Gli interventi sul reddito e quelli sul lavoro devono procedere di pari passo. Si potrebbe sperimentare un’alternanza tra orario di lavoro e salario di cittadinanza ma evitando le storture della “staffetta generazionale”. Intervista al deputato di Sel
Sul dibattito aperto da Sbilanciamoci.info sui temi del reddito minimo, abbiamo posto alcune domande a Giorgio Airaudo, ex sindacalista della Fiom, oggi deputato per Sinistra Ecologia e Libertà.
Più crescita per rilanciare l’occupazione. Questo lo slogan più diffuso al momento: ma, a parte il fatto che si dice ma non si fa, pensa che sia vero? O ritiene che il problema occupazionale abbia anche caratteri strutturali non eliminabili da una ripresa del ciclo economico?
Sono d’accordo con Luciano Gallino. Abbiamo posti di lavoro che non torneranno più, distrutti non solo dalla crisi ma anche dalla rivoluzione tecnologica, in particolare quella elettronica e informatica che muta il rapporto tra esseri umani e tempo anche in termini di produzione. Bisogna discutere di cosa è sviluppo oggi quindi anche dei limiti del pianeta, della specie addirittura. Sono certo che lo sviluppo non garantisce più la crescita dei posti di lavoro e quindi è necessario ridefinire concettualmente i termini di crescita. D’altro canto parlare solo di decrescita oggi non è sufficiente. Non ci sono scorciatoie, servono altri concetti, altri termini e pensieri per definire la crescita ma anche quella che oggi viene chiamata decrescita.
Di fronte alla consapevolezza del carattere strutturale della disoccupazione, ci si divide spesso tra interventi per il lavoro di cittadinanza e reddito di cittadinanza: quale ritiene sia, tra le due, la strada da intraprendere?
Si tratta di due interventi che non si possono contrapporre, perchè senza redistribuzione del lavoro è difficile immaginare un reddito di cittadinanza. È sbagliato confinare il reddito all’assistenza o alla solidarietà, o addirittura contrapporlo agli ammortizzatori sociali che invece hanno un’altra funzione, e senza una discussione su come si redistribuisce il lavoro che c’è, anche rispetto ai cambiamenti di cui parlavo prima, diventa difficile fare uscire il reddito dalla gabbia ideologica che gli è stata costruita. Per la sinistra questa potrebbe essere l’occasione per liberare alcune parole, dargli più forza. I due termini comunque vanno tenuti insieme e sul lavoro bisogna riaprire la battaglia sulla riduzione dell’orario.
Qual è il suo giudizio sulla proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito consegnata il 15 aprile alla Camera? Quale probabilità ha di aprire una via per una diversa politica della tutela del reddito in Italia?
I rapporti di forza di questo parlamento non sono favorevoli a una discussione di questo tipo. La proposta ha il pregio di sostenere alcuni argomenti, noi la sosterremo, ma non vedo le condizioni politiche per l’apertura di una discussione di questo tipo. Gli unici margini finora sono stati quelli di legare la cittadinanza all’assistenza dei più deboli ma così siamo al ruolo caritatevole dello Stato, mentre bisognerebbe ripartire dalla ricostruzione di un campo sociale.
Quali sarebbero le fasce da tutelare: i soli soggetti che hanno un rapporto di lavoro o anche altri soggetti, e quali?
È evidente che non ci si può limitare a chi ha il lavoro ma non si può neppure saltare il tema della disponibilità al lavoro.
Chiedere interventi per un “lavoro di cittadinanza” significa porre come obiettivo di politica economica la creazione di nuovi posti di lavoro da parte, direttamente o indirettamente, dell’amministrazione pubblica per ottenere un “piena e buona occupazione”. Quale è la sua valutazione?
Penso che questa grande crisi ci darebbe un’occasione su questo terreno. Avremmo bisogno di un new deal italiano, a partire per esempio dalla rimessa a norma del patrimonio pubblico scolastico, per ridisegnare un nuovo rapporto tra pubblico e privato con l’obiettivo di creare nuovi lavori e ridefinire il campo dei lavori di pubblica utilità, senza però ripetere gli errori degli Lsu (i lavori socialmente utili ndr). Nella crisi un’occasione ci sarebbe e tra l’altro vorrebbe dire anche sollevare il tema di un new deal europeo. Significherebbe anche riprendere un tema antico, quello dello Stato, del pubblico, come datore di lavoro.
Chiedere un reddito minimo garantito, soprattutto se universale, significa fissare di fatto il salario minimo al quale il soggetto beneficiario è disposto a prestare il suo lavoro. Non costituirebbe un fattore che argina i processi di precarizzazione dei rapporti di lavoro?
Sì, ma a condizione che non si ponga il reddito minimo garantito in alternativa ai contratti nazionali. Il reddito di cittadinanza non è sostitutivo alla contrattazione.
Cosa pensa di proposte che intendono connettere la redistribuzione del reddito nella forma di una garanzia universale e una redistribuzione del lavoro attraverso l’espansione di forme contrattuali a tempo ridotto? Pensa che siano irrealistiche in quanto richiedono una troppo profonda ristrutturazione di vari ambiti economici e sociali: dal sistema fiscale, alla struttura del bilancio pubblico, dalle relazioni sindacali all’organizzazione produttiva?
Il tema è questo e va affrontato, e proprio su questo, nella nostra attività parlamentare, noi costruiremo una proposta, facendo tesoro delle analisi di Luciano Gallino degli ultimi anni. Un’alternanza tra orario di lavoro e salario di cittadinanza può essere sperimentata ma senza arrivare alla cosiddetta staffetta generazionale che non funziona ed è solo un modo per penalizzare sia i vecchi che i giovani.
Pensa che politiche di questo tipo siano nel lungo periodo sostenibili, o che richiedano una riformulazione della politica fiscale per il loro finanziamento?
Abbiamo bisogno di un nuovo patto fiscale che non può essere costruito solo sulla riduzione delle tasse. Le risorse ci sono, e vanno trovate in un fisco progressivo in cui tutti pagano le tasse.