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Gli Stati Uniti a vent’anni dall’11 settembre

Dopo l’11 settembre 2001 la guerra in Afghanistan si doveva evitare. Ora sono necessari tagli alla spesa militare Usa e la fine delle strategie di guerra. Un testo dall’ebook di Sbilanciamoci! “Afghanistan senza pace, 2001-2021”.

In quelle prime ore strazianti dopo che alcuni aerei furono usati come bombe l’11 settembre 2001, l’intero paese si trovò paralizzato dalla paura. Prima di allora, pochi cittadini americani avevano vissuto un attacco di tale portata sul suolo americano.

Foto di Giuliano Battiston

In quei primi momenti di disperazione e panico, si cercò di capire cosa fosse successo e di trovare il modo di reagire. Politici, accademici e commentatori, e persino alcuni leader religiosi, sfogavano la loro rabbia chiedendo vendetta. La risposta a questi appelli non si fece attendere. Il presidente George W. Bush annunciava, a pochi giorni dagli attentati, che gli Stati Uniti avrebbero “mobilitato il mondo” contro il terrorismo. Il Presidente rispondeva a questo orribile crimine portando il mondo in guerra. 

Ma fuori dalla Casa Bianca, stava già emergendo un altro tipo di risposta. A poche ore dagli attacchi, oppositori alla guerra, attivisti per la giustizia razziale e ambientale, veterani del movimento operaio e organizzazioni femministe iniziavano a fare rete, convocando manifestazioni di piazza e proteste contro la corsa verso la guerra.

La settimana successiva all’annuncio di Bush, molte piazze furono animate da piccole manifestazioni, e la prima convocazione di una protesta nazionale a New York fu lanciata un paio di settimane dopo. Un gruppo di noi si riunì per affermare che “il nostro dolore non è un chiamata alla guerra”. Subito dopo annunciammo la creazione della rete di “Famiglie dell’11 settembre per un domani di pace” (9/11 Families for Peaceful Tomorrows). Tutti quelli che ne fanno parte hanno perso i propri cari negli attacchi.

La sede dell’Institute for Policy Studies (IPS) vicino alla Casa Bianca veniva evacuata più volte al giorno, per cui decidemmo di riunirci a casa di uno dei nostri fondatori, Marcus Raskin. Ex funzionario della Casa Bianca durante l’amministrazione Kennedy, a Raskin dobbiamo il concetto di “stato di sicurezza nazionale” per descrivere gli Usa.

Molti di noi erano convinti che gli interventi militari non rappresentassero una risposta efficace alle crisi globali, fino a quel momento avevano sempre finito per aggravarle. Sapevamo che la risposta immediata sarebbe stata quella di invadere l’Afghanistan, ma che non sarebbe stato l’unico teatro della ‘guerra al terrore’. E sapevamo che la guerra avrebbe fallito.

La guerra non avrebbe ottenuto giustizia, non avrebbe liberato le donne, o portato democrazia agli afghani impoveriti e oppressi, nè avrebbe scongiurato attacchi terroristici in futuro. Anche prima del suo inizio, sapevamo che essa non sarebbe stata intrapresa per realizzare questi obiettivi. L’invasione dell’Afghanistan è stata progettata per legittimare il sostegno popolare ad una più vasta guerra globale. 

Sapevamo di dover lottare in modo diverso: per la giustizia, non per la vendetta. Con Harry Belafonte, Danny Glover, i direttori di YES Magazine, contattammo attivisti, attori, artisti, accademici, imprenditori e leader religiosi che sapevano, anche in quei primi spaventosi giorni, che la corsa alle armi era sbagliata.

Il nostro appello “Giustizia non vendetta” (pubblicato in apertura di questo ebook) ricevette oltre 100 firme, tra cui quelle della veterana dei diritti civili Rosa Parks, di Ben Cohen e Jerry Greenfield (i produttori di gelati Ben & Jerry’s), dell’intellettuale Edward W. Said, dell’icona femminista Gloria Steinem, ed è stato tradotto e pubblicato in tutto il mondo. Il testo dichiarava che «una risposta militare non pone fine al terrore. Piuttosto, può scatenare un ciclo di violenza crescente, la perdita di vite innocenti e nuovi atti di terrorismo».

Si affermava che «sebbene gli atti terroristici dell’11 settembre siano stati diretti agli Stati Uniti, tra le vittime si contano cittadini di oltre 50 nazioni» e che «la nostra migliore possibilità per prevenire atti terroristici così devastanti è agire in modo deciso e cooperativo come parte di una comunità di nazioni, nel quadro del diritto internazionale, e lavorare per la giustizia in patria e all’estero».

