Il nuovo libro di Giorgio Lunghini “Conflitto, crisi, incertezza” offre un “manuale” alternativo alla teoria economica dominante, con le idee dei classici, da Marx a Sraffa. Un estratto
Il pensiero di Keynes è realmente pericoloso, poiché comporta una riflessione e una scommessa sui fini, anziché sui mezzi, che la politica può e deve darsi in questo mondo. Questo mondo, il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, a Keynes non piace: «Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi». Per quanto perplesso, anzi proprio per questo, Keynes non è un conservatore. Egli infatti esclude che i difetti di questo mondo possano essere emendati applicando la dottrina del laissez-faire, di cui confuta i principi metafisici e denuncia le conseguenze: «Se lo scopo della vita è cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto».
I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono, per Keynes, l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito; e con eccellenti argomentazioni teoriche Keynes nega che possa essere lui – il grande capitano di industria, il maestro individualista – che ci condurrà per mano in paradiso. Dunque dovrà intervenire lo Stato. Questo non significa che lo Stato debba sostituirsi all’impresa privata:
“Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non le prende lo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto. […] Il nostro problema è elaborare un’organizzazione sociale che sia la più efficiente possibile, senza offendere le nostre nozioni di un soddisfacente sistema di vita”.
I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono oggi gli stessi che Keynes denunciava nel 1936: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Questa persistenza patologica non trova spiegazioni convincenti nell’antropologia e nell’analisi economica reazionarie; mentre la possono spiegare la Teoria generale di Keynes e la miopia dei conservatori: «La difficoltà sta nel fatto che i leader capitalisti nella City e in Parlamento non sono capaci di distinguere i nuovi strumenti e le misure per salvare il capitalismo da quello che loro chiamano bolscevismo». Per lunghi periodi il keynesismo può anche essere sembrato dominante, in forme più o meno oneste di spesa pubblica. Keynes ha certamente autorizzato un intervento, diretto o indiretto, a sostegno della domanda effettiva e dunque dell’occupazione. L’idea era che soltanto by accident or design la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, avrebbe coinciso con la produzione corrispondente al pieno impiego, e che perciò un intervento attivo del governo normalmente sarebbe stato necessario.
Molti invocano oggi, come possibile soluzione della crisi attuale, un nuovo New Deal. Perché quella esperienza è irripetibile? Perché gli strumenti detti «keynesiani» erano disegnati per un’economia fordista (uso le virgolette perché Keynes non scommetteva sulla efficacia di politiche keynesiane: «Questa che io propongo è una teoria che spiega perché la produzione e l’occupazione siano così soggette a fluttuazioni: essa non offre una soluzione bella e pronta al problema di come evitare queste fluttuazioni e mantenere costantemente la produzione a livello ottimale»). La produzione fordista era una produzione di massa di beni di consumo durevoli standardizzati e destinati prevalentemente al mercato interno. Erano necessari grandi investimenti, con cospicui effetti moltiplicativi sul reddito e sull’occupazione. Era possibile, e necessaria, una spartizione tra capitale e lavoro salariato dei guadagni di produttività generati dalla organizzazione tayloristica del lavoro. Imprese, famiglie, governo, la società tutta, nel mondo fordista dovevano avere orizzonti temporali lunghi. Nel mondo della finanza, che è il sottoprodotto delle attività di un casinò, tutto ciò non è più possibile poiché ne manca la base materiale. Il moltiplicatore di una politica di spesa pubblica difficilmente sarà maggiore di uno. Né potrà essere molto efficace un intervento di stimolo indiretto, mediante una riduzione del tasso d’interesse: in una situazione di deflazione, la conseguenza più probabile è la trappola della liquidità, non l’aumento degli investimenti privati.
