La nostra ricerca sulle mobilitazioni studentesche in solidarietà con il popolo palestinese ha subìto un irrituale processo di revisione e infine una bocciatura da parte dell’Istituto Cattaneo. Un caso emblematico di panico morale accademico analogo a ciò che sta succedendo altrove, incluso Harvard.
Il 7 ottobre 2023 segna l’inizio di un nuovo ciclo di conflitto in Medio Oriente, a seguito dell’attacco di Hamas e della successiva sproporzionata reazione militare israeliana sulla Striscia di Gaza, che ha assunto i tratti della punizione collettiva e della pulizia etnica. In risposta, si sviluppa una mobilitazione globale di solidarietà con il popolo palestinese, che in Italia si traduce in un’ondata di proteste guidate prevalentemente da studenti e studentesse universitari.
In un articolo, che sarebbe dovuto comparire nel volume Politica in Italia edito da Il Mulino per la collana dell’Istituto Cattaneo, abbiamo analizzato questo ciclo di mobilitazione, con l’obiettivo di comprenderne le dinamiche, i repertori e le implicazioni più ampie per la partecipazione politica giovanile nel contesto italiano. Dopo un irrituale processo di revisione, che l’ha sostanzialmente bocciata, la ricerca è stata pubblicata sulla rivista Partecipazione e Conflitto, accompagnata da una nota editoriale che denuncia l’accaduto e da una lunga analisi delle revisioni, con cui abbiamo cercato di dimostrare la natura politica delle critiche ricevute.
La ricerca
Il caso della mobilitazione in solidarietà con la Palestina ci è sembrato rilevante per diverse ragioni: emerge in un contesto di diffusa disaffezione giovanile verso le forme tradizionali di partecipazione politica; si sviluppa in un ambiente altamente repressivo, dove ogni forma di dissenso viene delegittimata attraverso un dispositivo di panico morale che associa la solidarietà alla Palestina all’antisemitismo; e si caratterizza per una dimensione transnazionale e intersezionale, intrecciando rivendicazioni ambientaliste, transfemministe e antimilitariste.
Dal punto di vista teorico, il lavoro si fonda su una doppia cornice: la teoria delle opportunità politiche, utile a interpretare un contesto chiuso e repressivo; e la teoria del framing, che aiuta a comprendere come i movimenti costruiscono significati, legittimità e identità collettive. Centrale è la nozione di panico morale (della Porta 2024), usata per descrivere i processi di criminalizzazione del dissenso operati attraverso accuse strumentali di antisemitismo.
La ricerca si basa su una metodologia mista: una Protest Event Analysis (PEA) di 213 eventi di protesta raccolti tramite Google News (gennaio–settembre 2024) e sei interviste collettive semi-strutturate a 13 attivisti in sei città (Palermo, Catania, Firenze, Pisa, Padova, Venezia). Questa combinazione ha consentito di cogliere sia la dimensione estensiva e territoriale della protesta, sia quella organizzativa e discorsiva.
I risultati evidenziano che la mobilitazione si è sviluppata in modo capillare, con un picco nella primavera 2024 durante la “stagione delle accampate”. Le università sono state l’epicentro e il bersaglio della protesta, con un repertorio d’azione plurale: manifestazioni, assemblee, blocchi, sit-in, mozioni accademiche e boicottaggi simbolici. Particolarmente rilevante è stata la campagna per il boicottaggio accademico verso Israele, che ha sollevato un confronto con le governance universitarie.
L’analisi mostra anche un uso sistematico della repressione: nel 17% degli eventi vi è stata presenza attiva della polizia, con maggiore frequenza nelle mobilitazioni studentesche. La retorica dell’antisemitismo è stata impiegata per delegittimare la protesta. Gli attivisti, tuttavia, hanno sviluppato narrazioni difensive consapevoli e inclusive, rivendicando la distinzione tra critica al sionismo e ostilità verso gli ebrei.
Il movimento ha saputo sfruttare le opportunità discorsive offerte dal contesto internazionale e dalla circolazione digitale, costruendo frame alternativi e prefigurando forme di convivenza politica nel contesto delle accampate. La sua dimensione intersezionale ha favorito la costruzione di alleanze e l’emersione di nuovi soggetti politici.
La procedura di valutazione
Passando ora alla procedura di valutazione editoriale, riteniamo che il processo cui è stato sottoposto il nostro contributo abbia assunto un carattere eccezionale rispetto alle pratiche consuete previste per la collana Politica in Italia. A nostro avviso, anche la natura e la finalità delle revisioni ricevute si sono rivelate altrettanto eccezionali, orientate più a delegittimare l’oggetto di studio, l’impostazione teorico-metodologica adottata e, in ultima istanza, il lavoro degli autori, che non a migliorarne la qualità scientifica.
