La crisi mondiale esplosa nel 2007 negli Stati Uniti con lo scoppio della bolla immobiliare e il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008 affonda le sue radici nella finanza
La deregolamentazione del settore bancario, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, ha permesso la trattazione di prodotti finanziari altamente rischiosi il cui fallimento, scatenato dal default dei mutui sub-prime e dal collasso dei prezzi nel settore immobiliare americano, ha aperto enormi voragini nei bilanci delle più grandi banche d’affari del mondo.
Tuttavia in Europa la crisi finanziaria si è presto evoluta in crisi del debito sovrano. Tra il 2010 ed il 2011 molte economie dell’Euro zona hanno visto il carico del debito pubblico aumentare consistentemente come conseguenza sia dei piani di salvataggio per il settore bancario, sia per l’ausilio di politiche fiscali espansive per far fronte alla recessione nell’economia reale. L’aumento eccessivo del debito ha poi innescato la speculazione finanziaria. Gli stati periferici dell’area Euro come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, si sono trovati nella condizione di dover pagare tassi di interesse insostenibili sull’emissione del debito sovrano per potersi finanziare sul mercato dei capitali privati. Soltanto l’aiuto congiunto di Banca Centrale Europea, Commissione, Fondo Monetario ed un fondo europeo, oggi dopo alcuni cambi di nome noto come MES (meccanismo europeo di stabilità) finanziato in maggioranza dalla Germania, ha impedito il default della Grecia nel 2010. Ma gli aiuti ricevuti dal paese ellenico, come quelli ricevuti in seguito da Spagna e Portogallo, sono stati vincolati all’adozione di pesanti misure di austerità consistenti in tagli ingenti nella spesa pubblica che hanno sprofondato le economie nella recessione. Il debito eccessivo accumulato da questi stati, infelicemente accomunati insieme ad Italia ed Irlanda dall’acronimo PIIGS, è stato addebitato alla gestione sconsiderata delle risorse finanziarie pubbliche nazionali, all’opposto dell’uso virtuoso che ne hanno fatto paesi come la Germania. Ma da un esame più attento della zona Euro è possibile trarre altre conclusioni. Dal 2000 ad oggi sono stati registrati crescenti squilibri commerciali all’interno dell’area della valuta comune, da un lato da quei paesi che oggi soffrono per la crisi del debito sovrano, dall’altro dalle economie più forti dell’area, tra cui per l’appunto la Germania.
Costo del lavoro e squilibri commerciali
Già dal 2010 l’opinione pubblica internazionale ha iniziato a considerare gli enormi surplus commerciali accumulati dalla Germania come una della cause degli squilibri della zona Euro, quando l’allora Ministro dell’economia francese Christine Lagarde dichiarò pubblicamente come il continuo surplus dell’export tedesco rappresentasse una minaccia alla stabilità economica dell’intera area. Se da un lato la Germania, ma anche l’Austria, i Paesi Bassi e la Finlandia, hanno registrato consistenti avanzi commerciali, dall’altro Spagna, Italia e Grecia, hanno visto i propri disavanzi commerciali crescere specularmente (Fig.1).
Fig. 1 – Saldi dei conti correnti di alcuni paesi dell’area dell’euro (fonte: Memorandum 2011 in Troost/Hersel 2011)
Ma da cosa derivano surplus così consistenti, come in particolare quello della Germania? Senza dubbio l’economia tedesca è caratterizzata da un tessuto industriale solido e competitivo, nell’industria automobilistica e dei trasporti, della meccanica industriale e della chimica farmaceutica. Ma non solo. Sono due i fattori economici che hanno mantenuto competitivi i prezzi dei beni tedeschi, permettendo di conseguenza all’export di crescere a dispetto dei competitori europei: la moneta unica e la mancata crescita del salario reale.
In presenza di valute nazionali, l’aumento dell’export tedesco avrebbe portato a un apprezzamento della valuta nazionale contro le altre valute europee. Con la moneta unica questo meccanismo è stato annullato. L’apprezzamento della valuta nazionale tedesca avrebbe da un lato scoraggiato le esportazioni tedesche in favore dei paesi concorrenti, dall’altro grazie alla svalutazione delle valute europee nei confronti della divisa tedesca avrebbe incoraggiato le importazioni della Germania.
