Gli immigrati non possono votare alle elezioni politiche. Ma “contano” come popolazione residente, gonfiando la torta dei seggi da spartire. Soprattutto al Nord-Ovest, dove vive più di un terzo degli stranieri. Lampante il caso della “Ohio d’Italia”, la Lombardia
1. Una rendita elettorale che non fa notizia
L’esclusione di tutti i migranti residenti in Italia dal voto nelle elezioni politiche del 24 febbraio 2013 è uno dei tanti atti di discriminazione contro gli stranieri che si consumano nel mondo e che di solito passano inosservati. Ne sono autori molti governi e organi legislativi di paesi d’immigrazione, che negano il voto ai migranti e allo stesso tempo li contano come parte della popolazione nazionale, gonfiando così la torta dei seggi elettorali da spartire, una vera e propria rendita elettorale a favore dei sistemi politici vigenti.[1]
Nel caso italiano, ormai da più un ventennio perdura l’ostilità endemica al voto dei migranti nelle elezioni politiche, nelle quali possono votare solo i cittadini.[2] La legge per il difficile ottenimento della cittadinanza risale al 1992. Il ceto politico che allora non prendeva sul serio la questione del voto dei migranti ha finito poi per non prendere sul serio neppure il voto dei cittadini e per presentare liste bloccate di nominati dalle segreterie dei partiti (legge elettorale cosiddetta Porcellum del 2005).[3] A loro volta molti dei cittadini ricambiano o rifiutandosi di votare o acconciandosi passivamente a mettere una croce su quello che passa il convento.
Dunque, in sovrimpressione sul crescente numero dei non votanti, delle schede bianche e nulle nelle elezioni di febbraio andrebbe stampata la quindicennale parabola ascendente del numero dei migranti in età di voto, che non compaiono sui radar elettorali ma – in modo intermittente – sui radar della Guardia costiera e della Nato. Non sorprende poi che il maggiore partito nelle elezioni di febbraio è risultato quello dei non-votanti.[4] Si aggiungano inoltre le schede bianche e nulle.[5] In totale coloro che non se la sono sentita di mettere una croce sulla scheda sono 13 milioni e 841mila alla Camera (27, 28%) e 12 milioni 617 mila al Senato (27,15%).[6] A loro va premesso il numero dei migranti residenti in Italia, ossia 3 milioni e 104mila in età di voto per la Camera, due milioni e 737mila in età di voto per il Senato. [7] Addizionando i migranti esclusi dalle urne, gli assenteisti e le schede bianche e nulle i non votanti sono un terzo della popolazione in età di voto.[8]
Ma procediamo con ordine. Secondo il Censimento del 2011, sul quale si basa la distribuzione dei seggi delle recenti elezioni politiche, il totale della popolazione residente in Italia è di 59 milioni 433mila e 744 unità, un dato che comprende 4 milioni 29mila e 145 residenti stranieri di tutte le età (il 6,7% del totale della popolazione).[9] Ovviamente questa è una conta per difetto, poiché i migranti privi di documenti legali – variamente stimati nell’ordine di meno di un milione di individui – si sono tenuti alla larga dai rilevatori durante i mesi del Censimento. Come sempre, la ripartizione dei seggi è avvenuta sulla base del totale della popolazione residente che risulta dal Censimento medesimo.[10] Mentre gli aventi diritto al voto sono soltanto gli italiani, l’assegnazione del numero dei seggi alle 27 circoscrizioni della Camera e alle 20 circoscrizioni del Senato nel territorio nazionale è data dal totale della popolazione residente – italiana e straniera – nelle singole circoscrizioni.
Tutto si può dire tranne che tale popolazione sia percentualmente omogenea sul territorio italiano. Nel Nord-ovest risiede il 35,4% degli stranieri, nel Nord-est il 27,1 %, nel Centro il 24 %, nel Mezzogiorno il 9,6% e nelle Isole il 3,9%. Si va dall’Emilia Romagna con il suo 10,41% e dalla Lombardia con il suo 9,76% di residenti stranieri giù fino al 2,0% della Puglia e all’1,87% della Sardegna. [11] La sperequazione è evidente ma fa parte del non detto nell’arena politica.
