Lavoratori “fantasma”, economia sommersa e disoccupazione permanente: la patologia del mercato del lavoro in Italia e le sue cause
Modalità “usa e getta”? Difficile da credere, ma le cose stanno proprio così. Molti, troppi giovani che entrano nel mercato del lavoro alle dipendenze in modo ufficiale (e cioè a libro paga con regolare contratto di lavoro e versamento dei contributi previdenziali) ne escono, presumibilmente licenziati dopo breve tempo per non rientrarvi mai più. Non sorprenderebbe se tanti giovani entrassero nel mercato del lavoro, ne uscissero dopo qualche tempo e poi – trascorso un periodo più o meno lungo in disoccupazione – vi rientrassero. Né sorprenderebbe se questa modalità di turnover elevato perdurasse per vari anni prima di approdare a un’occupazione relativamente stabile. Dopo tutto così ormai vanno le cose da vent’anni nella maggior parte dei paesi occidentali. La patologia italiana, purtroppo, consiste nel fatto che un numero drammaticamente alto di giovani, dopo la prima dismissione, sparisce dal mercato del lavoro regolare, non solo come lavoratori dipendenti, ma anche come autonomi, professionisti, impiegati nel settore pubblico, né risultano disoccupati (i lavoratori in Cassa integrazione restano sul libro-paga del datore di lavoro, e quindi vengono conteggiati come attivi). Le fonti statistiche disponibili non consentono di seguirne i percorsi. Per molti è probabile che la destinazione finale sia l’economia sommersa, per sua natura non osservabile; per altri uno stato di disoccupazione permanente che si trasforma presto in condizione di inattività da scoraggiamento tout court.
Per scoprire tutto ciò è stata necessaria un’indagine approfondita su Whip, un grande campione longitudinale di carriere lavorative dagli anni ’80 in avanti, frutto della collaborazione tra Inps, l’Università di Torino e il Collegio Carlo Alberto. Le indagini Istat sulle FL non consentono questi approfondimenti. Per il momento gli approfondimenti riguardano solo gli uomini, proprio per eliminare i problemi che si frappongono nelle analisi dei percorsi lavorativi delle donne (maternità, cure domestiche, ecc.). I numeri sono drammatici. Su 100 entrati per la prima volta nel lavoro regolare alla fine degli anni ’80 in età 19-30, solo 81 sono ancora al lavoro oltre vent’anni dopo (qualsiasi lavoro, alle dipendenze o autonomo, esclusa naturalmente l’attività nell’economia sommersa). I restanti 19 sono scomparsi nel corso del tempo.
La fig. A esemplifica la sopravvivenza al 2002 degli entrati nel 1987 e nel 1992. Il 1987 era un anno di espansione produttiva; il 1992 l’inizio di una grave recessione. Non sorprendentemente, chi inizia la carriera nella fase espansiva del ciclo economico (t= 1987) sopravvive più a lungo di chi entra durante una fase recessiva (t= 1992): 10 anni dopo l’inizio della carriera sono ancora al lavoro 92 individui tra i primi (nel 1997) e solo 84 tra i secondi (nel 2002). L’analisi rivela altre importanti differenze a seconda di un’ampia tipologia di caratteristiche. Ecco quelle più importanti:
(i) età: coloro che entrano in carriera giovanissimi (19-22) sono quelli che sopravvivono più a lungo: 84% presenti nel 2002, contro 77% per quelli della fascia 25-30;
(ii) geografia: la sopravvivenza nel Nord Italia raggiunge l’86%; al Sud il 74%;
(iii) lunghezza del primo rapporto di lavoro: se è relativamente lungo (12 mesi +) dopo 15 anni ne sopravvivono il 92%; se è molto breve (fino a 3 mesi) solo il 75%;
(iv) paga iniziale: le persone che percepiscono uno stipendio di entrata particolarmente basso (che si colloca nel primo quartile della distribuzione salariale) hanno una probabilità di trovarsi esclusi dal mercato del lavoro tre volte più alta di coloro che hanno uno iniziale relativamente alto (nel quarto quartile della distribuzione);
(v) anni trascorsi dall’inizio dell’osservazione: nei primi due anni dal momento dell’assunzione si distacca dal proprio posto di lavoro quasi il 70% degli individui entrati per la prima volta in età 19-30, quasi indipendentemente da quando tale periodo ha inizio (negli anni ’80 tale percentuale era più bassa, ma pur sempre superiore al 50%). L’80% di queste persone dismesse a vario titolo dopo la prima assunzione ritrova lavoro in tempi più o meno lunghi, mentre un drammatico 20% resta definitivamente esclusa dal lavoro regolare. Negli anni successivi al secondo l’emorragia continua, ma più lentamente. La fig. A mostra chiaramente la netta caduta della sopravvivenza negli anni (t) e (t+1) dopo l’inizio dell’attività lavorativa, e poi il successivo rallentamento.
Si evince subito – punti (iii) e (iv) – che una carriera che comincia male – con contratto di brevissima durata e pessima paga – si porta dietro un persistente effetto negativo di stigma su tutta la carriera futura, le cui conseguenze sono evidenti anche a distanza di 20 anni.
E qui nasce il collegamento tra la modalità “usa e getta” di utilizzo di forza-lavoro giovanile e la crescita a dismisura dei tassi di inattività, nonché l’entrata nell’economia sommersa. Ma anche la durata della disoccupazione reale stessa, perché, non vi è dubbio che il tasso di inattività maschile in età di lavoro – da tre a cinque volte superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo – nasconda disoccupazione tout-court, o nella migliore delle ipotesi, sottoccupazione e/o attività marginali nel sommerso.