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Il boom dei ricchi e la crisi dei poveri

Le radici sociali della crisi finanziaria: una lezione di Jean Paul Fitoussi a Roma. La lotta alle diseguaglianze come via d’uscita dalla recessione

“La crisi finanziaria non è stata un fenomeno esogeno, bensì il portato della profonda crisi sociale del nostro tempo che si è manifestata attraverso il costante aumento della diseguaglianza a livello globale”. Questa la diagnosi di Jean-Paul Fitoussi il quale, nell’ambito del convegno “Occupazione, relazioni industriali e capitale umano ” organizzato lo scorso 26 e 27 marzo dalla Sapienza in occasione dei 25 anni dalla morte di Ezio Tarantelli, ha ricostruito le tappe che hanno portato alla crisi che stiamo tutt’oggi vivendo. Mettendo la questione della distribuzione del reddito al centro dell’analisi di quel che è successo nel passato e delle preoccupazioni del presente (1).

Un dato è certo: se non si fosse verificato un aumento della sperequazione del reddito e cioè, se non fosse aumentata la ricchezza della quota ricca e minoritaria della popolazione a dispetto dell’impoverimento della quota meno ricca e maggioritaria, non si sarebbe potuto verificare quell’eccesso di domanda di assets nel mercato finanziario tale da far schizzare in alto il valore degli stessi, alimentando la bolla speculativa esplosa nel 2008. Di contro, l’impoverimento dei più ha coinciso con l’insorgere di un’insufficienza della domanda aggregata che, negli Stati Uniti, si è cercato di sostenere artificialmente tramite una smisurata erogazione di credito al consumo e manovre di politica espansiva. Il tutto, nel quadro di una politica monetaria accomodante che ha contribuito a mascherare la debolezza della domanda reale. Risultato? Aumento macroscopico del debito privato e pubblico, in corrispondenza di una crescita dei prezzi dei titoli. A livello macroeconomico, tutto sommato, il quadro era bilanciato e non preoccupante. Che dietro a quell’equilibrio fittizio si nascondesse poca sostanza, cioè prezzi gonfiati e una bolla speculativa quasi senza precedenti, ora lo sappiamo tutti. Nel frattempo, però, la povertà e il disagio sociale preesistenti allo scoppio, hanno dilagato. E, benché in Europa la crescita della sperequazione – di concerto con la crisi esplosa in prima battuta oltreoceano – abbia depresso la domanda e, mediamente, fatto aumentare i risparmi più che i debiti, la crescita ha ugualmente rallentato e, laddove i meccanismi di sostegno – come, ad esempio, adeguati sistemi di ammortizzatori sociali – sono stati insufficienti, la crisi ha manifestato i suoi effetti più duri e persistenti.

La diseguaglianza sociale ed economica alla base della crisi, sottolinea Fitoussi, non è che il risultato dell’ aver mancato di cogliere le opportunità offerte dal processo di globalizzazione, a fronte delle quali abbiamo assistito all’insorgenza di pratiche di concorrenza fiscale e sociale, piuttosto che di dinamiche di cooperazione internazionale. Il rischio attuale è che la lezione non sia stata imparata e che, cioè, i diversi attori in scena (i governi, le imprese, le banche) continuino a rispondere ai propri interessi sottovalutando la coesione sociale e internazionale come rete di protezione per il futuro. Ignorata negli anni dell’apparente boom, la questione della diseguaglianza non può essere trascurata oggi. Infatti, a dispetto delle previsioni sulla ripresa della crescita delle principali economie occidentali, Fitoussi sottolinea come non si debba ignorare che il livello della ricchezza rispetto a qualche anno fa sia diminuito. In altre parole, siamo più poveri di prima, sia in termini di livelli di Pil reale che di prodotto potenziale e, per questo, ragionare solo in termini di tassi di crescita significherebbe guardare solo a un pezzo della realtà.

La diseguaglianza rappresenta in se stessa una minaccia per il futuro: maggiore è la quota di coloro che sono stretti dalle necessità economiche del presente, minore sarà l’insieme di persone che potranno assumere comportamenti orientati al bene delle generazioni future e perciò, una lunga serie di obiettivi di medio-lungo termine – a cominciare da quelli ambientali – saranno semplicemente “rimandati” a un futuro non definito. In altre parole, preoccuparsi e attivarsi oggi per il bene del futuro è un lusso che in troppi non possono concedersi. Da qui un’emergenza chiave cui i governi dovrebbero rispondere. Arginare la diseguaglianza non solo per contrastare l’impoverimento e la disoccupazione crescenti di oggi, ma anche per attutire che gli errori di ieri si abbattano sulle generazioni di domani.

La lezione romana di Fitoussi – che, ricordiamo, assieme ad Amartya Sen e Joseph Stiglitz, è stato reclutato da Sarkozy nel 2008 a formare la Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress avente l’intento primario di ricercare degli indicatori di benessere alternativi al Pil – ha sollevato delle questioni che dovrebbero essere sentite come critiche in Italia più che altrove in Europa. Il nostro paese infatti è entrato in recessione con tutto il peso delle sue diseguaglianze “strutturali”: quella territoriale, tra Nord e Sud; quella nella distribuzione del reddito: siamo tra i paesi nei quali la diseguaglianza è cresciuta di più nei tempi del “boom” ( l’indice di disuguaglianza è passato dallo 0,31 degli anni ottanta all’odierno 0,35, a dispetto dell’andamento costante o decrescente che lo stesso ha registrato in Francia, Germania o nel Regno Unito. Fonte: Growing unequal? Income Distribution and Poverty in OECD countries, Parigi, OECD, 2008, pp.27-31); quella di genere (in Italia, negli ultimi quattro anni, la media del tasso di occupazione femminile è stato del 46,7% contro circa il 70% di quello maschile. Fonte: Istat). A queste si aggiunge la fortissima sperequazione nella quale le stesse fasce deboli si trovano di fronte alla crisi, avendo un sistema di sostegni all’occupazione e al reddito che non regge il confronto con l’Europa. Gli ammortizzatori sociali in Italia coprono non più del 30% dei disoccupati, contro il 60% dei disoccupati francesi o il 45% di quelli tedeschi (Fonte: Ministero del Lavoro). La spesa poi destinata al sostegno degli stessi è circa la metà di quella erogata livello europeo, così come ridotta è la loro durata. La principale quota che ha registrato il calo dell’occupazione, manco a dirlo, quella dei lavoratori a tempo determinato, cioè la categoria lavorativa meno tutelata. E se non si verificherà un mutamento di rotta, la crisi dell’occupazione diventerà crisi dei redditi ingenerando povertà e ulteriore diseguaglianza. Un circolo vizioso che, si spera, qualcuno intervenga a spezzare prima che sia tardi.

(1) L’intervento di Fitoussi, peraltro, fa l’eco alle parole pronunciate un paio di mesi fa sull’argomento da Lord Robert Skidelsky, durante la lectio magistralis che ha tenuto all’Università Roma Tre. Su questo si veda l’articolo proposto da sbilanciamoci.info.