2. Una stortura dentro l’altra
Le circoscrizioni che vantano una popolazione ingente di migranti sono anche le circoscrizioni che si appropriano di un corrispettivo numero addizionale di seggi. I residenti stranieri vengono espropriati del loro potenziale di rappresentanza e l’espropriazione è proporzionale alla loro numerosità nei singoli territori. In altri termini le circoscrizioni con le più alte percentuali di residenti stranieri esercitano un peso territoriale iniquo per eccesso di seggi ottenuti rispetto a quelle circoscrizioni dove la presenza straniera è minore.[12] Lampante è il caso della Lombardia, dove vive quasi un quarto di tutti i migranti che risiedono in Italia (947mila e 288 ossia il 23,5% del totale dei 4 milioni 29 mila e 145 stranieri in Italia).[13] Si può sostenere che la Lombardia, grazie ai suoi 102 seggi alla Camera e 49 seggi al Senato, è oggi una regione politicamente tanto cruciale in Italia quanto lo stato dell’Ohio nelle presidenziali degli Stati uniti; lo è non solo grazie alla sua popolazione di cittadini (8 milioni e 757mila) ma anche grazie alla rendita elettorale costituita da quasi un milione di migranti che aumentano il numero dei seggi lombardi e che al contempo non dispongono del diritto di voto. I residenti stranieri in Lombardia dilatano notevolmente il potere elettorale altrui, come mostrano di saper bene i Lancillotti della croce celtica che all’occorrenza vestono i panni dei Catoni della Costituzione, pur di sbarrare l’accesso dei migranti al voto. [14] In Italia la sperequazione territoriale alle elezioni politiche è venuta aumentando notevolmente con la triplicazione della popolazione immigrata nel corso del decennio intercorso tra i Censimenti del 2001 e del 2011. [15] Come nelle scatole cinesi, la stortura della sperequazione territoriale ne contiene un’altra. La depredazione non va soltanto a danno degli italiani aventi diritto al voto nelle circoscrizioni con numeri minori di migranti ma anche e soprattutto a danno dei migranti stessi e della loro presenza nell’arena pubblica italiana. Al momento delle elezioni politiche una massa di più di quattro milioni di migranti residenti in Italia, in gran parte giovani di classe operaia, diventa il fantasma della politica corrente.[16]
A conti fatti, la popolazione straniera conferirebbe potenzialmente almeno 41 seggi alla Camera.[17] Per il Senato si può fare un calcolo sommario ma significativo, sulla base della popolazione straniera residente rispetto al numero dei seggi disponibili in ciascuna regione. Ne risulterebbero 23 seggi senatoriali attribuibili alla presenza della popolazione straniera. Sia alla Camera sia al Senato questi seggi vengono letteralmente sottratti a coloro che non hanno diritto di voto, a tutto vantaggio del potere elettorale dei partiti che si spartiscono le spoglie.
Tutte le volte che esce un nuovo film sulla Guerra civile (1861-65) negli Stati uniti, ci viene giustamente rammentato dallo schermo che ai fini della ripartizione dei seggi elettorali ogni schiavo contava per tre quinti di un uomo. La Costituzione conferiva così un peso elettorale abnorme ai piantatori del Sud e alle loro clientele razziste. Andrebbe allora sommessamente aggiunto che nelle elezioni politiche l’Italia odierna è in una posizione elettorale per certi versi analoga a quella degli Stati uniti del periodo schiavistico. Secondo la clausola dei “tre quinti” di un uomo, la percentuale dei voti sottratti agli schiavi nel 1860 era del 7,54%, non lontano da quel 6,78% che è la percentuale dei migranti sul totale della popolazione residente in Italia nel 2011.[18] Qui lo straniero residente conta nelle elezioni politiche non per tre quinti bensì per un individuo intero, ma viene depredato della sua potenziale particella di sovranità a favore di chi si sente passivamente soddisfatto del diritto di votare per lo scanno di un nominato da una segreteria di partito. In tale notte dei numeri lo scanno giusto è difficile da mettere a fuoco.[19]
L’esclusione dal voto nelle elezioni politiche di questo quasi 7% della popolazione residente è un obbrobrio le cui conseguenze sono destinate a farsi sentire nel corso delle prossime generazioni. Tutte le forze politiche che hanno governato l’Italia nello scorso ventennio ne sono in varia misura responsabili. Gli immigrati sono la parte della classe operaia più sfruttata, oppressa, colpita dalla crisi economica e incarcerata in Italia – in una parola, la più povera – ma anche quella che esprime le forme di lotte più incisive, come mostrano, ad esempio, alcuni lunghi scioperi nella logistica e nell’agricoltura. Secondo i dati del 2010, il 42,2% delle famiglie straniere vive al di sotto della soglia di povertà, contro il 12,6% delle famiglie italiane.[20] La percentuale degli stranieri detenuti nelle carceri italiane, notoriamente tra le più disumane e sovraffollate dell’Unione europea, oscilla attorno a un esorbitante 35%.[21] Gli abbandoni scolastici degli adolescenti figli di immigrati – la cosiddetta seconda generazione – è del 44%, quasi tre volte di più di quanto tocca in sorte ai coetanei italiani, la risultante di una società escludente che produce un disagio destinato a ripercuotersi in modo drammatico per molti anni avvenire.[22] Dei quattro maggiori paesi dell’Unione europea nessuno ha lesinato il riconoscimento della cittadinanza ai residenti stranieri tanto quanto l’Italia. Al ritmo delle circa 65mila nuove cittadinanze concesse dai governi italiani nel 2010, occorrerebbero più di sessant’anni per fare degli attuali migranti dei cittadini dotati di diritto di voto alle elezioni politiche.
Le regole della cittadinanza agli stranieri hanno posto l’arena pubblica italiana su di una piattaforma di discriminazione mobile che rimane tuttora orientata verso la via italiana all’apartheid.