza, rimessa giustamente in discussione, per via della crescente burocratizzazione delle tradizionali Commissioni Interne e, in generale, del distacco cresciuto fra organismi sindacali esterni alla fabbrica e lavoratori immersi nella produzione. È in questo contesto che prendono corpo nuovi organismi che partono dal basso, sulla linea o nel reparto. Si tratta di iniziative spontanee tant’è vero che laddove hanno avuto inizio, alla Pirelli o alla Marzotto, stando al testo dell’accordo che le accoglie, non sembrano esser molto diverse dalle commissioni interne. Ma è la spinta innovativa che preme a cambiarne il carattere, fino a renderle molto autonome. A Mirafiori, per esempio – dove il primo accordo sui delegati (primavera ’69) viene raggiunto addirittura sulle scale dell’adiacente balera Bambi e solo poi sottoposto alla direzione provinciale della FIOM – i primi 56 delegati avrebbero dovuto essere designati dai sindacati; e invece vengono subito eletti dalla squadra e poi ratificati dai sindacati che si trovano sempre più di fronte a fatti compiuti. Che tuttavia, nonostante resistenze e diffidenze, vengono via via accolti.
I delegati del gruppo omogeneo di lavoro sono il primo passo verso la formazione dei veri e propri Consigli di Fabbrica, che si diffondono rapidamente nel paese. Si vogliono politici e autonomi dai sindacati, ma non in rottura con loro. Con la richiesta di autonomia si vuole sottolineare soprattutto l’ampiezza del loro orizzonte rivendicativo, che va ben oltre i limiti di un successo vertenziale perché l’obiettivo è tutto politico, è la costruzione di un contropotere nella fabbrica. Anche per questo vogliono essere – e così sarà – espressione diretta di tutti i lavoratori, anche non iscritti alle organizzazioni sindacali.
Già agli inizi del 1969 erano cominciate in molte fabbriche le prime sperimentazioni di lotta interna, sul rifiuto del cottimo e dei ritmi di lavoro, che rendono manifesta l’inadeguatezza delle commissioni interne, ma anche dei CUB, anch’essi esterni. Ora si comincia invece a individuare la base della rappresentanza nel reparto; e poi nella struttura ancora più piccola, e dunque più vicina ai lavoratori: i gruppi omogeni della fabbrica, la linea di montaggio, la squadra. L’obiettivo è di inserire, in ognuno degli snodi in cui si articola l’organizzazione padronale del lavoro, un contropotere organizzato. Si tratta di un salto di qualità non solo per i contenuti rivendicativi, ma anche per le forme di lotta in cui vengono espressi. Sono infatti decise in assemblee nei luoghi di lavoro e non più nelle sedi esterne del sindacato. E spesso prendono la forma detta «pratica dell’obbiettivo», vale a dire che quanto si chiede si applica anche se non c’è stato in proposito alcun accordo con il padrone: innanzitutto il rallentamento dei ritmi di lavoro, il famoso «salto della scocca» alle linee di montaggio nelle aziende automobilistiche, tradotto nel «salto del cesso» grazie all’iniziativa di Antonio Cajella, operaio dell’Ideal Standard, azienda produttrice di accessori da bagno, e leader del collettivo studenti/operai del Manifesto di Salerno.
È un processo spontaneo e di base, certamente influenzato dalle lotte studentesche, a cui però, a differenza dalla Francia, il sindacato, in particolare quello metalmeccanico (diretto dalla Fiom di Bruno Trentin, dalla Fim-CISL di Pierre Carniti e dalla Uilm di Giorgio Benvenuto) non chiude la porta in faccia, ne accoglie anzi lo stimolo per poi farne, dopo la vittoria contrattuale del 1969, il famoso «autunno caldo», la base stessa del sindacato in fabbrica. I delegati e i Consigli di Fabbrica che si formano, vengono infatti ufficialmente riconosciuti. Alla fine del 1970 i CdF sono già 1.374 con 22.609 delegati: nel 1971, 2.566 con 30.493 delegati, nel 1972 un totale di 83.000 delegati.
Non fu naturalmente un tempo indolore, perché affiorarono subito fra gli stessi gruppi della nuova sinistra che operavano dentro e fuori dalla fabbrica, divergenze, non solo tattiche, anche su questa innovazione. Le nuove forme autonome emerse nei reparti, pur inizialmente sollecitate da Potere Operaio e Lotta Continua, dal momento in cui vengono riconosciute dal sindacato e si strutturano per dar vita ai Consigli, vengono da loro stessi osteggiate, nel timore diventino strumenti «in cui la lotta operaia viene imprigionata» (quotidiano Lotta Continua febbraio ’70). E così, in nome di una pratica puramente assembleare che sfocia nello slogan «siamo tutti delegati», si sviluppa una lunga polemica.
