In questo momento di crisi, in cui il virus ci sta rivelando i limiti della nostra organizzazione sociale, il rovesciamento del “paradigma della cura” serve a pensare la ricostruzione in un modo nuovo, imparando dalle femministe latino americane.
La “pausa” che ha coinvolto più della metà della popolazione mondiale per quasi due mesi a causa del Covid 19 sta arrivando agli sgoccioli e, come una gigantesca onda che si ritira dopo uno tsunami, lascia intravedere un panorama lunare e sconosciuto, segnato dallo sconvolgimento delle vite e degli immaginari singolari e collettivi. Il desiderio di uscire in fretta da questa condizione di segregazione è comune, ma diverse sono le idee sulla possibile ripresa perché il rovesciamento tra i tempi dedicati alla produzione e alla riproduzione, campo privilegiato dell’analisi femminista, e lo spostamento dei contatti dal reale al virtuale hanno fatto intravvedere nuove possibilità e nuove minacce sia a chi vuole tornare “come prima” sia a chi ritiene che quella “normalità” fosse il problema. Questo è stato lo slogan della rivolta scoppiata in Cile nell’ottobre del 2019 dopo il rincaro dei biglietti della metropolitana che ha dato voce alle tensioni presenti nel paese contro le disuguaglianze e della corruzione, ereditate dalla dittatura di Pinochet.
Negli ultimi mesi prima della pandemia il mondo è stato invaso da una serie di rivolte in quasi tutti i continenti: dalle sponde Sud del Mediterraneo in Libano e in Algeria, al tormentato Medio oriente in Iraq e in Iran, all’India di Modi, senza contare la lunga protesta di Hong Kong contro le restrizioni cinesi o l’ondata delle proteste dei più giovani contro il cambiamento climatico. Rivolte popolari che le donne in molti casi hanno guidato con convinzione e sicurezza a partire dalle denunce contro la violenza sistemica, l’olocausto dei migranti, la precarietà del lavoro e l’insostenibilità delle relazioni sociali e dello sfruttamento delle risorse ambientali. Fino a quando la pandemia ha messo “in pausa” il dissenso globale.
Le proteste per un cambiamento radicale del modello neoliberista e dell’autoritarismo delle destre razziste e sessiste sono state costrette nei circuiti delle reti virtuali, marginalizzate proprio nel momento in cui salute e cura del mondo si prendevano la scena. Nelle prime settimane del virus sconosciuto, segnate dall’angoscia del conto delle morti e dell’espansione del contagio, c’è stata un’ondata di pubbliche retoriche sulla famiglia, sull’unità di intenti in nome delle patrie, sulla guerra all’invisibile nemico e sulla responsabilità per le vite proprie e altrui. Poi, con il lento appiattirsi delle “curve” emergenziali sono iniziate le nuove paure per la tempesta economica e finanziaria che si è prodotta.
Le numerose e sagge analisi sulle cause di lungo periodo della pandemia, sulla possibilità che possa costituire un’occasione di radicale cambiamento dei modi, dei tempi e della qualità dell’organizzazione sociale, stanno cedendo il posto alle pressioni e al comando dell’economia nella narrazione pubblica. Economia e salute sono di nuovo poste in modo antitetico da una politica esausta e, in misura maggiore o minore, tirata a traino da quelli che cercano di ripristinare l’esistente massimizzando i loro profitti con i soldi pubblici e continuando in quella “shock economy”, per usare l’efficace analisi di Naomi Klein, che opera come una spirale entropica producendo disastri ecologici e umani.
La pausa forzata, il lockdown, potente per il numero dei paesi coinvolti, che per un attimo ci ha parzialmente liberato dalla morsa dell’iper-consumo e delle “catene di valore globale”, ci ha svelato che, se volesse, la politica potrebbe risolvere i maggiori problemi che affliggono il pianeta e i suoi abitanti, dal cambiamento climatico alla povertà e alla fame.
È successo perché questo virus, diversamente dall’Ebola, dalla Sars, dallo Zika o anche dall’HIV AIDS, che sembrava colpire solo gay e prostitute, ha posizionato l’occhio del ciclone proprio dove il mercato, globale e interconnesso, ha i suoi centri nevralgici. Pochi danno rilievo al fatto che il Covid 19, dopo la Cina e la Corea del Sud, ha colpito prima e in misura maggiore Europa e Stati Uniti. Tuttavia, basta un’occhiata alle mappe quotidiane della John Hopkins University sull’andamento della pandemia, per avere evidenza del fatto che le iniziali fosche prospettive di uno scatenamento del Covid 19 nelle aree più povere del pianeta meno attrezzate per resistere, si sono manifestate per ora, anche al netto della parzialità dei dati, in una progressione relativamente lenta e gestibile. A oggi, il detto medievale “populorum miseria morborum genitrix” sembra si sia applicato soprattutto in quei paesi, ricchi o emergenti, in cui la salute è divenuta merce di scambio, creatrice di disuguaglianze, subalterna a un approccio tecno-scientifico e agli interessi degli investitori privati. Non a caso negli Stati Uniti muoiono più gli afroamericani nei ghetti metropolitani e in Italia muoiono più i vecchi, gli eccedenti e gli emarginati negli ospizi.
