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I beni comuni per uscire dalla crisi

Un estratto dal saggio di Enrico Grazzini “Il bene di tutti. L’economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori riuniti, 2011

Non esistono alternative o scorciatoie. Per uscire dalla crisi occorre innanzitutto creare e sviluppare un’economia policentrica fondata principalmente sull’autogestione dei beni comuni – ovvero dei beni che per loro natura non possono non essere condivisi, come le scienze, Internet, l’informazione, l’ambiente e il territorio, l’aria e l’acqua, la moneta, le reti di comunicazione e di trasporto. Né le forze di mercato né l’intervento pubblico da soli potranno risolvere i problemi che ci hanno portato alla duplice crisi economica ed ecologica: anzi è inevitabile che il mercato e l’intervento pubblico aggravino ulteriormente i problemi già drammatici. Occorrerà piuttosto promuovere l’economia della condivisione e forme di gestione democratica dei beni condivisi da parte delle comunità interessate.

Paradossalmente anche nelle società avanzate si sta riproponendo in forme nuove e originali un problema antico come l’umanità, perché la storia dell’economia inizia con i beni comuni, ovvero con i beni condivisi dalle comunità locali. Attualmente però i commons hanno una dimensione globale oltre che locale. Infatti alcuni beni comuni, come innanzitutto le conoscenze e le risorse ambientali, hanno assunto un’importanza vitale per l’economia e la società globale.

La grande scoperta del premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom è che le comunità organizzate possono essere in grado di regolamentare efficacemente l’uso dei beni comuni a vantaggio di tutti. Se si danno autonomamente delle norme e riescono a sanzionare i trasgressori, e se possono svilupparsi senza essere represse e cancellate dallo stato e dalle corporation, le comunità auto-organizzate sono in grado di consolidarsi, adattarsi alle variabilità di contesto e riuscire a salvaguardare nel tempo i beni comuni. Al contrario la privatizzazione dei commons comporta lo spreco di risorse preziose, gravi inefficienze e alla lunga dinamiche non sostenibili. Anche la statalizzazione dei beni pubblici genera gravi inefficienze, burocratismo, privilegi e corruzione, e alla lunga il degrado e la non sostenibilità.

Ostrom centra la sua attenzione sulle comunità autogestite e su una nuova forma di proprietà, quella comunitaria, che si affianca alla proprietà privata e statale. Peter Barnes, imprenditore sociale e profeta dichiarato dell’utopia post-capitalista, fa un passo in avanti decisivo sul piano delle proposte organizzative nel campo dell’economia dei commons. Per Barnes l’economia capitalista espropria e mette a profitto a beneficio di pochi privilegiati i beni comuni, siano essi culturali (come la musica popolare, Internet, le conoscenze scientifiche); sociali (come le istituzioni pubbliche, le scuole e le strade) o naturali (come l’aria, la terra, l’acqua, le frequenze): tuttavia l’economia basata sul profitto, non solo allarga la forbice sociale tra i ricchi e i poveri, ma diventa insostenibile nel tempo.

Il problema consiste nel fatto che il capitalismo sfrutta gratuitamente i beni ambientali, sociali e culturali comuni senza curarsi degli interessi delle comunità e senza neppure pagare prezzi adeguati. Le aziende da un lato si appropriano gratuitamente o a basso prezzo dei commons pregiati (che considerano “esternalità positive”), per esempio il legname delle foreste, mentre dall’altro scaricano sulla società i costi ambientali e sociali, cioè le cosiddette «esternalità negative» legate, per esempio, alla desertificazione del suolo. Da qui la necessità della costituzione di un terzo settore economico no profit autonomo dal mercato e dai governi: il nuovo terzo settore dovrebbe avere la proprietà formale dei commons, prezzarli considerando anche le “esternalità negative” (e quindi per esempio la necessità di rinnovare le risorse), e soprattutto gestirli in un’ottica di lungo periodo a favore delle comunità interessate e del bene comune.

Secondo Barnes, le istituzioni più adatte a gestire i commons sono le fondazioni, ovvero enti privati senza scopo di lucro dedicati a raggiungere un unico obiettivo fissato dal loro statuto, come la salvaguardia e la valorizzazione di un bene comune. Le forme societarie relative alla proprietà condivisa possono però essere molteplici: l’aspetto fondamentale è che le organizzazioni economiche che controllano i commons – siano esse fondazioni o cooperative, o consorzi, o società per azioni no profit, o società miste o altro ancora – vengano gestite in maniera democratica dalle comunità interessate e dagli altri eventuali partner.

La salvaguardia e la valorizzazione dei commons da parte delle società no profit eviterebbe la catastrofe ambientale, sociale e culturale che il capitalismo speculativo spontaneamente genera nella sua corsa dissennata al profitto. È possibile proporre l’istituzione di enti no profit a diversi livelli: locale; regionale; nazionale; globale. Quello di Barnes non è però un sogno a occhi aperti. Internet per esempio è già la principale organizzazione globale no profit, non privata né statale ma gestita direttamente dalla comunità scientifica in collaborazione con gli utenti, i governi e le società private; e le fondazioni governano già il free software, l’open source, Wikipedia, il browser Firefox, e Creative Commons, l’organismo che gestisce i diversi livelli di copyright. Esistono anche numerose fondazioni che salvaguardano i parchi, le foreste e la natura, o che gestiscono beni culturali – come quella che eroga i premi Nobel o la fondazione “Guggenheim”. Queste organizzazioni impiegano i loro patrimoni non per remunerare i proprietari o gli azionisti – come avviene nelle società private – ma per raggiungere lo scopo sociale fissato dal loro statuto.