Il nocciolo dello scontro è tutto politico: fra chi pensa all’iniziativa in fabbrica nei termini di un processo rivoluzionario a breve, e quindi alla necessità di liberarsi dalla gabbia sindacale; e chi invece pensa ai CdF come a organismi non nemici del sindacato, ma come strumenti che, in quanto autonomi, possono essere in grado di spingere il sindacato su posizioni più avanzate, sì da potenziare i rapporti di forza politici. Solo parecchi anni più tardi Lotta Continua si farà in merito l’autocritica. Il Manifesto, ma anche il PSIUP, furono invece subito a favore, considerandoli una fonte di rigenerazione dal basso del sindacato e portatori di una visione, al di là delle etichette, tutta politica. Ma a favore i due gruppi – che non a caso finiranno per unificarsi nel nuovo partito, il PdUP per il Comunismo – lo sono anche in nome di una comune provenienza politico-culturale dal pensiero consiliare di Rosa Luxemburg, per cui guardano subito ai CdF come al possibile embrione di una più ambiziosa struttura: quella invocata da Gramsci quando nei Quaderni aveva indicato la necessità di costruire consigli come forme stabili di democrazia diretta, indispensabili a ridurre l’autoreferenzialità dei Partiti e a condizionare l’arbitrio dello stato. Non solo dunque controparte rivendicativa del padrone, ma anche come organismi capaci di riconquistare pezzi di gestione della società espropriati dalla burocrazia statale. Un’ipotesi, questa consiliare, che ha avuto una interpretazione riformista – e accentuatamente «collaborazionista» – da parte del sindacato della Repubblica Federale Tedesca, ben lontana da quella che era inspirata dalla prospettiva leninista dell’estinzione dello stato.
Il punto più caldo del conflitto fra nuova sinistra e sindacato si ha proprio a Porto Marghera dove, per via di un accentuato conservatorismo del sindacato chimici, ben 5 dei 7 membri della Commissione Interna del Petrolchimico, fra cui il leggendario Sbrogiò, aderiscono al Comitato promosso da Potere Operaio (e per questo vengono espulsi dal sindacato) che acquista dunque largo seguito fra i lavoratori. E tuttavia la diffidenza di Potop per ogni innovazione nei metodi e contenuti di lotta che emerge dalla base ma alla fine, magari solo controvoglia, viene accettata dal sindacato, l’induce a opporsi ai nuovi organismi nel sospetto che consentano l’infido controllo della burocrazia. Proprio questo atteggiamento finisce per isolare il gruppo del Petrolchimico dalla maggioranza dei lavoratori della fabbrica. Quando a Venezia arriva un esponente più di sinistra dell’assai conservatore sindacato dei chimici – Corrado Perna – che cerca di correggere la linea della CGIL, fra le altre iniziative che avvia, prende anche quella di invitare in assemblea il Consiglio Comunale di Venezia per coinvolgere la città nella vertenza. E però quando questo si impegna ad elargire danaro per sostenere lo sciopero dei lavoratori, Potop boicotta denunciando in un volantino l’incontro come « Festa di Beneficenza»
Paghe di classe e struttura delle qualifiche
Questo non vuol dire che le resistenze del sindacato non siano state significative. Esemplare la vicenda dell’Italsider di Bagnoli su una questione di grande importanza: l’attribuzione delle qualifiche, che non a caso emerge alle piattaforme rivendicative di molte altre fabbriche. È proprio su tale questione che, nella lunga primavera che precede l’autunno caldo del ’69, parte dall’azienda napoletana la lotta. I lavoratori vogliono cancellare le paghe di classe, o job evaluation. Si tratta di un nuovo metodo di valutazione delle qualifiche. Alla valutazione del valore dell’operaio si sostituisce la sua collocazione nel processo produttivo, così riducendolo a un pezzo di macchina. (Fu proprio perché quasi 20 anni prima scrivemmo un articolo critico su questo accordo firmato da Lama sul settimanale della FGCI che allora dirigevo – Nuova Generazione – che mi fu posto accanto, dalla direzione del PCI, per controllarmi, un condirettore: Achille Occhetto). La vertenza innescata dai lavoratori di Bagnoli porta alla fine a un accordo che annulla nella sostanza l’intero sistema delle paghe di classe conferendo all’assemblea di reparto il potere di valutazione delle rispettive qualifiche
Difficile risulta anche far assumere dal sindacato – che lo ritiene parola d’ordine demagogica – una posizione sull’egualitarismo, pur reclamato da larga parte dei lavoratori della fabbrica. (Così giudicherà qualche anno più tardi l’obiettivo anche Trentin in una assemblea della FIOM). Non ha colto che «gli aumenti uguali per tutti» non sono demagogia ma un modo per scardinare il sistema disciplinare in atto nelle fabbriche, che affida tutto – anche i passaggi di qualifica – all’arbitrio dei capetti (alla Fiat ce ne sono 3.000 solo a Mirafiori).
