Indirizzare il 5×1000 alle scuole, come ha proposto il premier, può essere una buona idea solo a patto che il finanziamento contribuisca al finanziamenti di tutte le scuole
Nella kermesse del 22 febbraio La scuola che cambia, cambia l’Italia, com’era prevedibile dato lo stile di comunicazione al quale ci ha abituato il presidente del consiglio, il governo ha nuovamente solo annunciato le grandi linee, le parole d’ordine, della riforma della scuola. Per ora, questa si va sempre più profilando come un intervento sull’immissione in ruolo dei precari la retribuzione dei docenti e poco altro. Aspettiamo quindi di poter leggere il decreto. E prepariamoci poi a seguire attivamente l’iter dalla legge delega che il governo ha intenzione di far approvare. Di entrare nel merito, come chiede il presidente del consiglio, su reclutamento, formazione iniziale e aggiornamento in servizio dei docenti, e magari anche –poco se ne parla- su curricoli e contenuti didattici.
Possiamo però intanto già parlare di un argomento spinoso, i finanziamenti dei privati alle scuole pubbliche?
I privati entrano già nella scuola italiana, lo sappiamo. In molte forme: attraverso i contributi ‘volontari’ dei genitori, attraverso iniziative commerciali come la raccolta punti dei grandi distributori, attraverso le donazioni. E’ bastata una puntata del programma televisivo Presa diretta per sollevare reazioni indispettite, ma per la verità non è una notizia. Dato che la scuola è ormai da tempo concepita come un servizio pubblico, più che come un’articolazione dello stato, il servizio è commisurato alla capacità economica e politica dell’utenza. Dunque c’è poco da stupirsi. Le scuole dei centri cittadini hanno già un’infinità di attività aggiuntive, attirano donazioni e attenzioni, e le altre arrancano. L’autonomia scolastica, questa parola magica del sistema d’istruzione del nuovo millennio, significa essenzialmente questo: mettere in competizione le scuole nell’attirare i finanziamenti pubblici (da distribuire a progetto, per ‘merito’ –altra parola magica-, ma in fin dei conti con un sostanziale contenimento della spesa complessiva) e privati.
Il governo Renzi vuole accelerare in questa direzione. Il documento programmatico su La Buona Scuola lo dice chiaramente nel capitolo 6 sulle risorse. Su questi aspetti sono intervenuti più volte i sottosegretari Faraone e Toccafondi, da ultimo proponendo sgravi fiscali per i genitori che iscrivono i figli in istituti paritari: il vecchio cavallo di battaglia della libertà di scelta educativa e della sussidiarietà.
Ma qui non vorrei parlare di finanziamenti alle scuole private e neanche dei finanziamenti dei privati in generale. No, vorrei parlare di una cosa meno appariscente, presentata en passant da Renzi nella conferenza del 22 febbraio, una proposta molto meno divisiva: poter riservare il 5×1000 delle proprie imposte alle singole scuole, «un meccanismo serio, sul modello del 5 x mille, per cui nella dichiarazione dei redditi barro per la singola scuola» (cito dalla trascrizione del Sole24Ore).
Arringando la platea romana e il paese in attesa non saprei quanto spasmodica e quanto disincantata di fatti, il premier ha annunciato che «chiederemo autonomia anche dal punto di vista economico, così che una parte della dichiarazione dei redditi possa andare a una singola scuola». Naturalmente la proposta è stata avallata dalla ministra Giannini nella trasmissione Radio anch ‘io del 26 febbraio, anche qui si direbbe senza destare reazioni.
