Top menu

Gioco d’azzardo, tra discredito e prelievo statale

Gli italiani sono un popolo di risparmiatori ma anche di giocatori. Dal gioco legale lo Stato recupera in tasse qualcosa come 8 miliardi e mezzo, una cifra con la quale si potrebbero costruire 35 nuovi ospedali o finanziare 2 mila interventi di edilizia scolastica.

Premessa

L’83,6% degli italiani è convinto che lo Stato debba regolare e gestire il gioco legale a tutela del consumatore e della collettività. E l’idea dello Stato regolatore è associata fortemente alla convinzione che regolazione e gestione statuale siano essenziali per fare del gioco legale l’argine più alto contro illegalità e criminalità organizzata. Infatti, il 66,8% degli italiani ritiene che il gioco legale regolato e gestito dallo Stato sia il vero baluardo contro quello illegale. Si tratta di dati recenti comparsi in rete. Forse è la communis opinio in materia.

Nel 2019 il valore del gioco illegale era stimato in circa 12 miliardi di euro, nel 2020 (con le chiusure del Covid) è salito a 18 miliardi (+50%) e nel 2021 si calcola che possa aver superato i 20 miliardi. E così via. Secondo il professore Giuseppe De Rita, presidente Censis: “Con la ripresa della normalità gli italiani hanno ricominciato a giocare legalmente e la filiera del gioco è ripartita. Essenziale il ruolo dello Stato che è insieme garante della legalità, attraverso il sistema delle concessioni e i controlli, e garante dell’utilizzo appropriato delle entrate erariali che provengono dal gioco. Grazie al ruolo dello Stato un’attività che fa parte della quotidianità degli italiani si può svolgere legalmente, senza eccessi e con un contributo per via fiscale a finanziare attività collettive socialmente rilevanti”.

Dividiamo anche noi il gioco legale da quello illegale. Del resto, da sempre autorità morali e religiose hanno cercato di impedire il gioco, il divertimento di giocare, l’emozione, senza mai riuscirvi. Resisi conto dell’impossibilità, salvo brevi ricadute nel baratro del proibizionismo alla Torquemada, hanno scelto la via della concessione e subito dopo della concessione a pagamento. “Se vuoi peccare, fa’ la penitenza, prima ancora di peccare e paga il prezzo”.

Il gioco illegale è quello che sfugge all’autorità ed è quindi libero e un po’ senza peccato. Ha però l’inconveniente di essere senza protezione e soggetto a forme di sopraffazione e violenza. Così nell’interesse delle persone che preferiscono non rischiare rientra la scelta di assecondare l’autorità e riformulare con essa il modulo di un gioco protetto e perciò lecito e regolato. Ne risulta che, tutto considerato, le forme sono tre, insomma vi sono tre diversi modi: uno lecito e fiscalizzato, per così dire; uno ammesso e “pagante” stretto da regole e concessioni sempre modificabili; e un terzo, proibito e punibile, ma al tempo stesso lasciato all’improvvisazione dei giocatori (e dei trafficanti) e all’avventura. 

Per avere un’idea di cosa sia il gioco legale per lo Stato, basti pensare che nel 2021 le tasse su questo settore hanno rappresentato il 2,4% del totale della spesa per consumi finali della Pubblica Amministrazione. Con queste entrate – qualcuno vi reciterà – è possibile coprire la spesa annua che le amministrazioni pubbliche destinano alle attività ricreative, culturali e di culto, che per il 2021 è stata di 6 miliardi e 476 milioni di euro, o quella per le abitazioni e l’assetto del territorio, pari a 7 miliardi e 83 milioni, o quella per la protezione dell’ambiente di 5 miliardi e 774 milioni. 

