Dalla cantieristica Fincantieri dovrebbe ora buttarsi nella costruzione di ponti. Ma a prescindere dal rispetto delle regole di Bruxelles, esiste un limite alla capacità di diversificare le proprie competenze in tempi così rapidi.
Ci sono delle questioni di cui né i politici né la stampa parlano o parlano adeguatamente e questo pone certamente degli interrogativi. Partendo dalla notizia che il governo intenderebbe affidare molto presto la costruzione del nuovo ponte di Genova, in tutto o in parte, alla Fincantieri, anche su sollecitazione di quest’ultima, vogliamo sollevare in tema di silenzi proprio il caso dell’impresa di Trieste, mentre parallelamente si consuma quello di Magneti Marelli. La scelta del governo, se confermata, susciterebbe molte perplessità.
E certamente i nostri dubbi non sono collegati al fatto che la società è controllata dalla mano pubblica, né alla constatazione che tale potenziale decisione, per le modalità procedurali con cui verrebbe decisa, è forse in conflitto con le regole di Bruxelles. Bisogna rifarsi piuttosto all’analisi delle strategie perseguite negli ultimi anni dal gruppo cantieristico.
Dopo la crisi del 2008 la società deve registrare un forte calo degli ordini; decide quindi, anche di diversificarsi e, tra l’altro, acquisisce una società norvegese, la Vard, che operava in settori diversi da quelli della crocieristica (traghetti, rimorchiatori, navi per il settore dell’ oil & gas); ma anche questi comparti vengono toccati dalla crisi. A partire dal 2014 il mercato comincia a riprendersi però fortemente e oggi il carnet di ordini dell’azienda è gonfio al massimo.
Ora, sarebbe bastato questo sviluppo per mantenere un andamento positivo delle operazioni dell’azienda per molti anni a venire, senza ulteriori preoccupazioni. Ma la società decide peraltro nel 2016 di varare una joint-venture per la costruzione di navi da crociera in Cina; segue un secondo accordo sempre nel Paese asiatico nel campo delle riparazioni navali; in queste ultime settimane ne è maturato poi un terzo che allarga la collaborazione ad altri settori.
Intanto viene siglato, nel 2017, un patto complesso e dal destino incerto per acquisire il pacchetto di controllo dei cantieri STX in Francia, mentre è ancora in corso una delicata trattativa, sempre con i francesi, per un’altra intesa che riguarderebbe il settore militare. Poi il gruppo ha cominciato a cercare di acquisire aziende che operano nel campo tradizionale di Leonardo, l’ex-Finmeccanica, suscitando risentimento in quest’ultima. Da sottolineare inoltre che il gruppo possiede decine di società che cercano ormai, con varia fortuna, di operare nei settori più vari, più o meno collegati al business nautico. Ora, per arricchire ulteriormente il quadro, arriva la decisione di mettersi a costruire ponti. L’ultima volta in cui l’impresa si è cimentata in un’opera di tal fatta risale, sembra, a un centinaio di anni fa in America Latina. E l’azienda segnala grottescamente l’episodio.
L’elenco delle iniziative in atto mostra che siamo a questo punto in pieno delirio. Siamo convinti che è molto difficile che un’azienda riesca a gestire adeguatamente tutte queste novità maturate in così poco tempo. Temiamo quindi che fra qualche tempo ci troveremo davanti ad un altro caso di crisi aziendale.
Alcuni studiosi di economia d’impresa già molti decenni fa hanno sottolineato come il maggior vincolo alla rapidità di crescita di un’impresa sia costituito dalla capacità del suo management di governarla adeguatamente. C’è in effetti un limite strutturale al tasso di aumento della sua capacità di apprendimento nel tempo.
Ora questa regola dovrebbe valere ancora di più in un gruppo come la Fincantieri, dove notoriamente il processo decisionale è accentrato nelle pur capaci e abili mani dell’amministratore delegato, Giuseppe Bono, peraltro abbastanza avanti negli anni, mentre la struttura organizzativa appare complessivamente debole e l’azienda non ha certo abbondanza di risorse finanziarie.
Il caso della Fincantieri pone poi per l’ennesima volta il problema dei rapporti tra il management di un’azienda pubblica e il governo. Nel caso specifico ci sembra che essi siano oggi squilibrati, con un management che in pratica fa quello che vuole e i ministri seguono. Certo, non bisogna arrivare al punto che il politico di turno possa telefonare ogni mattina in azienda per dettare la linea, ma l’esecutivo nazionale dovrebbe dotarsi di una struttura in grado di dialogare adeguatamente con le imprese sulle strategie e sui risultati ottenuti.
Vogliamo ricordare come qualche tempo fa ci sia stata un’audizione in Parlamento dell’amministratore delegato sul piano di sviluppo dell’azienda. Il dottor Bono non disse in tale occasione sostanzialmente nulla e i parlamentari si guardarono bene dal porre delle domande importanti all’ospite.
La situazione non appare brillante.