Abbiamo avvertito del rischio che il pretesto degli attacchi potesse essere usato per minacciare i nostri diritti anche in casa. «Le leggi a difesa dei nostri diritti e delle nostre libertà civili negli Stati Uniti non devono subire condizionamenti; ciò farebbe infatti il gioco di coloro che hanno compiuto questi atti vendicativi». Avevamo ragione. E non eravamo soli.

L’88% dei cittadini statunitensi all’inizio ha sostenuto la guerra, ma molti lo facevano parallelamente a una richiesta di giustizia. «Sono convinta che l’azione militare non impedirà ulteriori atti di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti» era il monito della deputata Barbara Lee, democratica della California, l’unica rappresentante al Congresso ad aver votato contro l’autorizzazione alla guerra in Afghanistan. E aggiungeva: «Come ha detto in modo eloquente una personalità religiosa, ‘Quando entriamo in azione, non dobbiamo diventare noi il male che deploriamo’».

L’opposizione ha continuato a diffondersi in tutto il paese e in tutto il mondo, mentre i caccia-bombardieri e le forze speciali inviate dal Pentagono distruggevano le vite di decine di migliaia di afghani che non avevano nulla a che fare con l’11 settembre. Mentre la ‘guerra globale al terrore’ di George W. Bush si estendeva ad altri paesi – come l’Iraq – provocando devastazioni sempre maggiori, le proteste aumentavano, culminando nel 2003 nelle più grandi mobilitazioni contro la guerra che il mondo abbia mai visto.

Col tempo, il consenso alla guerra ha perso terreno. Oggi, 20 anni dopo, un’enorme maggioranza dell’opinione pubblica si è espressa contro la possibilità di nuove guerre e a favore che quelle in corso giungano a termine. Quelli di noi che chiedono la fine della guerra non sono più una minoranza isolata.

Due decenni dopo, i costi umani e finanziari della ‘guerra globale al terrore’ sono uguagliati solo dalle opportunità che abbiamo perso. Come mostra lo studio dell’Institute for Policy Studies “Stato di insicurezza. I costi della militarizzazione americana dall’11 settembre 2001 a oggi” (una sintesi è pubblicata qui di seguito), gli Stati Uniti hanno speso oltre 21 mila miliardi di dollari in guerre, mantenimento dell’esercito e programmi di sicurezza nazionale dall’11 settembre a oggi. Quei soldi avrebbero potuto essere utilizzati per l’assistenza sanitaria, per contrastare il cambiamento climatico, per il lavoro e l’istruzione. Avrebbero potuto finanziare lo sviluppo e la salute di afghani, iracheni, somali e di altri popoli, piuttosto che alimentare decenni di guerre inutili.

Per disporre dei fondi necessari a questi e altri obiettivi, e per impedirci di uccidere in tutto il mondo, dobbiamo tagliare la spesa militare. Se tagliassimo a metà il bilancio militare Usa spenderemmo comunque più di Cina, Russia, Iran e Corea del Nord messi insieme. E abbiamo bisogno che il Congresso smetta di autorizzare guerre ingiuste e illegali.

Il voto solitario di Barbara Lee contro la guerra di Bush 20 anni fa dovrebbe essere un modello per ogni membro del Congresso e per ciascun elettore. Vale la pena seguire il suo esempio anche adesso: Lee ha presentato di recente progetti di legge per abrogare l’autorizzazione alla guerra del 2001 e per tagliare le spese militari di 350 miliardi di dollari all’anno.

E dobbiamo continuare a protestare. Nel 1975, dopo la fine della guerra degli Stati Uniti in Vietnam, il Pentagono si lamentò della ‘sindrome del Vietnam’: per 15 anni l’opinione pubblica americana ha registrato grandi maggioranze contro la guerra, ha costretto il Congresso a tagliare le spese militari, impedire il dispiegamento di truppe e persino rendere illegali alcune azioni militari. Forse, e diciamo forse, è ora che emerga una ‘sindrome dell’11 settembre’. È ora di fermare le guerre.

John Cavanagh è Senior Advisor presso l’Institute for Policy Studies e coautore del libro appena pubblicato The Water Defenders: How Ordinary People Saved a Country from Corporate Greed.

Phyllis Bennis dirige il progetto New Internationalism presso l’Institute for Policy Studies. È autrice di Before & After: US Foreign Policy and the War on Terrorism.

Questo testo è la traduzione dell’articolo “9/11 and After: The Need Is Still for Justice, Not Vengeance” pubblicato su The Nation il 10 settembre 2021 e disponibile a questo link. Traduzione di Daniela Musina.