Come si può sostenere la giusta battaglia per i beni comuni e contemporaneamente auspicare il fallimento dell’istituzione collettiva che dovrebbe gestirli e amministrarli?
Gli “indignati” – di qualsiasi età, ma soprattutto i giovani – hanno molte buone ragioni per esserlo. C’è di più: l’indignazione è un sentimento morale che può avere ed è giusto abbia una valenza anche direttamente politica; invece, per anni è stata derubricata a manifestazione d’ingenuità da parte di chi così nascondeva l’indifferenza, il conformismo e l’acquiescenza all’andamento delle cose dietro posizioni che pretendevano di essere politicamente emancipate e “moderne”.
L’attualità politica degli indignati sta nel fatto che colgono il carattere epocale della crisi in corso di cui non vogliono pagare le conseguenze dopo aver subito il dispiegarsi delle sue cause; la natura dell’indignazione è progressista perché la rimozione delle sue origini sanerebbe ingiustizie e inefficienze che non solo pesano sugli “indignati”, ma ostacolano il cambiamento economico e sociale che favorirebbe la collettività nel suo insieme.
Tuttavia, anche le migliori ragioni trovano difficoltà ad affermarsi se sostenute in modo ambiguo e controproducente. Ad esempio, lo slogan “la vostra crisi non la paghiamo” non può essere confuso con la sua parodia “il debito non si paga” o con la sua più becera versione “chi se ne frega del default”, il cui sapore avanguardista evoca la violenza prevaricatrice del “blocco nero”. La “indignazione” è un sentimento spontaneamente sorto in tutto il mondo dalla giusta e crescente insofferenza verso il modello socio-economico che nell’ultimo trentennio, favorendo pochi a danno di molti, ha umiliato il lavoro, ha precarizzato la vita, ha saccheggiato la natura, ha aumentato le sperequazioni reddituali e ha subordinato le scelte democratiche prese nell’ambito delle istituzioni pubbliche a quelle decise da poche persone nell’ambito dei mercati. Dalla generalizzata presa di coscienza di queste tendenze e dalla conseguente indignazione potrebbero svilupparsi la forza e le indicazioni politiche per un superamento dello stato di cose presenti; c’è però anche il rischio che questo movimento spontaneo, anziché strutturarsi sia risucchiato da uno sterile ribellismo qualunquista – praticato nelle piazze e sui giornali – che sarebbe propedeutico a un esito regressivo.
Un ulteriore rischio (che qui viene solo accennato) è che l’indignazione venga ridotta a una insofferenza giovanilistica verso le generazioni precedenti; ma se è vero che i giovani stanno particolarmente subendo le cause e le conseguenze della crisi, la discriminazione principale avviene in base alle classi, alle famiglie, ai territori e al genere d’appartenenza delle persone.
Rimandando a una prossima occasione l’analisi della “questione giovanile”, preme adesso chiarire l’equivoco tra la giusta rivendicazione dei tanti che non vogliono subire la crisi generata dai pochi che l’hanno generata e si sono arricchiti, e la controproducente propensione ai default.
La crisi globale in corso si avvia a diventare la più grave della storia capitalistica. Per come si manifesta, le sue cause principali sembrerebbero essere di natura finanziaria, ma non è così. Le sue motivazioni sono più strutturalmente connesse alla difficoltà progressivamente aumentata nell’ultimo trentennio nelle economie sviluppate di equilibrare le crescenti capacità produttive con una domanda effettiva (cioè corredata di mezzi di pagamento) adeguata. Tuttavia, al centro del dibattito sulla crisi e come superarla non ci sono gli effetti dovuti alle accresciute diseguaglianze di reddito e ricchezza, allo squilibrio che la globalizzazione ha generato nei rapporti tra le istituzioni pubbliche e i mercati, alla conseguente autonomizzazione dei mercati dalle esigenze produttive e di consumo socialmente ed ecologicamente compatibili. Invece, la questione che anche in ambienti progressisti ha preso il sopravvento è come fronteggiare i debiti, in particolare quelli degli stati; e sia tra conservatori che tra chi aspira a innovazioni radicali emerge la soluzione del default, ma con differenze che pure vanno notate. Ad esempio, i conservatori tedeschi pretendono il default dello stato greco (e poi, se servirà, di quelli Italiano, portoghese, spagnolo, ecc.) perché ritengono immorale il comportamento dei suoi cittadini e governanti che vivono al di sopra delle loro possibilità. Però sorvolano sul fatto che gli aiuti dell’EU finora dati alla Grecia hanno salvaguardato i bilanci delle banche tedesche che avevano acquistato redditizi titoli greci. Glissano sul fatto che il problema sostanziale derivante dalla mancata riduzione delle diseguaglianze tra i paesi dell’euro è una conseguenza, da un lato, dell’erronea visione comunitaria (fortemente sostenuta dai tedeschi) di affidare il processo unitario solo al mercato e alla moneta e, d’altro lato, dell’esplicarsi del modello economico tedesco, fondato sul saldo attivo della sua bilancia commerciale, che non aiuta affatto l’attenuazione delle distanze nazionali. La riuscita unificazione tedesca era stata perseguita con ben altra consapevolezza delle politiche economiche necessarie. Dunque, i conservatori tedeschi chiedono il default altrui cioè di chi non asseconda le proprie politiche. I fautori nostrani del default lo chiedono invece per il proprio paese, ignorandone gli effetti drammatici, in primo luogo per la maggioranza d’italiani che più sta subendo le cause e le conseguenze della crisi.