In effetti, si deve ammettere che l’idea di Renzi di permettere ai contribuenti di donare il 5×1000 delle proprie tasse all’istituto scolastico di loro preferenza è geniale nel modo di coinvolgere i cittadini nella definitiva rottamazione della scuola repubblicana. Nel modo di far coincidere interesse privato e l’interesse pubblico del momento, cioè spendere meno. Ancora meglio se con questo semplice meccanismo si riesce pure a ridurre i margini di autonomia dell’istituzione scolastica nei confronti delle cosiddette “parti interessate”, appunto: famiglie e territorio, compresa naturalmente la politica. Chi potrà obiettare che famiglie, ex alunni, abitanti del luogo possano contribuire al buon andamento della propria scuola in tutta libertà? Chi potrà mai opporsi alla spinta a fare ‘propria’ (nel senso letterale della parola) non la scuola in genere, ma la scuola dei propri figli? Che si possa scegliere come e dove mettere i propri soldi (che comunque si devono sborsare, compresi quelli già richiesti dalle scuole)? Che così tutta, ma proprio tutta, la società civile potrà dare un contributo? In altre parole: chi mai riuscirà a sabotare i (micro)meccanismi economici e direi persino antropologici attraverso i quali prende corpo la scuola post-democratica?
Così, con un provvedimento apparentemente secondario, si decreterà definitivamente per legge la diseguaglianza territoriale e sociale della scuola italiana, in barba al dettato costituzionale. Una diseguaglianza che è sempre esistita, non mitizziamo il passato, e che si è accentuata di nuovo negli ultimi anni. Ma che era nelle cose, non nelle parole, non nei principî. Persino nell’idea dei finanziamenti privati del territorio si mantiene una specie di finzione: sappiamo tutti che non è così, ma si può far finta che l’esito della competizione non sia dato in partenza. Ora invece, con questa semplice parolina 5xmille, in sé benemerita, la si nomina per quello che è, senza per altro dismettere la generale mistificazione retorica, richiami all’articolo 3 della Costituzione, etc etc.
Si dirà: già si fa con le università, che fa parte del sistema di istruzione (non parliamo di altri, ci mancherebbe pure che non fosse libera la scelta di un’associazione o ente privato). Vero. Ma c’è una non piccola differenza: l’università non rientra nell’obbligo scolastico. Le università possono utilizzare fondi esterni in modo più flessibile, neutralizzando il potenziale vincolo della committenza. Non dico che lo fanno, non tutte, ma possono: per esempio, riservando i fondi del 5×1000 agli alloggi degli studenti o ‘restituendo’ al territorio programmi di formazione e sviluppo di vario tipo che altrimenti non avrebbero, ma che non fanno parte di quelli che la scuola, per obbligo, dovrebbe dare a tutti. E’ una questione di rapporti di forza, di vocazione, di strumenti.
Si dirà che questa è un’opposizione ideologica ai finanziamenti privati alla scuola. Falso. Il premier dice che il meccanismo «dovrà essere pensato per la cultura e la scuola», e perché no? Indirizzare il 5×1000 alle scuole può essere una buona idea, a patto però che il finanziamento sia indeterminato, che sia una mera articolazione della fiscalità generale, che contribuisca al finanziamenti di tutte le scuole. E così per i finanziamenti dei privati in genere. Si vogliono fare donazioni alla scuola? Benissimo, si istituisca una fondazione o un fondo ad hoc, vincolato però alla missione che la Costituzione assegna alla scuola pubblica: dare a tutti le stesse opportunità, attenuare le diseguaglianze, non il contrario. Ma naturalmente non è di questo che si tratta.
Chiamiamo le cose con le loro parole, ancorché fuori moda Quello che colpisce della proposta governativa è il suo classismo. Il modo nel quale parla alle classi medie e medio-alte e dice loro: «state tranquilli, non spenderete, non spenderemo altrove i vostri soldi, i vostri ragazzi sono al sicuro (se non li avete già mandati all’estero, si intende), per tutti gli altri pazienza». E poiché da queste classi vengono gli eletti, naturalmente, ma anche i dirigenti e buona parte degli elettori del PD (e degli altri partiti di centro e di sinistra), nonché la quasi totalità degli universitari e degli intellettuali, dell’informazione, dei funzionari ministeriali, le parole diventeranno cose, sospetto, senza molto rumore. In fondo, tutti vogliamo il meglio per i nostri figli, no?