Il terzo settore sta cambiando pelle. Mentre vent’anni fa rivendicava per sé il ruolo di soggetto politico non partitico, con un ruolo autonomo anche di critica e di proposta, oggi è sempre più un realizzatore di servizi e politiche a cui non contribuisce, che non elabora. Ma saper coniugare gestione e partecipazione è fondamentale per […]
Qualche giorno fa Carla Furlan – già segreteria generale della CISL – è stata nominta portavoce di una nuova rete del terzo settore (chiamata “Plurale”) che si affianca al Forum permanente del Terzo Settore, la rete più rappresentativa delle organizzazioni non profit, nata nel lontano 1993. Il terzo settore è una realtà importante: 350 mila organizzazioni con più di 850 mila occupati e milioni di volontari.
La diversificazione delle reti di rappresentanza non è di per sè un male. In questo caso si tratta di reti di natura “sindacale”, organizzazioni “di categoria”, che difendono gli interessi (economici, fiscali, normativi) del proprio ambito. Anche in questo caso nulla di male, se questo non fosse anche il termometro di un cambiamento di una parte del mondo del terzo settore (quello più legato alla gestione dei servizi ed operante per conto della Pubblica Amministrazione), schiacciato sempre di più su una dimensione operativa ed esecutiva, parastatale o paramercato, e sempre meno capace di un “punto di vista” generale, e poi soprattutto di metterlo in pratica.
Negli anni ‘90 il terzo settore rivendicava per sè il ruolo di “soggetto politico” (non nel senso di partito, ma di soggetto di cambiamento generale), mentre oggi si adatta ad essere un mero realizzatore di servizi e politiche cui non contribuisce a elaborare. Negli anni ‘90 il terzo settore rivendicava per sè un ruolo di denuncia, di critica, di cambiamento. Oggi, l’enfasi di questo ruolo è totalmente scomparsa.
Nella scorsa legislatura una legge delega (sul terzo settore) ha aperto la strada ad un profluvio di atti regolatori, decreti, ecc. (alcuni certamente positivi) che stanno producendo una sensazione di ingabbiamento e un meccanismo di rigetto verso le misure previste, quali il Codice del Terzo Settore e il Registro Unico del Terzo Settore, ecc.
Quando il governo Depretis provò nel 1886 a regolamentare le Società Operaie di Mutuo Soccorso (vantaggi fiscali in cambio del controllo prefettizio degli statuti), il 90% delle mutue si rifiutò di aderire, difendendo la propria autonomia. E’ passato molto tempo, ma alcune logiche sembrano ripetersi ed è per questo molte organizzazioni del terzo settore stanno pensando oggi di non aderire a quanto previsto dalla legge delega.
Più in generale, la tendenza in atto da anni è quella di una progressiva burocratizzazione, mercatilizzazione e professionalizzazione della parte economicamente più importante di questo mondo (non più del 5-6% delle organizzazioni) producendo un doppio isomorfismo, verso il mercato e verso lo Stato. E’ una tendenza che andrebbe scoraggiata riportando il terzo settore al suo valore più importante: quello di saper coniugare la gestione di servizi, la cittadinanzattiva e la partecipazione democratica e la critica dell’ordine delle cose, che produce ingiustizie e diseguaglianze. Questa la sfida da affrontare per non ridursi ad un ruolo residuale.