I delegati di reparto si impongono comunque perché forti del riconoscimento delle lavoratrici e dei lavoratori, per la capacità che essi dimostrano di sapere condurre le lotte e strappare al padronato conquiste crescenti. Molto informali all’inizio, si vanno rapidamente strutturando, tanto è vero che moltissimi (stranamente non quelli delle aziende più grosse) pubblicano un loro giornale (44 a Milano, 20 a Torino, 9 a Firenze, 5 a Vicenza, 2 a Genova, 2 a Livorno, 1 a Trento, 1 a Roma, 1 a Marghera, 1 a Treviso; nessuno nel mezzogiorno).
Preparata da queste lotte nate nei reparti la consultazione sulla piattaforma con cui i metalmeccanici vanno al contratto nell’autunno del 1969, rappresenta comunque una svolta. Avviene in un contesto di lotte dure e generalizzate contro l’organizzazione del lavoro in cui i delegati sono ormai una realtà e indicono scioperi interni e a scacchiera, cioè fermando un giorno alcuni reparti e il seguente gli altri, sì da ridurre il costo che l’astensione dal lavoro impone ai dipendenti ma ugualmente paralizzando la produzione. La base operaia impone così una piattaforma molto avanzata; che trascinerà il resto delle categorie industriali.
Il contratto alla fine viene strappato dopo una straordinaria manifestazione dei metalmeccanici a Roma nell’ottobre. Oltre all’aumento uguale per tutti il padronato è costretto a concedere le 40 ore settimanali e il diritto di assemblea in fabbrica, soprattutto diventa norma il riconoscimento della lotta articolata e cioè il diritto, fra un contratto nazionale di categoria e l’altro, di aprire vertenze aziendali. Una pratica che per tutto il 1970 e il 1971 si diffonde fra i lavoratori e che non concede tregua. Nel luglio del 1970, al XV Congresso della Fiom, viene approvata una mozione con la quale i Consigli di Fabbrica vengono definitivamente consacrati a livello nazionale come la nuova rappresentanza del sindacato in azienda, in sostituzione delle vecchie commissioni interne (una decisione che contribuisce alla loro diffusione, ma che incontra la protesta di Lotta Continua e di Potop, che vi vedono solo un subdolo tentativo sindacale di ricondurli sotto il loro controllo. Un effetto che, laddove i delegati sono forti dell’appoggio della squadra, non si verificherà).
Il passo successivo è di due anni dopo, nel 1972 a Genova, in occasione della formazione della FLM, la federazione dei tre sindacati metalmeccanici della CGIL, della CISL e della UIL. L’assemblea approva la nuova piattaforma contrattuale in cui non solo si confermano gli aumenti uguali per tutti, ma anche la mobilità verticale e cioè la creazione di una qualifica che intreccia impiegati e operai (…).
1980: la sconfitta alla Fiat
Tutti, comunque, vecchia e nuova sinistra, fummo incapaci di cogliere per tempo i caratteri, e l’efficacia, della controffensiva padronale che seguì la prima sconfitta seria, quella alla Fiat, nel 1980. I 35 giorni di resistenza e semi occupazione della fabbrica furono un’ultima spavalda resistenza. Ricordo ancora con emozione che riuscii allora, per la prima volta, a vedere le carrozzerie di Mirafiori dal di dentro e non come sempre arrampicandomi al muro di cinta. Perché potemmo, invitati dagli operai, fare un vero comizio dentro il recinto. Ma la soddisfazione durò poco: la marcia dei 40.000 pose fine a tutto. Non si trattò di un evento che riguardava solo la vertenza di un grande gruppo industriale, ebbe portata ben più generale, perché, come ha scritto Marco Revelli: «decideva il segno e il senso di una intera fase storica». Le dimensioni e la natura della trasformazione che seguì non furono afferrate come avrebbero dovuto. Cominciammo certo a usare anche noi la parola «postfordismo», ma ci furono solo intuizioni, documentazioni settoriali, percezioni. Non fu subito chiaro come questo avrebbe fornito la base per una frantumazione della classe operaia, non solo sociale ed economica ma anche culturale, che in realtà si sarebbe modificato persino il paesaggio, con la sparizione delle grandi fabbriche, al loro posto gli enormi capannoni della logistica e le piccole, anzi piccolissime fabbriche cui la grande azienda aveva ceduto le mansioni meno convenienti. Queste fabbrichette sono oggi il 95% delle aziende industriali e ciascuna occupa meno di 9 lavoratori. Per porre fine al famoso biennio rosso ’19/’21 c’era voluto il fascismo, adesso si ricorse a una drastica trasformazione del lavoro: al posto dell’«operaio massa» era arrivato, come ha scritto Aris Accornero, «l’operaio diffuso». Le lotte del nostro decennio rosso avevano dimostrato che la grande fabbrica era ormai ingestibile (…).
Poteva andare diversamente? Era difficile, ma forse sarebbe stato possibile.