In Italia, le fondazioni di origine bancaria hanno un ruolo di primaria rilevanza perché controllano i maggiori istituti bancari e finanziano attività preziose nel campo della cultura, della ricerca, della conservazione dei beni artistici, dei servizi sociali. Particolarmente in Italia, le fondazioni hanno, quindi, un ruolo estremamente importante e positivo per quanto riguarda la stabilità del sistema bancario, dei territori e delle comunità civili. Probabilmente si deve alla natura no profit delle fondazioni bancarie il fatto che le banche italiane siano rimaste coinvolte meno delle altre sorelle estere nella speculazione sui derivati. Ed è senz’altro positivo che parte dei profitti realizzati dalle banche siano investiti nella cultura e nel sociale grazie all’attività delle fondazioni. La soluzione alla crisi economica passa anche per la diffusione e il potenziamento delle fondazioni e delle banche cooperative.

Nel campo strategico della conoscenza, in particolare quella finanziata con soldi pubblici, è possibile proporre la creazione di fondazioni costituite da scienziati, ricercatori, università e istituti di ricerca ai diversi livelli, che gestiscano direttamente e autonomamente l’accesso ai brevetti sulle loro invenzioni. Le fondazioni dovrebbero avere l’obbligo di licenziare le loro scoperte a tutti senza discriminazioni, e a prezzi convenienti e accessibili, con l’obiettivo di diffondere le conoscenze e di utilizzare i ricavi per sviluppare ulteriormente le ricerche pubbliche, per esempio sulle energie rinnovabili. Spesso però le istituzioni no profit sono considerate marginali e vengono perfino denigrate e attaccate prendendo a pretesto fallimenti, errori e difetti, semplicemente perché non sono istituzioni di mercato e non rispondono ai criteri ideologici del neoliberismo imperante. Occorrerebbe invece creare le condizioni migliori per promuovere la democrazia e la partecipazione diretta al loro interno, per svilupparle ed estenderle e per metterle al centro della politica economica.

L’economia della condivisione suggerisce che l’ambiente, le conoscenze, l’informazione dovrebbero essere gestite dalle comunità interessate. La sharing economy non ripropone tuttavia l’utopia dell’autogestione dell’economia proposta nel secolo scorso dalla sinistra comunista e socialista. A parte l’esperienza generalmente positiva delle cooperative di lavoratori, l’utopia generosa e nobile dell’autogestione della produzione ha finora avuto esiti a dir poco sfortunati. I consigli operai di gestione, nati durante le diverse crisi del capitalismo in differenti paesi, hanno infatti avuto vita breve, e i soviet del comunismo sono sfociati nella dittatura di partito sulla classe operaia e sulle classi popolari.

La realtà economica e sociale attuale è molto diversa e, per molti aspetti, più positiva: nella società della conoscenza prevalgono infatti, anche numericamente, i knowledge worker, una classe che controlla un mezzo di produzione intangibile ma fondamentale, e che ha, e avrà sempre di più, le competenze e la capacità di gestire i beni comuni più pregiati, le conoscenze, l’informazione e l’ambiente. I knowledge worker rappresentano infatti, nelle economie avanzate, la quota maggioritaria di lavoratori – generalmente oltre il 40 per cento del totale degli occupati –, e hanno elevati livelli di istruzione e le migliori competenze per gestire autonomamente il bene pubblico della conoscenza, tanto più rilevante dal momento che è trasversale a tutta l’attività produttiva. Gli esempi di autogestione dei commons immateriali da parte dei knowledge workers sono ormai numerosi e noti, e li abbiamo già citati: Internet, Wikipedia, il free software e i programmi open source, i progetti di open science. Anche grazie all’attività di studio, di analisi e di denuncia da parte dei knowledge workers, le comunità locali sono sempre più informate e attente relativamente ai problemi legati all’inquinamento, al cambiamento climatico, alle energie “sporche” e non rinnovabili, alla salute pubblica, alla gestione delle risorse territoriali, e alla qualità della vita.

In questo contesto i movimenti dovrebbero esercitare la loro azione politica ed economica perché i governi assegnino prioritariamente alle società no profit i diritti di proprietà dei commons senza cedere invece agli appetiti delle corporations. Lo stato dovrebbe anche finanziare il riacquisto dei commons già ceduti ai privati; e favorire sul piano giuridico, fiscale e amministrativo la creazione e lo sviluppo delle società senza scopo di lucro e del terzo settore no profit, e garantire in ultima istanza lo sviluppo equilibrato dell’economia policentrica. In effetti l’accesso aperto ai beni comuni rappresenta la condizione per un mercato più dinamico e competitivo, e quindi più innovativo, non dominato dai monopoli; e costituisce anche la condizione fondamentale per un intervento pubblico efficace perché controllato dalle comunità e dal basso. Il futuro va verso l’economia policentrica.