I sostenitori del default tendono a dimenticare che ogni debito implica un credito e la loro inscindibile diffusione è un aspetto centrale dello sviluppo economico (indipendentemente da cosa si produce). La finanza, oltre ad altre attività meno utili o addirittura dannose, fa incontrare l’offerta di chi genera risparmio con la domanda di chi lo utilizza per investimenti e consumi (qualunque sia la loro qualità) altrimenti irrealizzabili. Tuttavia, la combinazione debito/credito, anziché funzionale alla crescita produttiva può diventare causa di crisi se assume dimensioni quantitative molto elevate rispetto all’economia reale, se le attività finanziarie da strumentale alla produzione diventano fine a se stesse, se la rischiosità dei prestiti e il loro scollamento da attività reali crescono fino a diventare fuori controllo e se si diffonde anche solo il dubbio che grandi debitori non onoreranno i loro impegni come concordato. A maggior ragione, il verificarsi di un default può rendere più onerosa o addirittura pregiudicare l’attività produttiva e la conseguente creazione di beni e servizi destinati a soddisfare bisogni (a prescindere dalla loro qualità). Il fallimento è la prova che l’attività economica che l’ha generato non è ritenuta valida in base al giudizio del mercato; ma la valenza negativa attribuita al fallimento non deve essere estesa pregiudizialmente al debito che, anzi, come interfaccia del credito, è un presupposto dell’attività produttiva e della sua capacità di soddisfare bisogni (a prescindere dalla loro qualità).
Tra gli enti economici che si indebitano per produrre beni e servizi c’è lo stato la cui attività economica, però, non è finalizzata al profitto individuale, ma (teoricamente) a realizzare direttamente il benessere della collettività. A differenza delle imprese private, le cui scelte sono decise da un ristretto numero di persone tra le tante che in esse operano, quelle dello stato sono definite (o dovrebbero) in base a un meccanismo di rappresentanza democratica che coinvolge (dovrebbe) l’intera collettività.
Le relazioni economiche regolate dalla politica e quelle regolate dai mercati, da un lato possono entrare in conflitto concorrenziale/ideologico; d’altro lato, anche un ramo nobile della visione economica liberale (l’Economia del Benessere) ha contribuito a dimostrare che i mercati lasciati a se stessi non sono in grado di soddisfare bisogni anche primari o, per lo meno, non con modalità efficienti e/o compatibili con gli obiettivi di equità fissati dalla collettività.
La crisi in atto conferma proprio i guasti drammatici di uno sviluppo economico-sociale che nell’ultimo trentennio è stato affidato in misura crescente ai mercati e alla loro connaturata tendenza all’iniquità distributiva svincolandoli progressivamente dalla necessaria e proficua interazione con le istituzioni.
Le caratteristiche dei sistemi economico-sociali e gli equilibri politici odierni sono molto diversi da quelli degli anni Trenta del secolo corso; per uscire dalla crisi attuale non sarà sufficiente una pedissequa riproposizione delle ricette keynesiane che, d’altra parte, se contribuirono a risultati positivi, non furono sufficienti a evitare eccessi e deformazioni applicative. Ma l’esperienza dell’ultimo trentennio indica che per uscire dalla crisi lungo sentieri di maggior progresso economico-sociale ci sia bisogno di dare maggiore spazio ai criteri decisionali di tipo democratico. Probabilmente anche le istituzioni e i loro meccanismi rappresentativi come oggi li conosciamo dovranno adeguarsi. In Europa, lo spostamento di competenze decisionali dai livelli nazionali a quello comunitario potrà essere una chiave di volta per migliorare la nostra situazione e contribuire positivamente a quella mondiale.
La difesa delle istituzioni pubbliche, l’accrescimento della democraticità sostanziale del loro funzionamento, l’aumento della loro capacità d’interazione con i mercati – controllandoli, regolandoli e anche sostituendoli quando necessario (come già avviene ad esempio in molti settori del welfare state) – implica che le istituzioni siano implementate quantitativamente e qualitativamente, contrastando le loro gestioni degenerative che molto hanno contribuito a intaccarne la reputazione nell’opinione pubblica e a seminare una più generale sfiducia nella politica. Ma se questa è la strada che deve essere intrapresa per superare positivamente la crisi – anche con modalità inedite rispetto al passato, come la creazione di istituzioni pubbliche sovranazionali – i disinvolti auspici di default del debito pubblico, intaccando la reputazione delle istituzioni pubbliche esistenti e pregiudicandone la funzionalità economica, vanno nella direzione opposta. Come si può, ad esempio, sostenere la giusta battaglia per i beni comuni e contemporaneamente auspicare il fallimento dell’istituzione collettiva che dovrebbe gestirli e amministrarli?
