Con papa Francesco torna nel discorso pubblico la questione delle diseguaglianze. Quella che una volta si declinava in termini di diritti e welfare. Un percorso da non cancellare ma da riprendere, sperimentando nuove forme di innovazione sociale
Il papa, con l’espressione “gli ultimi” , ci ha portati a riconoscere che ci troviamo collocati in una società di disuguaglianze. A un dato pesantissimo (che conosciamo, e lo diamo quasi per scontato) ha portato alla nostra attenzione anche la presidente della Camera Laura Boldrini : la tragedia dei moltissimi bambini, donne, uomini, che muoiono annegati in drammatici viaggi attraverso il Mediterraneo.
Dunque per alcuni giorni anche i media hanno messo gli “ultimi” al centro della comunicazione. Quante volte si gioca – lo vorrei dire così – a questo gioco. Breve attenzione, poi si passa ad altro.
Questa parola, appunto gli “ultimi”: un’occasione per soffermarsi su questioni che nel dibattito in corso da molti mesi ormai sono lasciate ai margini (o del tutto fuori: i temi che ricorrono, il crollo dei consumi, crescita e decrescita; e lavoro, certo).
Nel discorso pubblico si parlava – fino a non molto tempo fa – di diritti, di politiche sociali. Si faceva riferimento a obbiettivi di equità; al welfare. Il modello: una società (la nostra) avviata ormai nella giusta direzione: al centro la garanzia dei diritti fondamentali, politiche sociali volte a realizzare maggiore equità. Certo si era consapevoli di problemi e dati negativi. Ma, così si pensava, si stava andando avanti.
Le condizioni in cui ci troviamo oggi – questo viene messo in evidenza da ogni parte – non rendono più realizzabili i riferimenti (appunto, come formulati negli anni scorsi) allo scenario del welfare e dello stato sociale. Si è ormai presa la distanza dagli obbiettivi che da decenni erano stati posti come fondamentali, e assunti come irrinunciabili, nella cultura che abbiamo condiviso ( in Italia, in Europa: anche se avrebbe certo senso allargare lo sguardo). Con un termine che è stato proposto in passato, e che trovo oggi adeguato: la nostra, una società segmentata. E dovremmo essere consapevoli che le differenze e le disuguaglianze si faranno in futuro più pesanti.
Importante farci domande sul “futuro”, guardando in particolare a come funziona la scuola.
Prendo alcuni dati dal recente Rapporto (Ismu e Miur) sulle istituzioni scolastiche, confermati anche da una recente iniziativa dell’Ocse. Otto bambini su dieci nelle scuole italiane sono figli di immigrati. A Milano e in altre grandi città, uno su quattro. Le scuole “multietniche”: così si definiscono quelle in cui il numero degli immigrati supera il 50 per cento. E ci sono le “scuole ghetto”: istituti tecnici e professionali frequentati quasi solo da “immigrati” (fino all’80 per cento). Alte le percentuali dei bocciati, dei ripetenti.
E proprio in queste settimane ci si confronta con la questione dei test d’ingresso (o di ammissione): nuove procedure introdotte nelle scuole superiori, e che in alcune situazioni si propongono anche per la scuola dell’obbligo . L’idea è che la possibilità di accesso ai livelli superiori del sistema formativo sia determinata sulla base del “merito”. E poi, due sistemi, scuole pubbliche e scuole private.
Un sistema formativo sempre più selettivo e “meritocratico”, cosa comporta?
Merito e meritocrazia, parole pericolose. Si è più bravi a scuola per “merito” o se si ha la fortuna di crescere in un contesto che facilita, rende possibile, imparare? E se le condizioni legate all’ immigrazione ovviamente in molti casi funzionano nel senso di discriminare, è chiaro che disuguaglianze e disparità di diverso tipo segnano la nostra società . Conta dove sei collocato quando nasci , e in quale contesto cresci (altro che “meritocrazia”). Tutto questo, nel nostro dibattito pubblico, non lo si richiama se non occasionalmente, in ristrette cerchie di “addetti ai lavori”: ma ci riguarda tutti. Ed è al quadro d’insieme , alla società e ai suoi meccanismi, che è necessario rivolgere attenzione: alla nostra società segmentata, disuguale, selettiva. Senza lasciarsi cadere, se ci riusciamo, nelle letture tutte negative che da ogni parte -dati di ricerche, comunicazioni sui media, anche approfondimenti di studiosi del sociale- ci vengono trasmessie.
Un accenno a un ‘occasione recente. La scuola prima di tutto”era il tema di un incontro organizzato il 23 febbraio scorso per iniziativa dell’ Assessorato Scuola e Formazione della Regione Emilia. Lo riprendo appunto perché, i segnali e positivi, dobbiamo trovarli e farli conoscere. Ce ne sono.
E’ trascorso quasi un anno dal terremoto che a fine maggio 2012 ha colpito molte aree dell’Emilia Romagna (e non solo). Si è valutato che mai in passato si fossero avuti danni così pesanti agli edifici scolastici: in pochi giorni sono andati distrutti per 70.000 studenti i luoghi nei quali erano abituati a passare ogni giorno parte del loro tempo, a incontrarsi con amici e insegnanti: la vita di tutti i giorni, lo dico così. Appunto, le scuole. Naturalmente molti altri gli aspetti da affrontare: distrutte abitazioni, luoghi di lavoro, sedi di imprese e uffici, spazi pubblici non più utilizzabili.
Si è parlato, nel corso dell’incontro a cui faccio riferimento, dei tanti aspetti del percorso della ricostruzione, delle molte forme di attenzione e collaborazione che sono state realizzate (aiuti internazionali; a livello nazionale rapporti tra la regione e altri organismi: iniziative locali). E nel portare avanti i progetti della ricostruzione non si è riproposto quello che c’era prima: si è insistito su un approccio (“urbanistico” ma non solo) innovativo, adeguato a processi e domande di cambiamento. In particolare questo obbiettivo: fare in modo all’avvio dell’anno scolastico successivo tutti ritrovassero la loro “ scuola” , pensata e realizzata, però , come consapevole di ed adeguata alla situazione dalla quale sui usciva.
Ed è stato presentato un video che mostrava come bambini e adolescenti e ragazzi lo hanno vissuto, un evento ovviamente imprevedibile e in tanti modi pesante: il doversi confrontare con la paura, gli sconvolgimenti in tutti i contesti. Comunque non più le consuetudini del vivere di tutti i giorni a cui erano abituati.
Con approcci attenti anche alle dimensioni psicologiche e sociali dell’esperienza che avevano vissuto, si è messa al centro la scuola. Non come spesso si fa, l’istituzione scuola intesa nel senso più tradizionale: invece bambini e bambine, ragazze e ragazzi, la loro vita di ogni giorno. Nelle condizioni che si erano venute a determinare, le possibilità (anche la voglia) di cambiare.
Le scuole come “laboratori di sperimentazione”. Dall’impegno per questo ripartire, molto si è imparato, nel lavoro degli insegnanti e di tutto il personale scolastico; e nelle diverse sedi e iniziative di responsabilità pubblica. Riflettiamo anche qui su quel che c’è nelle parole che si usano, e che si mettono in circolo.
Riprendere il linguaggio del “welfare” oggi forse non basta. Però se la parola centrale è gli “ultimi”( e “noi” – che ultimi non siamo – veniamo spinti ad attivarci per questi ultimi) si rischia di cancellare un lungo percorso.
Impegnamoci a realizzare “laboratori di sperimentazione”.