Nel 2021 lo Stato ha incassato 8 miliardi e 413 milioni di euro dalle imposte derivanti dal gioco legale, una cifra simile a quanto previsto nel Pnrr per investimenti di ammodernamento della rete ospedaliera e dei presidi territoriali. Ma non solo: con un importo pari a quello della tassazione sul gioco sarebbe possibile costruire 35 nuovi ospedali, con una capienza di circa 16mila posti letto o realizzare 2.050 interventi di edilizia scolastica per la costruzione di nuovi edifici, in grado di ospitare 615.200 studenti (il 7,4% del totale). Qualcuno – qualche giocatore incallito – ha visto tutto questo bendidìo?

Giocando e rigiocando

Esistono decine di giochi d’azzardo permessi dallo Stato, che ne ricava entrate. Sono consentiti di lunga tradizione o inventati lì per lì. Il Movimento dei 5 stelle si oppone, almeno in via preventiva, mentre tutti gli altri partiti sono corrivi o chiudono gli occhi. Per ogni religione nota, il gioco è peccato.

Il gioco in generale è un aspetto molto serio della convivenza – in Italia e altrove – e sul gioco si scaricano molti interessi, anche se si tende a vergognarsene un po’: molta fiducia e sopportazione, molti desideri e aspirazioni e credulità delle persone. Al gioco molti (e molte!) affidano speranze, dolori, pensieri, tragedie. Del gioco noi qui vogliamo scrivere, senza minimamente pretendere di affrontare tale problema in modo esaustivo o anche semplicemente tale da sollevare riflessioni serie e convincenti. Si tratta solo di un aspetto della vita umana sul quale è interessante dire qualcosa, scherzare un po’, collettivamente.

Nel secolo scorso, nei locali pubblici, in particolar nelle osterie si andava per bere vino, passare il tempo, informarsi delle ultime o delle penultime, e anche per giocare. Giocare sì, ma con limiti precisi. I giochi erano tanti, ma gran parte di essi era proibito, divertirsi essendo considerato un principio pericoloso e contrario alla morale e alla religione. Era esposto, sempre, un elenco di giochi illeciti e proibiti. Tra questi ultimi vi erano ad esempio il poker e il ramino. Si poteva giocare anche a soldi, questo era concesso, ma pochi centesimi alla volta, per evitare disastri nell’economia delle famiglie e delle aziende. 

Dividiamo il gioco in legale e illegale. Da sempre autorità morali e religiose hanno cercato di escludere il gioco dalle nostre vite. In effetti, che diritto abbiamo noi di decidere della nostra vita, del tempo che scorre e sfuma…

Le autorità hanno sempre molto proibito. Altrimenti che autorità sarebbero?

La tabella comprende giochi di cartebiliardo, elettronici e di altro tipo.

C’era insomma preoccupazione per rovesci finanziari tali da far perdere il controllo da parte di ogni autorità: parentali, religiose, politiche, amministrative-giurisdizionali sulla sempre possibile pericolosa attività del giocatore. (Nelle case … bridge e poi burraco: ottime occasioni di risse e di amori). D’altro canto il giocatore, maschio o femmina che fosse, era temuto (e invidiato) anche per lo spirito di avventura, per la fantasia di qualcosa di diverso, una vita fuori dalle regole che poteva essere tentata e per ciò stesso diventare subito pericolosa o vivace. C’erano, ai miei tempi a Milano e dintorni, quattro casinò (case da gioco con roulette) tutti più o meno comodamente raggiungibili: Venezia, Saint Vincent, Campione d’Italia; c’era infine Sanremo, raggiungibile in poco tempo da Torino, dal momento che anche i soldi della seconda capitale d’Italia facevano gola. In Italia, quelli soli. Si sarebbe detto che il potere economico milanese (e torinese, per buon peso) chiedeva uno sfogo (o un sistema di fine partita, di fine lavoro) per i suoi ricconi, o anche per i suoi operai; e lo voleva abbastanza comodo e raggiungibile. Il più vicino a Milano città era quello di Campione d’Italia, sul lago di Lugano; vi era almeno una gestione commerciale di pullman appositi per le persone che volevano passare un pomeriggio “diverso” e le altre “che non ne potevano più”. Tutte felici e tutte perdenti.