In secondo luogo, dal 2000 a oggi i salari reali tedeschi sono sostanzialmente rimasti invariati nonostante l’aumento di produttività. In contrasto ai concorrenti europei, il costo unitario del lavoro tedesco è progressivamente diminuito, dando così ai beni tedeschi un vantaggio comparato nel mercato europeo. All’opposto, nei paesi periferici dell’area euro il salario reale è aumentato più della produttività, aumentando il costo unitario del lavoro e diminuendo la competitività dei prodotti nel mercato dei beni europeo (Fig. 2).
Fig. 2 – Variazioni di salario nominale, produttività, costo unitario del lavoro e prezzi, 2000-2007 (percentuali) (fonte: Ocse)
Il vantaggio competitivo rappresentato dal minor costo unitario del lavoro in Germania ha operato una redistribuzione della ricchezza dai salari ai profitti, e ha reso la crescita economica tedesca dipendente dal raggiungimento di export commerciali. Molti economisti concordano nel valutare che i salari tedeschi non sono cresciuti negli ultimi anni a causa delle riforme del mercato del lavoro (come il taglio ai sussidi di disoccupazione) realizzate nel 2010 con l’Agenda di riforme nazionali e, negli anni precedenti, per le misure della coalizione rosso-verde guidata da Gerard Shröder. Tuttavia in un’unione economica e monetaria, dove l’export di una nazione rappresenta l’import di un’altra, le politiche neo-mercantiliste operate dalla Germania si sono rivelate estremamente dannose per le economie più deboli della stessa area valutaria comune, configurandosi come vera e propria mancata domanda aggregata nell’area.
In conseguenza, le politiche di austerità fortemente volute dal governo di Berlino e dalla Commissione europea non rappresentano la giusta medicina per la cura dei malati europei. La crisi del debito pubblico deriva dalla scarsa capacità delle economie più deboli dell’Euro zona di produrre reddito e può essere affrontata soltanto con un maggiore coordinamento delle politiche dei salari e delle politiche fiscali. Per le prime occorre, come già indicato da Andrew Watt nel dibattito La rotta d’Europa, un sistema di contrattazione salariale a livello comunitario che rispetti una regola aurea per la crescita dei salari, in accordo alla quale i salari nominali in ogni paese crescano ad un tasso uguale alla crescita nazionale della produttività nel medio periodo, più il tasso di inflazione stabilito dalla banca centrale. Per le politiche fiscali occorre un maggior coordinamento delle politiche nazionali e serve un nuovo meccanismo di governance macroeconomica europea. Questa è l’idea di Axel Troost, economista e deputato della Linke nel Bundestag di Berlino che propone, in un testo recente dal titolo Solidarisches Miteinander statt rüinose Wettbewerb (“Solidali gli uni con gli altri, invece che in pericolosa concorrenza”) un nuovo meccanismo europeo di compensazione degli squilibri commerciali, riprendendo l’idea che John Maynard Keynes propose alla conferenza di Bretton Woods come progetto per l’organizzazione internazionale del commercio nel secondo dopoguerra.
Keynes e l’International Clearin Union
Il testo scritto da Keynes nel 1943, dal titolo Proposal for an International Clearing Union rappresentò la posizione della Gran Bretagna alla conferenza che ridisegnò la governance economica mondiale nel secondo dopoguerra. Il piano consisteva nell’istituzione di un organismo sovranazionale chiamato International Clearing Union (ICU) con potere di controllo sui tassi di cambio e sul commercio internazionale. Il funzionamento del sistema, definito da Keynes stesso simile a quello di una banca, offriva una cornice all’interno della quale gli stati membri sarebbero stati in grado di correggere gli squilibri commerciali, siano essi surplus o deficit, in maniera tale da mantenere il livello della domanda aggregata internazionale vicino al suo potenziale.
