Tra gli aspetti più rilevanti contenuti in Is Capitalism Still Progressive?, Cosimo Perrotta, che sta per uscire nella versione italiana per Firenze University Press, evidenzia la centralità dello Stato nel promuovere, sostenere e organizzare lo sviluppo capitalistico.
La trasformazione dei capitali in rendite è una delle maggiori cause dell’aumento delle disuguaglianze ed è il fenomeno che più contraddice la logica capitalistica. Il trasferimento della ricchezza immobilizzata nelle rendite verso investimenti in capitale umano consentirebbe al sistema di superare l’attuale crisi. Si può sintetizzare così la tesi di fondo di Is Capitalism Still Progressive? An Historical Approach, di Cosimo Perrotta, appena pubblicato per i tipi di Palgrave-MacMillan, nella collana “Pivot”.
Attraverso un’accurata ricostruzione storica della nascita e dell’evoluzione del capitalismo fino ai nostri giorni, solidamente suffragata da molti dati, dettagliate fonti e un’ampia analisi comparata a livello internazionale, il libro riporta alla luce alcuni aspetti “dimenticati”, ma imprescindibili per comprendere i limiti del capitalismo contemporaneo.
Ad esempio, viene smentita la convinzione diffusa che la produttività dipenda dal contenimento dei salari a favore della crescita dei profitti. Ciò non è avvenuto con il welfare state, quando gli alti salari garantirono un aumento della produttività e del progresso tecnico. Analogamente accadde nei decenni antecedenti la rivoluzione industriale della seconda metà del Settecento. Gli economisti inglesi dell’epoca sostenevano che gli alti salari non riducevano i profitti, ma, rendendo i lavoratori più motivati, miglioravano la qualità del lavoro e incrementavano produttività e potere di acquisto. Durante il welfare state le politiche di aumento salariale giocarono un ruolo cruciale nel superamento della crisi da sottoconsumo. Garantirono al contempo una crescita dei profitti e ridussero le rendite. A partire dagli anni Settanta, la situazione si è rovesciata. C’è stata una progressiva contrazione di salari e redditi dei ceti non protetti a favore dei profitti, ma con un’espansione ancora maggiore delle rendite, in particolare di quelle della speculazione finanziaria.
Il libro sfata in modo efficace anche alcuni miti celebrativi del capitalismo. Tra questi, viene smentita l’idea che il progresso economico sia sempre portatore di progresso civile. Si pensi alle conquiste coloniali o al fatto che il capitalismo convive anche con regimi antidemocratici, talvolta sanguinari, in cui emergono nuove forme di schiavitù peggiori di quelli dell’antichità (come quella minorile), di fatto tollerate dal sistema nel suo insieme.
Un altro mito è quello del mercato che si autoregola. Si dimostra al contrario come, lasciato da solo, il mercato tenda a consolidare profonde forme di disuguaglianza, a cristallizzare posizioni di potere (rendite) e ad autodistruggersi. Lo Stato ha quindi un ruolo imprescindibile per tutelare la concorrenza, ma il contenimento del suo peso da parte di lobby che sovrastano il potere politico a favore dei loro interessi privati è tra le cause principali della riduzione dei redditi dei ceti medi, della crescente disoccupazione e precarizzazione del lavoro e dei difformi livelli di sviluppo. Tutto questo è alla base di tragici avvenimenti diffusi a livello globale, quali l’emigrazione, la crisi della coesione sociale e la distruzione dell’ambiente.
Malgrado un quadro così preoccupante, questo non è l’ennesimo libro sulla fine del capitalismo e sul suo superamento. Al contrario, il libro sostiene che il capitalismo, inteso come processo di investimento di ricchezza per generarne una maggiore quantità, ha indubbiamente garantito “un progresso fondamentale dell’evoluzione umana”. Considerati però gli effetti contraddittori e talvolta dannosi dell’economia mondiale contemporanea, l’interrogativo del titolo, se il capitalismo sia o meno ancora portatore di progresso (sottinteso, non solo economico, ma anche civile e sociale), è la domanda cruciale per individuare un’efficace strada di cambiamento di rotta. Il percorso indicato non è certamente quello fallimentare delle economie pianificate e neppure quello suggerito dai più recenti modelli di economia circolare, che limitano il concetto di ricchezza ai beni materiali, come hanno fatto in passato anche i teorici dello stato stazionario.
La convincente e ben supportata soluzione consiste nell’estensione dei consumi culturali, che determinano la crescita del capitale umano, vero fattore di produttività sociale. Ne consegue una crescita più generale della società, non più solo mediante l’investimento specifico per il profitto, ma anche con l’espansione del lavoro non-profit, soprattutto nella sfera dei servizi alla persona e all’educazione. In tal modo si ripristina la supremazia dell’interesse generale pubblico e si salvaguarda l’interesse privato, attraverso l’incremento degli investimenti in capitale umano (ricerca, istruzione, arte), l’estensione della produzione immateriale, la non ripetitività nei consumi, la riduzione delle disuguaglianze e un maggiore rispetto per l’ambiente.
Con lo spostamento di risorse dalle rendite all’investimento in capitale umano, il capitalismo è in grado di riproporre la sua capacità di sviluppo e progresso anche nella dimensione più distintiva della natura umana, quella culturale.
seconda parte della recensione pubblicata sul blog Sviluppo felice
Cosimo Perrotta, Is Capitalism Still Progressive?
A Historical Approach, Palgrave-McMillan