La pensione “anticipata” discrimina le donne, dice il ministro. Ma oggi per le lavoratrici non è obbligatorio ritirarsi a 60 anni. Mentre poche godono della pensione di anzianità
Che sulla questione dell’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne Brunetta abbia ragione? Nella sua intervista a Repubblica del 15 dicembre sosteneva a gran voce la necessità di intervenire per migliorare le condizioni della donna lavoratrice «schiacciata, da una parte, da un lavoro nel quale non può fare carriera e guadagna meno degli uomini e, dall’altra, dalle cure familiari:…ci sono troppe poche risorse per gli asili…discriminazioni nei confronti delle donne che fanno figli. Per forza che abbiamo il tasso di natalità tra i più bassi del mondo! Le donne sono discriminate nella loro carriera professionale: nelle posizioni apicali o non ci sono o sono troppo poche». Un ministro femminista verrebbe da dire. Un ministro che ha ben chiari i problemi delle donne che partecipano o che vorrebbero partecipare al mercato del lavoro e che sa quanto sia importante costruire un sistema di welfare in grado di sostenerle e quando necessario incentivarle, eliminando tutte le discriminazioni di trattamento di cui sono vittime. La differenza dell’età pensionabile, che costringerebbe le donne ad andare in pensione prima impedendo loro di fare carriera e di ottenere un trattamento pensionistico più generoso, è un tassello di questo disegno discriminatorio, dice il Ministro, da cui partire per migliorare la condizione lavorativa di milioni di donne anche sotto la spinta della sentenza della Corte di Giustizia Europea.
Ci sono moltissime osservazioni, e le vedremo brevemente più avanti, che possono essere fatte e che sono state fatte a questa posizione.
Il fatto strabiliante e preoccupante allo stesso tempo è che nessuno ha risposto evidenziando l’unica cosa veramente pertinente. Sarebbe legittimo etichettare come discriminatoria la differenza di età pensionabile, solo se 60 anni fosse l’età di pensionamento obbligatorio. 60 anni è, però, l’età minima richiesta alle donne per poter ricevere la pensione di vecchiaia, la donna però non è assolutamente costretta ad andare in pensione a 60 anni. Se vuole può rimanere, anche senza il consenso del datore di lavoro, fino ai 65 anni. Solo dopo i 65, per le donne così come per gli uomini, per continuare a lavorare è necessario disporre del consenso del datore, che ha eventualmente il diritto di allontanare il lavoratore senza giusta causa. Questo significa che, data la legislazione vigente, affermare che l’età pensionabile differenziata tra uomini e donne sia discriminatoria non è altro che una forzatura. Anzi, questa differenziazione, alla luce dello stato attuale del mercato del lavoro italiano, ha una sua ratio perequativa. La maggior parte degli uomini, infatti, iniziando a lavorare da più giovani, facendo carriera più rapidamente e guadagnando di più, di fatto lasciano il mercato del lavoro con la pensione di anzianità prima dei 60 anni. Le donne, che guadagnano meno e iniziano a lavorare più tardi, difficilmente a 60 anni soddisfano tali requisiti ed infatti solo il 17% di esse esce dal mercato del lavoro con la pensione di anzianità, mentre il restante va come gli uomini in pensione prima dei 60 anni ma con la pensione di vecchiaia
Solo una volta che sia stata fatta chiarezza su questo punto cruciale ha senso far emergere tutte le contraddizioni insite nella posizione del ministro, come è stato fatto dalle diverse voci che hanno preso parte al dibattito.
Se il ministro ed il suo governo avessero realmente a cuore la condizione delle donne sul mercato del lavoro e non solo questioni di cassa, i recenti provvedimenti di politica economica sarebbero stati costellati di tutta una serie di misure, richiamate più volte dallo stesso ministro come strettamente necessarie, per facilitare la conciliazione fra lavoro, compiti di cura (che non riguardano solo i figli ma anche disabili e anziani) e carriera ed incentivare così l’occupazione femminile (nel nostro paese tra le più basse d’Europa). E non parliamo solo degli asili nido, ma del sostegno alla maternità, che può avere molteplici forme, e più in generale dei servizi alle famiglie.
Non solo di queste misure non se n’è vista nemmeno l’ombra, ma in questi mesi il governo si direbbe che si sia prodigato per smantellare sistematicamente, e con la complicità dell’indifferenza generale, i piccoli passi avanti fatti in questi anni. É stata abrogata una legge molto semplice e giusta che impediva il fenomeno delle dimissioni firmate in bianco al momento dell’assunzione e utilizzate dal datore di lavoro per allontanare la lavoratrice qualora fosse rimasta incinta. Non è stato finanziato il Piano contro la violenza sulle donne. Sono stati tagliati pesantemente i servizi sociali erogati a livello locale che sono quelli che maggiormente contribuiscono ad alleviare i compiti di cura a carico delle donne. É stata introdotta, con il detassamento degli straordinari, un’ulteriore discriminazione della posizione della donna sul mercato del lavoro. E questo solo per citare gli esempi più eclatanti, per un’analisi dettagliata si rimanda a “La manovra finanziaria e le donne”.
Infine, anche qualora si ritenesse, erroneamente, la differenza di età pensionabile un elemento discriminatorio, e si avesse realmente a cuore l’equità di trattamento tra uomini e donne non si potrebbe realmente pensare che un provvedimento che interessa una piccolissima fascia delle donne (solo il 23% delle donne italiane tra i 55 e i 64 anni lavora, fonte Eurostat LFS 2007), riesca a dare una sferzata ad una situazione ormai incancrenita. Ci si occuperebbe di favorire l’ingresso delle donne giovani nel mercato del lavoro, di assicurare loro un trattamento economico adeguato, e si appresterebbe un sistema contributivo in grado di garantire loro una pensione decente (cogliamo l’occasione per ricordare che ai precari, la cui probabilità di rimanere precari è man mano che passano gli anni sempre più alta, i discorsi sulle pensioni fanno sorridere).
Un’ultima cosa, Brunetta afferma di «aver fatto due conti» (cito testualmente) dai quali emergerebbe che, incentrando il sistema di welfare sul lavoro piuttosto che sulle pensioni si potrebbero «creare 2,5 milioni di posti di lavoro». Da semplice dottoranda non sono in grado, a differenza del Professore, di fare questi due conti. Però, limitando il ragionamento alla sola età pensionabile, se il suo innalzamento avesse, come si augura il ministro, l’effetto di aumentare il tasso di attività delle donne, a parità di posti di lavoro presenti sul mercato, a me verrebbe banalmente da affermare che ad aumentare sarebbe solo il tasso disoccupazione.