Padri e figli/Padri, figli, educazione e il conflitto intergenerazionale nella lettera classica greca. Da Aristofane al poeta Kriton Athanasulis
«Ma chiunque metta al mondo figli inutili/che cos’altro puoi dire che ha generato/se non pene per sé e molto riso per i nemici?” (Antigone 645-47): nel dissuadere il figlio Emone da un amore impossibile, il Creonte di Sofocle parla con disprezzo dei figli «inutili», quelli che con la loro disobbedienza testarda si rivelano inadeguati a difendere i genitori e la famiglia. In una civiltà come quella greca antica, in cui l’idea dell’educazione, la paideia, era così centrale da «apparire come rappresentativa del significato di ogni sforzo umano» (W. Jaeger), la continuità tra le generazioni è un tema quasi onnipresente, ed è declinato sia in materia di reputazione familiare sia nell’àmbito più strettamente etico. Molti ricorderanno la silenziosa, commovente reazione dell’anima di Achille (pur così scontenta e insofferente del tristo confino nell’Ade), che si allontana a grandi passi da Ulisse tutta lieta dopo aver appreso della valentìa del figlio Neottolemo (Omero, Odissea 11, 540). D’altra parte, nelle Opere e i giorni il poeta arcaico Esiodo si rivolge al fratello Perse esaltando la necessità del lavoro, condannando la pigrizia e l’inazione, e raccontando il declino dell’umanità a partire dalla stirpe degli uomini d’argento, tra i quali «per cent’anni il fanciullo presso la madre saggia / veniva allevato, giocoso e stolto, dentro la casa» (vv. 130-31), salvo poi – appena scollinato lo status di «bamboccione» – scaricare un’insana violenza contro i propri simili.
Educazione e lavoro sono dunque temi indissolubilmente legati nella cultura greca antica, e in quella moderna che almeno in parte se ne proclama erede non si dimentichi che Papamarkos è un classicista, e si ricordino ad esempio i versi del Brano dal mio testamento dedicato dal poeta Kriton Athanasulis al figlio nel 1957 («È questo che ti lascio/Io conquistai il coraggio/d’essere fiero. Sfòrzati di vivere/Salta il fosso da solo e fatti libero/Attendo nuove. È questo che ti lascio»). La tirata paterna in cui culmina il racconto qui presentato può apparire come una sorta di rilettura aggiornata del monologo con cui si apre la commedia Adelphoe del poeta latino Terenzio (direttamente debitrice al prototipo greco di Menandro, IV sec. a.C.): in esso Micione enuncia la lode forse più esplicita e imperitura dell’educazione liberale, della pedagogia fondata su una trasmissione dei valori abbinata alla tolleranza e a una sostanziale sincerità dei rapporti («questo è il dovere di un padre: abituare il figlio a comportarsi bene da sé, e non per timore degli altri», vv. 74-75). Tuttavia, quando il padre di Ghiannis proclama che lui e il figlio sono «fissi sulla stessa trincea», contraddice implicitamente la non meno celebre parenesi del poeta spartano Tirteo ai giovani (fr. 10 W.), affinché siano loro a lottare in prima fila, risparmiando agli anziani l’indecoroso fato della morte in battaglia.
Se però si dovesse indicare un singolo testo antico in cui il conflitto fra le generazioni viene tematizzato, in termini quasi uguali e contrari rispetto alla situazione descritta nel nostro testo, sarebbero senz’altro le Nuvole del più grande commediografo antico, Aristofane (V sec. a.C.): lì il padre Strepsiade si dà da fare per riparare i danni inferti al patrimonio familiare da quell’ozioso scialacquatore del figlio Fidippide, ritratto in apertura mentre «scorreggia tutto infagottato sotto un monte di coperte» (vv. 9-10). In un’Atene ormai evoluta verso l’individualismo e sempre meno timorata grazie all’insegnamento dei sofisti, l’anziano e tirchio Strepsiade prova senza successo a servirsi dei nuovi strumenti di pensiero per rimediare ai debiti contratti dal figlio, fino a rimanere egli stesso stritolato da un sovvertimento dei costumi di cui non sa venire a capo. Altro che le «leggi delle colombe» (ne parla lo stesso Aristofane negli Uccelli), secondo le quali i giovani uccelli devono sfamare i loro anziani genitori così come questi li hanno sfamati nella loro infanzia (un’immagine di gratitudine tra le generazioni che diversi umanisti italiani, da Poliziano a Manuzio, prenderanno come metafora del debito contratto dalla cultura occidentale nei confronti di quella greca antica): nella finzione comica delle Nuvole, si va molto oltre la violazione della legge che obbligava i figli a non maltrattare né trascurare i padri («tu scialacqui la roba mia come se io fossi già morto», vv. 837-38), e l’evoluzione della società sembra ridurre gli scambi fra padre e figlio a veri e propri dialoghi fra sordi. Oggi, più che la violenta incomprensione, regna un’impotente, biunivoca amarezza.