Anziché il Keynes del breve periodo, tuttavia, è il Keynes radicale cui si dovrebbe pensare, anche perché ce ne sono le condizioni (non anche la volontà politica). Questo Keynes, il Keynes del capitolo 24 della Teoria generale, sulla filosofia sociale verso la quale la sua teoria generale potrebbe condurre, in verità non ha mai dominato, in nessun governo e in nessuna università. Eppure vi si trovano analisi e disegni di estremo interesse. Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la disoccupazione e l’ineguaglianza sono dei mali da guarire? Secondo questo Keynes si dovrebbero fare tre cose:
“1. Nelle condizioni contemporanee l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, è probabilmente ostacolato da questa. Viene quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali della grande disuguaglianza delle ricchezze. […] Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche per rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze, ma non per disparità tanto grandi quanto quelle oggi esistenti. Vi sono pregevoli attività umane che richiedono il movente del guadagno e l’ambiente del possesso privato della ricchezza affinché possano esplicarsi completamente. Inoltre, l’esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può istradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venir soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell’autorità personale e in altre forme di autopotenziamento. È meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini. […] Ma per stimolare queste attività e per soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso. Poste assai inferiori serviranno ugualmente bene, non appena i giocatori vi si saranno abituati. Però non deve confondersi il compito di tramutare la natura umana col compito di trattare la natura umana medesima. Sebbene nella repubblica ideale sarebbe insegnato, ispirato o consigliato agli uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco, può essere pur tuttavia saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita si giochi, sia pure sottoponendola a norme e limitazioni, fino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una sezione rilevante della collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario.
2. Ora, sebbene questo stato di cose sarebbe del tutto compatibile con un certo grado di individualismo, esso significherebbe l’eutanasia del rentier e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. Oggi l’interesse non rappresenta il compenso di nessun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra. […] Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi nulla di tutto ciò che sia irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non fosse più scarso, cosicché l’investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito: e a un progetto di imposizione diretta tale da permettere che l’intelligenza e la determinazione e l’abilità del finanziere, dell’imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una ricompensa a condizioni ragionevoli.
3. Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l’influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa. […] Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che lo Stato si assuma. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo dei mezzi dedicati ad aumentare gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che li possiedono esso avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre le necessarie misure di socializzazione possono essere introdotte gradualmente e senza apportare una soluzione di continuità nelle tradizioni generali della società”.
Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento) come strumenti per combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza può sembrare una predica. Esse si reggono invece su analisi difficili da liquidare, tanto che il problema viene spesso rimosso definendo la disoccupazione e l’ineguaglianza come fenomeni «naturali». Citando un aforisma di P. Valéry, Keynes ricorda che i conflitti politici distorcono e disturbano nella gente il senso di distinzione tra questioni di importanza e questioni di urgenza e che dunque il cambiamento economico di una società è cosa da realizzare lentamente. È vero che il cambiamento economico di una società è un processo lento, poiché richiede consenso politico circa un diverso modello di società, diverso circa la strada da prendere anziché restare in un centro inesistente.
Le configurazioni reali dell’equilibrio capitalistico non sono un dato di natura, una sorta di «centro di gravitazione», né una verità logica, una sorta di teorema della «scienza economica». Keynes – in questo vicino suo malgrado a Marx – esercita il ragionamento fino alla sua capacità estrema, fino a mostrare la precarietà del reale presente; ma scritta tutta la parte del ragionamento argomentabile con calma, praticamente tutto il resto – tutto il futuro – è lasciato libero. Keynes è consapevole che nessuna politica può essere determinata e fondata completamente da una teoria, e che le istituzioni sono istituzionalmente costrette e tenute a costruire e a imporre se stesse come parametri ai quali la società civile (i rapporti materiali dell’esistenza) e i comportamenti individuali dovranno conformarsi. Gli interessi costituiti per loro natura riducono e puniscono come errori di calcolo le controversie, i conflitti e le contraddizioni. Eppure Keynes l’ottimista è sicuro che:
“il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee. Non però immediatamente, […] giacché nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa prima che abbiano venticinque o trent’anni di età, cosicché le idee che funzionari di Stato e uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti correnti non è probabile che siano le più recenti. Ma presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”.
Fatto il conto delle generazioni tra il 1936 e oggi, è dunque tempo che gli uomini della pratica, i quali si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale, scoprano come vivo questo economista defunto. Vi troveranno almeno una risposta analoga a quella che il gatto, che aveva lunghi unghioli e tanti denti, dà ad Alice nel paese delle meraviglie. «Vuoi dirmi che strada dovrei prendere per uscire di qui?», chiede Alice al gatto acquattato sull’albero. «Dipende molto da dove vuoi andare», è la risposta.
Giorgio Lunghini, “Conflitto, crisi, incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative”, 132 pagine, 14 euro. © 2012 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86, Gruppo editoriale Mauri Spagnol.