Dopo aver fatto cenno al sistema italiano, antico e attuale, nelle sue grandissime linee, cioè in breve: case da gioco, ufficiali o meno; gioco da case: un tempo il bridge, ora il burraco; il pomeriggio per signore e sfaccendati; la sera per tutti. Poi giochi di Stato, giochi tollerati, in ogni loro forma, discussione politico/morale; dopo aver sfiorato la consistente parabola del gioco illegale, e segnalato, per brevi linee, della leggendaria origine del gioco d’azzardo, si può passare, con alto rispetto, all’esame di alcuni autori che hanno spiegato a noi il gioco e le sue caratteristiche – umane prima che letterarie ed educative, e soprattutto appassionanti – con la convinzione che i nostri preferiti potranno lietamente essere sostituiti da altri autori, ancora più vitali. I nostri autori sono Goldoni, con la sua commedia de Il giocatore, Dostoevskij con il breve romanzo sul Gioco, Matilde Serao con il romanzo Il paese di cuccagna, Jules Verne con Il giro del mondo in 80 giorni e infine Cesare Beccaria con il suo trattatello sul Faraone e Damon Runyon, che nei romanzi più riusciti, descrive il mondo (una grande città) in cui il gioco è piuttosto il modo di essere e sopravvivere, un po’ come il respirare, è fuori classifica. 

Nella tradizione, in letteratura

Nella tradizione, il gioco d’azzardo aperto al pubblico, per così dire, è un gran merito italico. Sembra siano state le scommesse in previsione dei prossimi eletti o nominati in certe cariche genovesi a sobbarcarsi di previsioni, scommesse e gioco. L’idea divenne molto popolare anche in altre città, per esempio a Venezia, a Napoli, a Milano. In questa sezione in tema di gioco, prendiamo le mosse, come si è detto, così per gioco, da tre autori italiani e poi da due altri, internazionali. 

Molti bambini di molte generazioni avranno avuto la fortuna di leggere l’avventuroso romanzo di Jules Verne, “Il giro del mondo in 80 giorni”. Una scommessa coinvolge Phileas Fogg, uomo imperturbabile – esempio fulgido di un inglese agli occhi sorpresi e un po’ ammirati dei francesi come Verne – contro alcuni soci del suo circolo. Possibile un giro del modo in 80 giorni? Siamo nel 1870 o poco dopo e non si viaggia che in treno e in nave, se va bene, altrimenti in carrozza o a dorso di qualche animale. Auto, moto, aerei non ci sono. Sulla carta il viaggio pazzesco è possibile, ma occorre garantirsi ogni coincidenza nelle diverse parti del mondo, ciò che appare irrealizzabile. Però “un inglese non scherza mai, quando si tratta di una cosa seria come una scommessa”, rispose Phileas Fogg’. “Scommetto ventimila sterline con chi vuole che farò il giro della Terra in ottanta giorni o meno. (….) Accettate?” Partono le scommesse, che si moltiplicano, per effetto dei giornali, i grandi quotidiani inglesi; uno soltanto, il Daily Telegraph per un po’ sostiene Fogg, mentre il resto del mondo, non solo l’informazione, scommette contro di lui. Sì, perché ciascuno trova modo di scommettere, fino a arrivare alla Borsa, che quota il titolo Phileas Fogg, cosicché tutti possono giocare. Fogg applica l’itinerario ideato, ma rallenta in India, per salvare la bellissima Auda dal rogo cui è stata condannata dalla legge del sati ed è ostacolato dal poliziotto Fix che lo crede autore del furto del secolo alla Banca d’Inghilterra. Ma alla fine, a pochi secondi dal termine ultimo, insomma, dal traguardo, “come un cavallo da corsa Phileas Fogg affrontava l’ultima curva. Non era più quotato a cento contro uno, ma a venti, a dieci, a cinque, e il vecchio paralitico, Lord Albermale, lo dava a pari”; alla fine Fogg vince la scommessa e sposa Auda che si è innamorata di lui e forse gli cambia la vita. Della scommessa vinta, detratte le spese del viaggio, gli restano solo mille sterline in tutto; e da quel vero sportivo disinteressato che è, divide l’esito della scommessa tra “l’onesto Passepartout”, il suo domestico, che ha molti meriti, e “lo sciagurato Fix a cui non era capace di serbare rancore”.

