“Filosofia dei beni comuni”, un libro di Laura Pennacchi: le cose da sottrarre al mercato, ma anche a mistiche comunitarie. Per tornare a un new deal “illuminato”
È un attacco su un doppio fronte, quello che Laura Pennacchi porta nel suo libro “Filosofia dei beni comuni”, nel quale affronta, analizza e contesta il pensiero dominante sui rapporti tra la sfera dell’economia e la sfera pubblica. Da un lato, c’è la critica del pensiero che si è affermato nell’ultimo trentennio, che possiamo per semplicità definire “neoliberista” – il pensiero guidato dall’individualismo metodologico, brutalmente riassunto dalla celebra frase di Margareth Thatcher all’apice del suo potere: “La società non esiste”. Dall’altro, c’è l’attacco a quella che Pennacchi definisce “la mistica del bene comune”, la tendenza a mettere sotto l’etichetta del ‘comune’ tutto quello che fa brodo contro un modello che sta miseramente e sanguinosamente naufragando, senza disdegnare ingredienti un po’ sospetti: col rischio di cedere a tendenze antimoderniste e rifugiarsi in modelli identitari, e con il disegno (reputato pericoloso dall’autrice) di una sfera pubblica completamente autonoma dalla mediazione istituzionale. Su questo doppio fronte, Laura Pennacchi procede alla costruzione di una sua visione della “crisi e primato della sfera pubblica”: primato tutto da ricostruire, anzi ancora da ri-cercare, in una dimensione della statualità che, se non può essere cancellata dalla esaltazione di una sfera comunitaria autonoma, non può neanche darsi per scontata come recupero del Novecento che fu.
Un libro denso, dunque, che affronta le questioni aperte dal fallimento del modello economico neoliberista e delle teorie che l’hanno sorretto. A queste teorie, sostiene Pennacchi, non si può rimproverare di non aver visto e previsto le incertezze, le complessità, le interdipendenze che legano gli individui nelle loro azioni economiche e non economiche: perché nella negazione di tale complessità era il loro presupposto. Non si tratta di un discorso astratto, dato che è proprio su tale negazione si è retta la loro pervasività: “finanziarizzazione, commodification, denormativizzazione”. “L’esaltazione dell’autoregolazione del mercato, l’esternalizzazione contrattata delle responsabilità pubbliche, la sollecitazione degli Stati a ritirarsi e a ridursi al minimo, sono tutti fenomeni che rimettono in discussione le costruzioni giuridiche e sociali che, sotto la guida dei princìpi illuministici, avevano teso a conciliare la dimensione ‘economica’ e quella ‘sociale’”. È un recupero forte dei princìpi dell’illuminismo e della modernità, quello che Laura Pennacchi fa nel suo libro: dentro la modernità, scrive, “ci sono gli elementi e le dinamiche che hanno portato all’ingresso dei diritti sociali nelle democrazie nel ‘900”. E dentro la modernità si sono diverse concezioni dell’individuo: c’è il filone che poi sarebbe sfociato nell’individualismo metodologico (con tutti i suoi danni), ma c’è anche quello dell’”empatia” (la fraternità, la categoria meno frequentata della triade della rivoluzione francese) e l’individualismo democratico. In questo secondo filone, l’individuo è portatore di identità plurime, è “segnato dall’essere con l’altro”: ne deriva una concezione della sfera pubblica necessariamente complessa, non riconducibile a una somma di azioni guidate dall’interesse economico personale, ma non riducibile a una comunità identitaria che Pennacchi vede anche come “autoritaria”: insomma, una sfera da sviluppare in uno spazio in cui ci sia un “terzo”, le istituzioni, lo Stato.
È in tale contesto che va dunque inquadrato quel che dovrà essere il nuovo intervento pubblico, che Pennacchi auspica come risposta al fallimento del modello che ci ha portato fin qui. Non a caso, scrive l’autrice, il recupero dell’intervento pubblico in economia, fatto in emergenza e per necessità sotto i primi colpi della crisi, ha preso la forma di un keynesismo privato, buono con i forti (le banche, la finanza) e cattivo con i deboli (le vittime dell’ineguaglianza creata dal ciclo precedente). Il privatismo in crisi ha modellato anche le cure dei medici che dovevano intervenire sulla sua malattia. Di contro, Pennacchi propone una forma aggiornata e rinnovata di keynesismo, nella quale le politiche della domanda e dei consumi collettivi prendano come orizzonte strategico “beni sociali, beni comuni, green economy”. Forse si può semplificare così: il “comune” non come ricetta universale, ma come ingrediente per un nuovo patto sociale, e nuova linfa per una “sfera pubblica” che è più larga di quella dello Stato, ma che da questo non può prescindere.
Come si può capire da questi brevi cenni, la distanza teorica da altre concezioni e trattazioni del “comune” è molto ampia. E con conseguenze tangibili anche sulle proposte di politica economica che ne derivano: se ne vede un esempio importante nella contrapposizione tra la proposta del reddito di cittadinanza – che l’autrice contesta sul piano pratico, su quello teorico e su quello valoriale – e il “lavoro di cittadinanza” – che invece l’autrice sostiene, come esito di una serie di politiche mirate alla “piena e buona occupazione” – frutto di una visione della politica economica che strutturalmente interviene a correggere, integrare, reindirizzare i fallimenti del mercato. Così come altri esempi, di forte attualità e rilevanza pratica, si possono fare proprio a proposito della gestione di quei “beni comuni” che i referendum del 2011 hanno riportato (almeno sulla carta) nella sfera pubblica: come definirla e gestirla, con quali mediazioni istituzionali, quale partecipazione comunitaria?
Laura Pennacchi, Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica (Donzelli, 2012)