Dopo la consueta giornata di discussione del volume, abbiamo ricevuto le osservazioni dei curatori, comprensive anche dei rilievi della discussant Ilaria Pitti – unica tra i commentatori ad avere una comprovata competenza sul tema della partecipazione politica non convenzionale, in particolare in chiave generazionale. A seguito di tali osservazioni, ci è stato richiesto di consegnare una versione rivista del capitolo entro il 31 dicembre 2024.
Abbiamo inviato il nuovo draft il 30 dicembre, integrando puntualmente tutte le richieste. La prima anomalia si è verificata il 27 dicembre, con l’arrivo – a soli tre giorni dalla scadenza – di un ulteriore parere da parte dell’Istituto Cattaneo, pervenuto dopo la scadenza prevista. Tale invio, giunto fuori tempo massimo, è stato definito “sorprendente” dagli stessi curatori nella loro mail del 2 gennaio. Pur riconoscendo che la nuova versione del contributo rispondeva a molti dei nodi sollevati dal parere del Cattaneo e pur non condividendo pienamente tutte le osservazioni in esso contenute, i curatori ci hanno comunque invitati a prenderlo in considerazione per ulteriori modifiche, fissando al 27 gennaio 2025 la nuova scadenza per l’invio.
Nonostante l’irritualità della procedura, abbiamo scelto di procedere con una nuova revisione, sia per serietà scientifica, sia per non compromettere mesi di lavoro. Abbiamo analizzato con attenzione il parere del Cattaneo – una review che, per lunghezza (circa 4.000 parole), eguagliava quasi quella dell’intero articolo. Lo abbiamo preso molto sul serio e abbiamo predisposto una nuova versione del capitolo, consegnata nei tempi richiesti, accompagnata da una rebuttal letter in cui rispondevamo punto per punto alle osservazioni ricevute, segnalando anche ciò che ci sembrava non pertinente o non condivisibile.
Il 28 gennaio abbiamo ricevuto una nuova comunicazione dai curatori, i quali ci hanno comunicato di aver letto e apprezzato la nuova versione, condividendo anche i contenuti della nostra rebuttal letter. Nella stessa mail si affermava chiaramente che il capitolo era da ritenersi “del tutto valido” e accettato per la pubblicazione.
La terza anomalia è sopraggiunta il 17 marzo, quando abbiamo ricevuto una nuova comunicazione da parte del comitato editoriale. In questa mail ci veniva richiesto di considerare tre nuove revisioni, tutte fortemente critiche, e di inviare un’ulteriore versione del paper entro il 31 marzo, con l’avvertenza che: “In assenza di una vostra risposta o di una nuova versione del paper entro quella data, assumeremo che abbiate deciso di ritirarlo.”
Ci assumiamo, ovviamente, la responsabilità della mancata consegna. Tuttavia, non ci è apparso chiaro come si sia potuti giungere a una richiesta di revisione a partire da una valutazione così nettamente negativa, condivisa all’unanimità dai membri del comitato presenti. Una valutazione di inammissibilità così radicale avrebbe dovuto, coerentemente, portare al rigetto definitivo del contributo, non alla sua ulteriore rinegoziazione. Questo passaggio, a nostro avviso, resta privo di logica editoriale e procedurale.
Le valutazioni
Una parte sostanziale delle osservazioni contenute sia nel parere del 27 dicembre, sia nelle successive tre recensioni pervenute il 17 marzo, riguarda l’impostazione metodologica del capitolo. Fin da subito ci è sembrato evidente come nessuno dei revisori coinvolti in questa seconda fase avesse una competenza specifica nello studio dei movimenti sociali, elemento che traspare con chiarezza soprattutto nella natura delle critiche avanzate, le quali sembrano mettere in discussione metodi ampiamente consolidati nella letteratura scientifica sul tema, come l’uso integrato di interviste in profondità e analisi degli eventi di protesta (Protest Event Analysis).
Ci preme chiarire che, pur accettando sempre il confronto critico, alcune delle critiche metodologiche ricevute non riguardano aspetti migliorabili del disegno di ricerca, come la selezione del campione o la trasparenza delle fonti, bensì contestano l’intero impianto metodologico adottato, senza però proporre alternative realistiche né coerenti con gli obiettivi e le dimensioni del lavoro. Le obiezioni avanzate ignorano modifiche già apportate alla versione finale del capitolo e risposte contenute nella nostra rebuttal letter, reiterando osservazioni già superate.
