L’accordo tecnico raggiunto tra il govero greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta
L’accordo tecnico raggiunto tra il govero greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta: usando la consueta strategia di rifiutare sempre ogni concezione “tecnica” e “puramente economica” delle strategia imposta al paese, Tsipras aveva sollecitato la cancelliera Merkel e i massimi responsabili dell’UE a mettere freno al pericoloso gioco che portava avanti il FMI con la complicità del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schauble. Il risultato è stato un compromesso, doloroso per Atene, ma necessario per portare avanti lo scottante problema del debito.
Si può dare per scontata la conclusione favorevole della seconda valutazione, che era in sospeso fin dalla fine di novembre, alla prossima riunione dell’Eurogruppo. Obiettivo importante per Atene, non tanto per la tranche di quasi 8 miliardi che saranno versati per il pagamento di varie scadenze del debito. L’importanza consiste nel fatto che la Grecia può ragionevolente sperare di potere oramai entrare nel programma Quantitative Easing della BCE.
Tsipras ha correttamente compreso che la parte più importante dell’adesione a questo programma non consiste nei miliardi che saranno incassati, quanto invece nel messaggio che Draghi manderà ai mercati e a chi studia possibili investimenti: un messaggio di svolta rispetto al passato: il paese si accinge a entrare in una fase di sviluppo. Questo passo della BCE in pratica si dovrebbe tradurre in un lento e difficile processo, pieno di insidie, alla fine del quale, se tutto va bene, alla conclusione del programma di “salvataggio” della Grecia, nell’estate del 2018, il paese potrà rientare nei mercati internazionali con i suoi bond. Gli aquirenti, in altre parole, dovranno essere rassicurati dalla BCE sul fatto che il pericolo di grexit sia svanito e che le opportunità di investimento offerte dal paese sono buone e a buon mercato.
Affinchè la Grecia venga inclusa nel progamma Quantitative Easing Mario Draghi dovrà decretare che il suo debito sia sostenibile. E’ evidente che tale definizione non ci può essere prima che la BCE abbia la possibilità di esaminare almeno le bozze delle misure a medio termine previste per il suo alleggerimento, anche se poi la loro applicazione inizierà l’anno prossimo o anche nel 2019. E questo nel migliore degli scenari, nel rarissimo caso cioè che Draghi non chieda impegni chiari e precisi.
E’ evidente che, anche su questo fronte, ogni decisione sarà presa, a cominciare dal prossimo vertice Eurogruppo, in base a criteri più politici che tecnici. Per il Presidente dela BCE significa di fatto procedere a forti sconti alle condizioni poste per il coinvolgimento al programma Quantitative Easing nel momento del suo annuncio, nel 2014.
In questo momento siamo ancora nella fase del dibattito riguardo alle misure da prendere a medio termine. Ai colloqui che si sono svolti in margine al vertice europeo di Malta, sono state anche segnalate delle convergenze tra il FMI e il governo tedesco, anche se in linea di massima le loro posizioni conitnuano a trovarsi agli estremi, con l’organismo della Lagarde che spinge per un haircut al più presto e Schauble che frena.
La sostenibiltà del debito greco è anche, per statuto, un punto chiave perchè il FMI continui a partecipare al programma greco. Dopo la conclusione anche tecnica dell’accordo agli inizi di maggio, le due altre richieste forti del Fondo, l’abbassamento della soglia di reddito esente da imposte e il taglio delle pensioni, sono state sostanzialmente soddisfatte dall’accordo di maggio, anche se non nella stessa misura.
La posizione del Fondo è che la sostenibilità del debito greco sarà assicurata se saranno rispettate due condizioni: da una parte, se sarà richiesto un’avanzo primario non eccessivo per il periodo seguente la conclusione del programma, cioè dal 2019 in poi. Dall’altra, se saranno annunciate fin da ora misure radicali a medio termine per il suo alleggerimento. In particolare, il FMI ha stimato che l’avanzo primario per il 2019 non dovrebbe superare l’1,5% del PIL. Ma è consapevole del fatto che gli europei molto difficilmente accetteranno una stima così bassa.
Nell’accordo tecnico appena sottoscritto si fa riferimento alla necessità di mantenere l’avanzo primario dopo il 2018 sul 3,5% per un periodo di tempo non specificato. Per Schauble si tratterebbe di un un periodo di 10 anni. Per il FMI un avanzo così alto per un periodo così lungo è “totalmente irrealistico”. In realtà, il decennio di Schauble sembra non essere più sul tavolo delle trattative, dove il negoziato verte tra i sostenitori del quinquennio e quelli che riducono il periodo a soli 3 anni. Quest’ ultima è la posizione di Atene, sostenuta dalla Commissione Europea. Alla fine del triennio, il surplus dovrebbe abbassarsi al 2,5%.
