La Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità del contratto a tutele crescenti nella parte in cui determina in modo rigido l’indennizzo per il licenziamento ingiustificato e senza collegamento col danno subito dal lavoratore: il cuore del Jobs act.
Riassunto delle puntate precedenti
A seguito del Jobs act (rectius, d. lgs. 23/2015), che ha introdotto il cosiddetto contratto a tutele crescenti, si è ridotta la tutela del lavoratore licenziato ingiustamente: quest’ultimo, infatti, nella maggior parte dei casi, non può più chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro, ma si deve accontentare di una somma di denaro. Inoltre, detto indennizzo viene, per la prima volta, fissato in modo rigido, in una cifra commisurata all’anzianità di servizio del lavoratore (due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo e un massimo). Quest’ultima previsione ha prodotto almeno due conseguenze importanti: l’indennizzo ha perso, da un lato, il suo carattere “risarcitorio”, in quanto non più commisurato al danno subito ingiustamente dal lavoratore, e, dall’altro, ha perso anche la sua efficacia deterrente sul datore di lavoro, riducendo la sanzione a poche mensilità in caso di licenziamento illegittimo di lavoratori con pochi anni di servizio. In altri termini, il legislatore del jobs act scelse, per dare certezza alle imprese sul “costo di separazione”, di penalizzare il lavoratore ben due volte: innanzitutto, rendendolo meno stabile, anche quando assunto con contratto formalmente a tempo indeterminato; inoltre, riducendone il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo.
Scelta ingiusta in quanto lesiva della dignità del lavoratore, più facilmente licenziabile per ragioni illegittime, ingiuste, immotivate, e in quanto scollegata dal reale danno subito dal lavoratore, dai suoi carichi di famiglia, dalla sua età, dalla sua difficoltà nel trovare un nuovo impiego, ecc. Scelta ingiusta anche perché impedisce al giudice non solo di pronunciarsi sull’eventuale sproporzionalità del licenziamento (altra novità del Jobs act), ma anche di tenere conto dei consueti criteri economici e sociali nella determinazione del risarcimento spettante al lavoratore. Scelta ingiusta, infine, perché volta a rafforzare il soggetto forte e ad indebolire ulteriormente il soggetto debole del rapporto di lavoro: finalità esattamente opposta a quella che dovrebbe giustificare l’intervento pubblico in materia di lavoro.
Come si scriveva qui, subito dopo la pubblicazione del Jobs act (“Tutele crescenti, ma solo per i padroni”, 20/03/2015), “In questo diritto del lavoro capovolto in cui il soggetto che il legislatore si preoccupa di tutelare non è più quello debole ma quello forte, in cui la libertà sindacale ed il controllo giudiziario, invece che garanzia di uguaglianza e democrazia, vengono ridotti a fastidiosa limitazione della discrezionalità imprenditoriale, in cui a forza di ridurre le tutele dei lavoratori si è arrivati ad intaccare i diritti fondamentali, non resta che affidarsi alla Carta costituzionale”.
Ed infatti ecco che la Corte costituzionale, con la decisione del 26 settembre scorso (di cui siamo ancora in attesa di leggere la sentenza integrale con le motivazioni), ha dichiarato l’incostituzionalità del contratto a tutele crescenti proprio per questa novità, ovvero nella parte in cui determina in modo rigido l’indennizzo per il licenziamento ingiustificato e senza alcun collegamento col danno subito dal lavoratore. La Consulta, infatti, ha ritenuto che la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio fosse un criterio irragionevole, contrario al principio di ugualianza (art. 3 Cost.) ed in contrasto col diritto e la tutela del lavoro di cui agli artt. 4 e 35 della Costituzione.
Grazie alla sentenza, sarà ora compito del giudice decidere l’importo dell’indennizzo spettante al lavoratore (tra un minimo di sei e un massimo di 36 mensilità, dopo la modifica intervenuta con il decreto dignità), decidendo presumibilmente sulla base dei criteri normalmente utilizzati, cioè quelli previsti dall’art. 8, L. 604/1966 (e richiamati anche dall’art. 18 Statuto dei lavoratori), ovvero “avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.
Con questa pronuncia si elimina quella irragionevole disparità di trattamento, introdotta dal Jobs act, tra lavoratori che avrebbero potuto, pur a fronte di uno stesso danno, ricevere indennizzi notevolmente diversi, in ragione della sola maggiore o minore anzianità di servizio.
Inoltre, si ritiene che la sentenza possa avere implicazioni anche al di fuori del Jobs act, riportando l’attenzione sui criteri sociali, non solo del legislatore ma anche dei giudici: se il principio fissato dalla Corte consiste nell’incostituzionalità di un criterio di indennizzo basato esclusivamente sull’anzianità di servizio, non si può negare che di tale principio i giudici ne dovranno tenere conto in tutte le pronunce in materia di licenziamento illegittimo, indipendentemente che si tratti di contratto a tutele crescenti o di contratto ancora rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, ricordandosi, tutte le volte in cui gli viene affidata la determinazione del risarcimento, di non riferirsi al mero criterio dell’anzianità di servizio, come invece spesso avviene.
Affidando di nuovo al giudice il compito di modulare l’importo del risarcimento al danno subito dal lavoratore (in considerazione anche di altri parametri e condizioni, oltre all’anzianità di servizio), la pronuncia della Consulta compie, infine, un’operazione di uguaglianza e rimette i lavoratori tutti sullo stesso piano, ridando dignità e stabilità anche a quelli con poca anzianità di servizio, e quindi in primis, ai lavoratori più giovani.