Un secondo asse critico riguarda la presunta parzialità degli autori e l’adozione, da parte nostra, del linguaggio e delle categorie interpretative proprie degli attori mobilitati. Questo rilievo si basa su una confusione tra voce del ricercatore e voce dell’attivista, nonché su un’idea implicita di neutralità che nella letteratura sui movimenti sociali è da tempo messa in discussione. Rivendichiamo la legittimità di adottare una posizione critica verso la repressione e la chiusura degli spazi di dissenso, in linea con una tradizione analitica consolidata (della Porta, Tarrow, McAdam), senza che ciò implichi una compromissione dell’analisi.
Particolare enfasi è stata posta sull’uso dell’espressione “reazione sproporzionata” a proposito della risposta militare israeliana. Tale espressione è sostenuta da fonti autorevoli, tra cui la Corte Internazionale di Giustizia e il Parlamento Europeo, e la sua adozione è coerente con l’intento di descrivere il frame discorsivo entro cui la mobilitazione si è sviluppata. Lo stesso vale per il riferimento a termini come “genocidio” o “apartheid”, che vengono ricostruiti nel testo come parte del linguaggio attivista e non come affermazioni analitiche proprie.
Ulteriori critiche si sono concentrate sulla presunta assenza di contraddittorio rispetto a posizioni potenzialmente antisemite espresse dal movimento. In realtà, il capitolo documenta le modalità con cui gli attivisti stessi rispondono all’accusa di antisemitismo, distinguendo chiaramente la propria posizione dal pregiudizio antiebraico. Inoltre, nella versione rivista del testo abbiamo incluso riferimenti a studi empirici che evidenziano come l’antisemitismo sia più diffuso tra i giovani di destra, smontando l’assunto implicito di una connessione automatica tra antisionismo e antisemitismo.
Anche l’uso del concetto di panico morale è stato oggetto di critica. Abbiamo chiarito, nella rebuttal letter, che tale concetto rappresenta solo una delle chiavi interpretative adottate, e che esso è bilanciato nel testo dalla descrizione di nuove opportunità discorsive, emerse grazie a prese di posizione di attori e istituzioni internazionali. La reiterazione acritica della critica al panico morale, senza confronto con le nostre argomentazioni, ha contribuito a consolidare un clima ostile più che un dialogo scientifico.
Infine, diverse recensioni hanno messo in dubbio la rilevanza della mobilitazione, definendola minoritaria, ideologica o settoriale. Questo tipo di argomento, che si fonda sull’idea che solo mobilitazioni “maggioritarie” meritino attenzione analitica, è in contrasto con la prassi consolidata dei volumi precedenti di Politica in Italia e con la letteratura sui movimenti, che da sempre analizza anche fenomeni minoritari per la loro portata innovativa, simbolica e trasformativa.
Nel complesso, riteniamo che il processo di valutazione abbia progressivamente spostato il fuoco dal merito scientifico alla legittimità politica del tema trattato. Le critiche metodologiche, linguistiche e contenutistiche si sono intrecciate a una valutazione implicita – e talvolta esplicita – del contenuto politico del contributo. Questa dinamica, a nostro avviso, ha finito per trasformare un confronto scientifico in un’operazione di esclusione politica travestita da revisione accademica.
Questione di scelte
Alla luce di quanto esposto, e nonostante il lavoro di revisione svolto con serietà e apertura, non ci è parso possibile procedere con una nuova riscrittura del capitolo. Le ultime richieste non erano orientate al miglioramento del testo, ma alla sua trasformazione radicale, più in senso politico che metodologico, con l’effetto di negare il valore stesso del lavoro compiuto. Abbiamo dunque scelto di non accettare una riscrittura che ci avrebbe posto nella posizione di avallare una lettura distorta del fenomeno studiato, e di assecondare una cultura accademica che seleziona i temi ritenuti legittimi sulla base della loro conformità politica.
Continueremo a lavorare per far conoscere e analizzare, con gli strumenti della scienza politica e della sociologia dei movimenti, le nuove forme di partecipazione giovanile, anche quando disturbano la narrazione dominante.
In questa prospettiva, siamo grati alla redazione della rivista Partecipazione e Conflitto che non solo ha accettato di pubblicare il nostro contributo, ma ha scelto anche di accompagnarlo con una nota editoriale che prende chiaramente posizione sull’accaduto. Come si legge nella nota, “la libertà accademica non è un esercizio procedurale, ma la spina dorsale etica della ricerca critica”. La redazione ha ricostruito la vicenda, evidenziando come la decisione di ritirare il capitolo da parte del comitato editoriale di Politica in Italia sia stata presa in seguito a un’ulteriore, inaspettata tornata di revisione introdotta poco prima della pubblicazione del volume.