Cento e più anni prima, in pieno secolo dei lumi, è la volta di un grande, Cesare Beccaria, che agisce e pensa nell’ambito della Milano colta e aristocratica e dei fratelli Verri. 

Il primo contributo a Il Caffè la rivista dei Verri scritto dal giovanissimo Cesare Beccaria è proprio Il Faraone. Si tratta della complessa spiegazione di un gioco d’azzardo allora in voga tra gli uomini cospicui e anche tra le loro dame. Beccaria completa la sua dissertazione con complicate tabelle settecentesche. Ma lasciamogli la parola (per così dire).

“La vanità, l’avarizia e il tormentoso sentimento della noia, che ad ogni costo si vorrebbe scacciar d’attorno, spingon gli uomini al giuoco. Frattanto che alcuni lo biasimano colla fiducia di render gli uomini migliori, alcuni pochi si contentano di risguardarlo come materia di calcolo, qualità buona o cattiva, come vi piace, ma inerente a chi ha una mente geometrica, la quale suol trascegliere la parte calcolabile degli oggetti e amarli principalmente per questo titolo: così mentre la moltitudine spinge l’inquieta sua attività alle parti esterne, e si move, ed opera, e si agita senza curarsi di conoscere i principii delle cose, un piccol numero d’oziosi illustri condensa tutta la forza dell’animo nella meditazione de’ principii medesimi. Il signor di Montmort nel suo libro Essai d’analyse sur les jeux de hazard, ed il signor Moivre in quell’altro De mensura sortis, non giuocando mai sono giunti ad intendere il Faraone assai più (permettetemi ch’io ’l dica) che non l’intendete voi, che avete consumata buona parte di vostra vita giuocando e perdendo. I ragionamenti di quest’illustri matematici sono esposti con quella speditissima logica che chiamasi algebra, e involti con segni e cifre che allontanano chiunque non è nato per essi. Proviamoci se col solo linguaggio comune si possa esporre la teorica del Faraone, cosicché qualunque uomo di buon senso l’intenda, il che prima d’ora, ch’io sappia, non è stato fatto da alcuno”.

“Che nel giuoco del Faraone i doppietti e l’ultima nulla sieno un avantaggio del tagliatore ognuno lo sa; ma la difficoltà consiste nel determinare con qualche precisione quanto sia questo vantaggio. Per saperlo bisogna determinare il numero de’ casi vantaggiosi al tagliatore e il numero de’ casi vantaggiosi al puntatore in tutt’i tagli differenti che si possono fare con cinquantadue carte. Sarebbe necessario trovare l’eccesso dei casi vantaggiosi del tagliatore su quelli del puntatore; ma questo calcolo preso in dettaglio sarebbe impossibile, poiché il numero de’ tagli differenti non può esprimersi con meno di sessantasette cifre, ossia sorpassa la classe degli undicilioni”.

“E acciocché si veda la vanità di coloro che credono colla meditazione di alcune ore di scoprire la legge con cui le carte si succedono, io ho calcolato che se nel Paradiso terrestre un uomo avesse cominciato a tagliare al Faraone senza mai dormire né mangiare, facendo otto tagli all’ora, e avesse continuato sino al dì d’oggi variando sempre i tagli, non ne avrebbe fatti finora che quattrocento venti milioni e quattrocento ottanta mila, il qual numero è una parte assai più piccola della mezza decilionesima parte delle combinazioni possibili colle cinquantadue carte; e perciò, quand’anche vi fosse una legge costante nella successione delle carte, una inclinazione, un astro, un influsso, e tutte le chimere che vi piacciono, la serie delle sue osservazioni e la sperienza di quell’uomo sarebbe un nulla rispetto all’immenso numero delle combinazioni che restano ancora da vedersi. Sarebbe miliaia di volte più ridicola una conseguenza cavata dalle sue osservazioni di quella che caverebbe un fisico da una sola osservazione in mille fenomeni diversi della natura”.