Il piano Keynes prevedeva innanzitutto l’entrata in funzione di un sistema multilaterale di cambi fissi ma aggiustabili, ancorati ad una valuta utilizzabile solo per gli scambi internazionali chiamata bancor, a sua volta ancorata ad una quantità fissa ma non inalterabile di oro. Le nazioni avrebbero quindi detenuto presso l’ICU un credito o un debito, a seconda dei casi, denominato in bancor. Compito dell’ICU sarebbe stato quello di gestire una efficiente allocazione internazionale del credito tra nazioni debitrici e creditrici, nonché prevenire l’accumulazione di crediti o debiti eccessivi con misure adeguate a riportare il commercio internazionale in equilibrio. Ad ogni nazione sarebbe data la possibilità di incorrere in deficit o surplus (denominato in bancor) presso la Clearing Union stesso in rispetto a delle “quote” assegnate da un Governing Board centrale, stabilite sulle base del volume medio del commercio degli anni precedenti ma suscettibili di aggiustamenti. In caso di deficit superiore di un quarto alla quota prestabilita, in accordo con il Governing Board, la nazione avrebbe proceduto alla svalutazione della propria valuta. In caso di deficit superiore alla metà della quota, il Board avrebbe potuto richiedere l’adozione di una o più delle seguenti misure: svalutazione della divisa nazionale, controllo dei capitali in uscita, saldo del debito con trasferimento di oro o altre riserve. In caso di superamento di tre quarti della quota, qualora considerato insostenibile, il Board avrebbe dichiarato il paese in default, subordinando di fatto l’accesso al credito della Clearing Union alla discrezione del Board stesso. In caso di surplus invece il paese avrebbe deciso in accordo con il Governing Board per una delle seguenti misure: l’espansione del credito e della domanda nazionale, la rivalutazione nei confronti del bancor della propria divisa, la riduzione di tariffe o dazi che potessero scoraggiare le importazioni, prestiti internazionali mirati. Keynes stesso dedicò particolare attenzione a chiarire come il funzionamento della Clearing Union non rappresentasse un ostacolo all’espansione dell’economie più forti. Al contrario, grazie alla gestione multilaterale di debiti e crediti operata dall’ICU, un paese sarebbe stato in grado di accumulare un surplus di bancor, nei limiti stabiliti dall’istituzione, senza che alcun paese creditore avesse visto la propria domanda di export diminuire. In assenza di tale istituzione i paesi debitori avrebbero prima o dopo esaurito i mezzi di pagamento delle loro importazioni, riducendo così la domanda di beni dalle nazioni creditrici.
In sostanza, la forza dell’ICU risiedeva nella capacità di mantenere una pressione espansionista sul commercio mondiale grazie alla condivisione tra gli stati membri degli oneri e dei rischi del sistema di scambi internazionali. Come scrisse lo stesso Keynes: “La sostituzione di un meccanismo di credito con uno di accumulazione, potrebbe ripetere in campo internazionale lo stesso miracolo già compiuto a livello nazionale, trasformare la pietra in pane”.
Seguendo questo esempio Troost elabora una proposta che combina alcuni aspetti storici dell’International Clearing Union di Keynes alla corrente situazione europea. Innanzi tutto è fondamentale riconoscere come la responsabilità verso il futuro della moneta unica spetta alla nazioni con deficit tanto a quelle con surplus commerciale. Piuttosto che il Patto di stabilità e crescita e delle norme per contenimento della spesa pubblica occorre definire dei limiti per gli squilibri di conto corrente, ad esempio nel breve periodo una soglia del 3 per cento del PIL di ciascun paese, sia esso in avanzo o disavanzo. Nel lungo periodo inoltre dovrebbero essere imposte della sanzioni, seppur minime, che colpiscano proporzionalmente gli accumuli eccessivi di avanzi commerciali. I soldi così raccolti dovrebbero finanziare un fondo per il mantenimento degli equilibri commerciali senza tuttavia configurarsi come un sistema repressivo o penalizzante. Le nazioni con surplus dovrebbero inoltre presentare entro un tempo massimo al Consiglio e al Parlamento europeo il programma di policy che intendono attuare per aumentare la domanda aggregata nazionale e correggere gli squilibri commerciali. Questo è il caso della Germania oggi. Per difendere gli interessi dell’area comunitaria, la Repubblica federale – Troost conclude – dovrebbe riorientare la propria strategia di sviluppo dal quella basata sulle esportazioni a un modello di crescita basato sulla domanda interna, abbandonando l’idea dell’austerità e riguadagnando così stima e fiducia tra i partner europei. Oggi la politica monetaria non è più uno strumento di politica economica efficace; soltanto un maggior coordinamento delle politiche fiscali europee si potrà salvare il progetto della moneta unica, dell’Europa comune e del messaggio di pace che rappresenta, come riconosciuto dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2012. Sta quindi alla Germania riconoscere il proprio ruolo nella crisi europea e lanciare l’iniziativa per quelle riforme che possano dare a questo progetto un nuovo futuro.
Riferimenti citati