I revisori coinvolti in questa fase, come sottolinea Partecipazione e Conflitto, non avevano competenze specifiche sui movimenti sociali e non hanno individuato veri limiti scientifici o metodologici, ma hanno sollevato questioni di carattere eminentemente politico legate alla sensibilità del tema trattato: le mobilitazioni pro-Palestina in Italia e nel mondo occidentale, a fronte della distruzione in corso nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Il tono della corrispondenza tra le parti, così come le dimissioni di uno dei membri del comitato editoriale, rafforzano questa interpretazione.
Nella loro nota, i curatori di Partecipazione e Conflitto scrivono che “questa esclusione non è un episodio isolato, ma il sintomo di un clima più generale di censura e repressione”, che colpisce in particolare le espressioni di solidarietà al popolo palestinese, anche nelle università e nei contesti accademici dei Paesi democratici. La nostra ricerca – proseguono – documenta con rigore empirico un ciclo di mobilitazione studentesca che ha saputo legare la lotta per la Palestina a una più ampia critica della guerra, del colonialismo e del capitalismo globale. E lo ha fatto dando voce a una generazione spesso descritta come apatica, che ha invece riconquistato l’università come spazio di conflitto.
In tempi in cui parole come “genocidio”, “apartheid” o “colonialismo” diventano oggetto di polizia discorsiva, la scienza sociale ha il dovere di rivendicare la propria funzione di lettura critica del reale. Per Partecipazione e Conflitto, pubblicare questo contributo significa difendere la libertà accademica, il diritto di ricercare su temi politicamente sensibili e, più in profondità, riaffermare i principi di pace, giustizia e autodeterminazione dei popoli. Condividiamo pienamente questo impegno, e consideriamo la loro scelta non solo un atto di coerenza editoriale, ma anche un gesto politico di resistenza democratica.
Oltre il caso: censura accademica e repressione della solidarietà
Il nostro caso non rappresenta un’eccezione isolata, ma si inserisce in un contesto più ampio, caratterizzato da una crescente repressione – formale o informale – delle voci accademiche che esprimono solidarietà con il popolo palestinese. In Europa come negli Stati Uniti, episodi di censura, sospensione, ritiro di inviti o finanziamenti colpiscono con sempre maggiore frequenza studiosi e studiose che osano mettere in discussione la narrazione dominante sul conflitto israelo-palestinese.
Un caso emblematico in Italia è quello di Patrick Zaki, attivista per i diritti umani e dottorando all’Università di Bologna, che nel novembre 2023 ha visto cancellare un suo intervento previsto all’Università di Padova sul tema “Genocidio e diritti umani”, per presunte preoccupazioni sull’uso del termine “genocidio” in relazione a Gaza. L’iniziativa era stata organizzata da studenti universitari ed era sostenuta da docenti e associazioni per i diritti umani. La cancellazione dell’evento da parte del rettorato ha suscitato dure critiche da parte di Amnesty International e della stessa comunità accademica, che ha denunciato un atto di censura preventiva e un grave precedente sul piano della libertà accademica.
Casi simili si sono moltiplicati negli Stati Uniti, dove numerosi accademici — anche strutturati — hanno subito pressioni, denunce o sospensioni per aver preso posizione sul genocidio a Gaza, per aver firmato appelli pro-Palestina o anche solo per aver condiviso analisi che usano la cornice del colonialismo e dell’apartheid. Le università di Harvard, Columbia, UCLA e Stanford sono state teatro di violenti scontri simbolici e disciplinari: comitati interni hanno richiesto sanzioni nei confronti di studenti e docenti accusati di antisemitismo, spesso in assenza di evidenze. Alcune fondazioni private hanno ritirato finanziamenti alle università, esercitando un controllo ideologico sulle linee di ricerca e insegnamento.
Anche in Francia, Germania e Regno Unito si registrano interventi censori nei confronti di docenti e ricercatori sospettati di “militanza” per aver sostenuto il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione. In molti casi, l’accusa di antisemitismo è stata strumentalizzata per silenziare il dissenso, escludere contributi scientifici o ostacolare il dibattito pubblico. La libertà accademica — principio fondativo dell’università — viene così messa sotto attacco, non solo da governi autoritari, ma anche da apparati istituzionali e culturali all’interno delle democrazie occidentali.
Il nostro caso, dunque, si colloca dentro questa traiettoria. La rimozione del capitolo da Politica in Italia non è solo una controversia editoriale: è parte di un dispositivo più ampio di marginalizzazione, controllo e sorveglianza ideologica. Per questa ragione, riteniamo che il dibattito non possa restare circoscritto alla nostra vicenda, ma debba aprirsi a una riflessione più ampia sullo stato della libertà accademica, sulle sue condizioni materiali e sulle nuove forme di censura che attraversano l’università contemporanea.