“Per darvi un’idea come nonostante questo apparato farraginoso di cifre si possa sottomettere al calcolo il Faraone, comincerò a farvene vedere l’applicazione ai casi più semplici. Prendiamo quattro sole carte, un re rosso, un re nero, un due e un tre: con queste quattro carte si possono fare ventiquattro tagli differenti, e non più. Scriviamo tutti questi tagli, e facciamo due supposizioni: la prima, che il puntatore metta su il due un zecchino, la seconda che lo metta al re a posta secca…”

La Napoli che gioca tutto e perde sé stessa ogni settimana è il romanzo, Il paese di cuccagna, bellissimo, di Matilde Serao. Il gioco è sempre lo stesso, in tutta la città: il Lotto, il gioco pubblico per definizione. Serao esamina vari aspetti, si potrebbe dire, guarda a tutta la società di Napoli e descrive con sapienza e dolore moltissimi aspetti del gioco, o forse della gravissima malattia cittadina. L’inizio, folgorante, è in quartiere popolare in cui tutti aspettano Il numero, quello che può cambiare il corso di ogni vita; quello che può dare a ciascuno l’ebbrezza del trionfo o la nefasta sconfitta. Due sorelle sono le protagoniste, Annarella lavora poveramente e paga, con il poco che ha, per tutti. Dà l’ultima lira a un lazzarone che la sera non verrà a trovarla, ma solo fischierà, per un saluto. L’altra sorella è Carmela che stringe al seno l’ultima figlia; per gli altri figli non sa come fare. Speriamo che vinca o almeno qualcuno della folla in attesa vinca e così aiuti i casi più disperati. Non si tratta soltanto di vincere qualcosa, di risolvere così il problema del cibo, o dell’affitto, ma anche di sentirsi appagati da un segno del destino……finalmente. Poi, più in là nel romanzo, c’è una ricca famiglia, proprietaria di un rinomato caffè: una giovane coppia che festeggia la nascita dell’erede. Tutto bello, limpido, lauto, felice; ma lui gioca al lotto e lei non ha la forza di farlo smettere. Vanno in rovina. C’è l’anziano possidente, un aristocratico, il marchese Cavalcanti, che è impazzito nello studio della cabala che deve esserci, deve fornire il NUMERO; ma che loro, i cabalisti, non riescono a trovare e trascinano con sé stessi molte altre famiglie alla rovina; ma qui è una rovina magica, una specie di segno del destino. No, non è più povera gente che cerca il minimo per sopravvivere, ma gente che in realtà spera di aver qualcosa da mostrare: una scienza magica che altri non ha. Dappertutto il gioco, il Lotto, il numero, che potrebbe darti magicamente da vivere e soprattutto consentirti di affermare te stesso, intanto scardina la grande città. La città muore, come muore la figlia del cabalista, bellissima giovane, malata di qualche malattia ottocentesca indicibile (immaginiamo: il cuore) che muore senza che il padre si accorga di lei che non aspira ad altro che una sua carezza, anzi egli si impadronisce delle ultime 50 lire che servirebbero per le cure alla figlia; e neppure le cure del fidanzato, eccellente, generoso medico, riescono a salvarla. Bianca Maria è l’emblema di tutta la disperata città. 