Di fronte all’emergenza imprevista quella medicina, tarata per prolungare la vita, si è scoperta senza strumenti ed è ritornata indietro di secoli, al Medioevo. Quando cioè il controllo sociale e il destino di molti era nelle mani di pochi proprietari di terra e di anime, clerici e guerrieri, mentre “la cura del vivere” era affidata alle donne. Qualcuno sarà tentato di dire: ora come allora, ma non è proprio così.
La modernità, che aveva scoperto nella cura uno strumento funzionale al comando sulle vite, da tempo aveva espropriato le donne della potenza dei loro saperi (la caccia alle streghe ne è l’esempio più tangibile e conosciuto) trasformando il loro fare in un illimitato e gratuito giacimento di risorse su cui, da allora in poi, si è costruita la crescita economica. A disposizione, come la terra, l’acqua, le piante e gli animali. O come gli schiavi il cui lavoro manteneva l’oikos .
Quando, sin dagli anni Settanta, i movimenti femministi denunciarono l’esproprio patriarcale a partire dall’analisi della riproduzione umana e rivendicarono uno spostamento simbolico fondato sulla libertà di pensare le regole del mondo a partire dalle proprie soggettività, non furono credute. Eppure il cambio di passo riguardava la riproduzione della vita in tutte le sue forme: dalla procreazione umana alla scomparsa della biodiversità e al concetto stesso di lavoro. Era un pensiero necessario per contrastare la globalizzazione dei mercati e la distruzione del welfare prodotti dalla trasformazione neoliberista perché apriva un terreno di conflitto non più legato solo alla diade capitale-lavoro, ma capace di cogliere l’espansione della violenza estrattiva del capitalismo anche in “quel di più” essenziale alla vita, inteso, soprattutto, come potere di plasmare comportamenti e relazioni che va sotto il nome di “cura”.
Quasi dieci anni fa con il “Gruppo Femminista del Mercoledì”, cui appartengo, pubblicammo un opuscolo intitolato La cura del vivere, dove la cura era intesa non come un destino femminile, costrizione servile o bene di mercato, ma come un paradigma, un modo nuovo di contendere il comando sulle vite al capitalismo globalizzato e un rovesciamento di senso della politica verso la dimensione del buon vivere. Da allora ci abbiamo ragionato molto, se pure con difficoltà e lentezza, per la complessità dei piani che coinvolge. Non posso, tuttavia, fare a meno di tornare a quella prospettiva quando, con le poche energie rimaste libere dal trauma, cerco di pensare al futuro immediato che ci attende.
In questo momento di crisi, in cui il virus ci sta rivelando i limiti della nostra organizzazione sociale il rovesciamento del “paradigma della cura” serve a pensare la ricostruzione in un modo nuovo. Di fronte alle macerie sociali ed economiche provocate dal lockdown e dalle ansie dell’uscita, gravate da una diversa coscienza della vulnerabilità e della morte, ripensare all’ordine delle priorità, a partire dall’ascolto delle differenze nel modo di stare insieme, può innestare un movimento lungo di trasformazione perché nulla torni più come prima. Non solo nelle delle aree del mondo in cui nei mesi precedenti alla pandemia erano scoppiate le rivolte di chi si ribellava alle ingiustizie e agli abusi.
Contro l’incuria di una politica che di questa congiuntura imprevista vede solo l’aspetto della produzione e dell’accumulazione di ricchezza, anche dove la povertà non è costituita dalla mancanza di beni, ma dall’esclusione e dalla marginalità, dovranno levarsi molte voci, decise e consapevoli. Occorre trasformare quello che è accaduto nel cuore del sistema globale, da New York a Francoforte, a Singapore, da Cupertino e Mountain View a Shangai o alla stessa Wuhan, dove il virus è comparso, non in una spinta all’uso indiscriminato delle “piattaforme globali”, ma nella possibilità di nuove forme di cooperazione sociale, anche tecnologiche, ma dettate dell’esigenza di condividere spazi e tempi individuali e collettivi. Occorre sottrarre al mercato la riproduzione umana e ambientale e i beni fondamentali come la salute, il cibo, l’alloggio, su scala globale, potrebbe, come hanno suggerito molte analisi femministe e non solo, avviare una nuova “regola dell’oikos”, un’economia differente, basata sulla cooperazione e non sulla competizione.
Su questo c’è molto da imparare dalle esperienze femministe del Sud del mondo, in particolare le latino americane, e c’è spazio per lanciare nuove proposte alle infelici classi medie occidentali. Il rovesciamento del paradigma della cura può servire a far ritrovare linguaggi e pratiche comuni per trasformare la necro-politica del potere.
Con questo articolo Sbilanciamoci! inaugura una collaborazione strutturata con il sito Volere la Luna, da cui è tratto.