Se si cerca di pensare agli specifici effetti negativi di un default del debito sovrano italiano è difficile anche solo immaginarli tutti; ma se ne può elencare qualcuno, sapendo che ce ne sarebbero molti altri anche imprevedibili.
Il debito pubblico è posseduto per quasi la metà da italiani: da singoli risparmiatori, da banche e da altri investitori istituzionali; tra questi ultimi ci sono anche i fondi pensione che impiegano larga parte del risparmio previdenziale dei lavoratori loro iscritti in titoli di stato nazionali. Un default azzererebbe il risparmio che i singoli cittadini/ lavoratori, direttamente o indirettamente, hanno affidato allo stato, anche a fini pensionistici.
Il default dello stato riguarderebbe l’intero suo bilancio, dunque anche quello delle istituzioni del welfare, cioè degli enti previdenziali che amministrano il sistema pensionistico obbligatorio, gli ammortizzatori sociali e l’assistenza; quello del sistema sanitario nazionale; quello dell’istruzione. Non pochi economisti e dirigenti delle istituzioni internazionali considerano le future prestazioni pensionistiche pubbliche maturate in base ai contributi già versati come debito (pensionistico) pubblico; il default statale pregiudicherebbe dunque anche il pagamento delle pensioni pubbliche e, analogamente, delle altre prestazioni dello stato sociale che derivano da precedenti contribuzioni; ma coinvolgerebbe anche tutte le altre uscite del bilancio pubblico.
Data la forte incidenza dei titoli del debito pubblico italiano nei bilanci delle nostre banche, il default del primo si estenderebbe alle seconde e sarebbero colpiti anche i singoli correntisti, azzerando anche questa componente dei risparmio finanziario. Ma il contagio del default pubblico alle nostre banche priverebbe il sistema produttivo non solo del risparmio nazionale, ma anche del suo sistema bancario, togliendogli uno strumento indispensabile, con l’effetto di estendere la crisi all’economia reale (occupazione, consumi, prestazioni sociali, ecc).
D’altra parte, considerato l’ingentissimo ammontare del nostro debito sovrano posseduto da operatori stranieri (circa un migliaio di miliardi di euro), il nostro default genererebbe seri rischi di altri fallimenti a catena nell’economia europea e mondiale. L’euro e la stessa Unione Europea avrebbero molte difficoltà a sopravvivere sull’onda delle gravi perdite e ciò indebolirebbe tutti i singoli paesi membri che diventerebbero molto più dipendenti dalle scelte fatte in altri grandi paesi e dalla speculazione internazionale. Anche la nostra uscita dall’euro (che continuasse a vivere) ci esporrebbe drammaticamente di più alla speculazione internazionale, ma non ci darebbe maggiori margini di libertà effettivi. A parte gli inimmaginabili problemi connessi alla riattivazione della lira, il ritorno a svalutazioni competitive, in primo luogo verso l’euro, avrebbe come risultato immediato la corrispondente rivalutazione del nostro debito verso l’estero (che si sommerebbe a quello implicito nel debito pubblico posseduto da stranieri) e il corrispondente peggioramento delle ragioni di scambio (quante merci italiane dobbiamo dare per avere in cambio un dato paniere di merci straniere) che può essere compensato dalla maggiore competitività di prezzo con effetti positivi duraturi solo se contemporaneamente aumenta la produttività interna e non ci sono ritorsioni dagli altri paesi. Ma dopo il default (e l’uscita dall’euro, con i problemi che ciò creerebbe a chi rimanesse), bisognerebbe mettere in conto inevitabili reazioni, rivalse e un grave deterioramento delle relazioni internazionali dagli esiti finali imprevedibili. Sarebbe poi pressoché impossibile praticare politiche autonome – magari da parte di un governo molto compatto e progressista (?) che privilegiasse obiettivi sociali e ambientali – senza gravi ritorsioni dai creditori stranieri cui non verrebbero restituiti un migliaio di miliardi di euro e dai loro stati, specialmente quelli europei “abbandonati” e messi in difficoltà.
Purtroppo, il default italiano (e la conseguente uscita dall’euro, che potrebbe dissolversi del tutto insieme all’UE) è una possibilità che travalica gli auspici dei suoi fautori; ma anche solo favorirla, sostenendo la sua opportunità e che il debito non si paga, significa non avere nemmeno idea dei drammatici danni che ne deriverebbero.
Sul finire di “Ecce bombo”, il film di Nanni Moretti, i protagonisti, per riprendersi dalla loro improbabile crisi esistenziale, decidono di andare a vedere l’alba a Ostia; eppure, sia la geografia (per chi la sa) sia l’esperienza (per chi riesce a coglierne gli insegnamenti) indicano che sulle coste del Tirreno il sole tramonta. Non volevamo morire democristiani; cerchiamo di non morire “eccebombisti”.