Si arriva così al nodo principale, che sono, come già detto, le misure a medio termine per il debito. L’ostacolo principale è Schauble. Di solito, si attribuisce questa sua inflessibilità alle necessità imposte dal periodo preelettorale che attraversa la Germania. Sicuramente la scadenza elettorale di settembre svolge un ruolo importante, ma il motivo vero è che lo stesso gruppo dirigente tedesco ha a lungo coltivato un clima estremamente sfavorevole per la Grecia, non solo presso l’opinione pubblica tedesca ma anche il sistema politico del paese, isolando le poche voci critiche, i Verdi e Die Linke.
Dietro la demonizazione dei greci c’è la strategia che Schauble e anche della Merkel hanno applicato fin dall’inizio della crisi, nel 2010, e che aveva un forte carattere punitivo: bisognava usare la crisi greca come un esempio negativo, come ammonimento per gli altri paesi non virtuosi dell’eurozona. Questo ha creato solidi stereotipi nell’opinione pubblica e anche nel gruppo parlamentare democristiano. Questi stereotipi hanno portato ora alla pretesa del corpo elettorale più conservatore di “riavere indietro fino all’ultimo centesimo”, rendendo difficile per la Merkel distaccarsi da posizioni oltranziste.
Il risulato è che il governo tedesco si trova di fronte a una contraddizione insolvibile: rifiuta le condizioni che il FMI pone per continuare a partecipare al programma greco, ma ritiene indispensabile la sua partecipazione. E questo perchè nel 2015 il terzo pacchetto di misure per la Grecia fu approvato al Bundestag con la condizione della partecipazione del FMI, in modo da assicurare misure più rigorose.
A febbraio sono state pubblicate le stime del FMI per le economie europee. La parte riguradante la Grecia tradiva le contraddizioni in cui si è trovata Christine Lagarde. Il board del Fondo ha imposto una visione strettamente correlata con lo statuto. Negli ultimi due anni il governo tedesco è riuscito ad arginare questo problema, muovendosi dietro le quinte, con accordi sotteranei con la Lagarde e con il responsabile per l’Europa Poul Thomsen. In questo modo, pur non partecipando di fatto al programma greco, il FMI ha fatto gioco di squadra con la Germania nel rendere sempre più pesanti le condizioni affnchè fosse chiusa la prima e la seconda valutazione delle “riforme” promosse dal governo greco.
Ma a febbraio, il board ha tirato le redini e la direttrice ha dovuto annacquare le sue prese di posizione, lasciando il solo Schauble a reggere la trincea dell’intransigenza. Il ministro tedesco ha reagito con la solita aggressività, ipotizzando la trasformazione dell’EMS a una specie di “FMI europeo”, escludendo però che questo valga per il caso greco. Qualche settimana fa Schauble non ha esitato perfino di riconoscere che le previsioni economiche di fonte greca siano più attendibili di quelle del Fondo.
In Grecia qualcuno aveva interpretato questa ultima dichiarazione come una svolta nell’atteggiamento del governo tedesco verso Tsipras. La verità però è un’altra. Schauble voleva sfruttare il maxi avanzo primario del 4,6% del 2016 per spingere il FMI a chiedere un avanzo del 3,5% il più a lungo possibile per gli anni dopo il 2018.
Come già si sa, l’impegno greco chiesto dai creditori per l’anno scorso era quello di ottenere un avanzo primario dello 0,5%. Aver superato otto volte quell’obiettivo ha dato nuova spinta al governo. Anche troppo, visto che è stato ottenuto con un ulteriore inasprimento delle imposte, togliendo fondi indispensabili all’economia reale e, alla fine, ha dato corda a Berlino per ottenere nuove imposte e nuovi tagli alla spesa pubblica.
Qualche settimana fa lo stesso Thomsen ha ammesso pubbicamente che nei primi 5 anni di applicazione del programma greco egli ha “sbagliato tutto” poichè aveva “sopravvalutato l’effetto delle misure sui conti pubblici”. Negli ultimi due anni, ha aggiunto, continuava a “sbagliare tutto” perchè l’aveva “sottovalutato”. Si è affrettato comunque ad aggiungere che aver ottenuto un ottimo avanzo primario nel 2016 non significa che sia “realistico” esigerne uno del 3,5% per molti anni di seguito.
Un’autocritica doverosa, vista la macroscopica inesattezza delle previsioni del FMI rispetto alla Grecia, oggetto ormai di commenti salaci in tutta la comunità degli economisti. Vanno quindi valutate con questo criterio le previsioni del Fondo sull’avanzo per l’anno in corso, che prevedono l’1,8%, contro l’impegno greco verso i creditori del 1,75% del PIL. Dal 2018 fino al 2022 si manterrà sul 1,5% contro il dovuto 3,5%. E tutto questo a condizione che già al prossimo Eurogruppo si inizi seriamente a studiare le misure di alleggerimento del debito.