Il giuocatore di Goldoni è molto divertente, seppure l’autore finge di scrivere una reprimenda contro il gioco. Si tratta di una “commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia il Carnovale dell’Anno 1751”. E Goldoni prosegue: “Il maggior benefizio ch’io abbia riportato dall’impegno di scrivere più Commedie in un anno è questo, che occupato quotidianamente in tale esercizio, poco tempo mi resta per divertirmi, e quelle ore che ho destinato al respiro, non le sagrifico ad un tavoliere, dove si perde il tempo, i denari, la salute, e talvolta pur troppo la riputazione. S’io avessi posto in iscena un Giuocator fortunato, brillante, allegro, generoso e felice, avrei formata una Commedia più viva, più gioconda, e forse assai più dall’Universale gradita, ma avrebbe ella servito a solleticare gli animi al vizio, ed avrei innamorato gli Ascoltatori di una lusinghiera e falsissima compiacenza. Il mio Giuocatore facendolo sfortunato, come per la maggior parte tali sono i Giuocatori viziosi, fa conoscere al Mondo i pregiudizi di una sì funesta passione, la quale a poco a poco conduce l’uomo ad uno stato miserabile, e a perdere di vista l’interesse, gl’impegni, le convenienze e l’onore. 

“Non occorre adularsi: chi giuoca, giuoca per vincere, e il desiderio di vincere ha il suo principio o dall’avarizia, o dalla scostumatezza; nel primo caso cerca il Giuocatore di vincere per accumulare, nel secondo per appagare le sue voglie, non misurate colla sua condizione. Vi è un altro piccolo eccitamento al giuoco, proveniente dalla poca volontà del far bene. Arricchirsi, o satisfarsi almeno con poca fatica, senza studio e senza merito, è una cosa che agli oziosi piace infinitamente; ma siccome spesse volte accade loro di perdere il poco certo, per la speranza del molto incerto, ciò dovrebbe al fine disingannarli. Ed ecco perché ho scelto io nella mia Commedia un Giuocatore di tal carattere, il quale se non piacerà a molti, gioverà a pochi, ed io desidero che sia di profitto a tutti gli Amici miei”. 

La commedia apre con il “giuocatore” – il reprobo di cui si deve dimostrare il fallimento – che ha vinto. Ha vinto una forte somma dopo una notte di lavoro e si lamenta di non aver tentato qualcosa a un certo momento che gli avrebbe consentito di triplicare l’incasso. Si chiama Florindo e la dice così: “FLOR. Cinquecento zecchini in una notte non è piccolo guadagno, ma poteva guadagnare assai più. Se teneva quel sette, quel maledetto sette, se lo teneva, era un gran colpo per me. Mi ha detto quel sette fra il dare e l’avere altri mille zecchini. Ho quel maledetto vizio di voler tenere i quartetti, e sempre li do, e sempre li pago. Ah, bisogna ch’io ascolti le suggestioni del cuore; quando li ho da tenere, mi sento proprio lo spirito che mi brilla nelle mani, e quando hanno a venir secondi, la mano mi trema; da qui avanti mi saprò regolare.”

Dunque è certo che giocherà ancora e ancora, per rivincere quello che ha mancato per non aver osato, osando e a qualsiasi costo. Così si impadronisce di tutto quello che gli capita a tiro e lo trasforma in zecchini da puntare. Perfino Brighella, il tenutario della casa da gioco, ogni tanto gli consiglia di lasciar perdere (ma perdere è proprio contro la sua natura). Nel corso della commedia veniamo a sapere ha anche invischiato una prima ragazza, forse un’attrice, che si chiama Beatrice e tiene nascosta per evitare che la cosa si sappia e che il suo credito sociale non diminuisca. Nel frattempo è anche ufficialmente promesso a Rosaura, giovane figlia di Pantalone. C’è anche un dentro e fuori tra le due ragazze; Florindo, un po’ come Arlecchino servitore di due padroni, in realtà pensa a loro ogni tanto e ne imbroglia una per volta. Il suo pensiero fisso è un altro e voi sapete quale: vuole zecchini per giocare ancora e ancora. Si gioca i gioielli di Rosaura, la fidanzata ufficiale, si abbassa fino a corteggiare e derubare di tutte le gioie (promettendo le nozze) alla zia di quest’ultima, l’anziana sorella un po’ svanita di Pantalone, autorevole, ricco mercante che minaccia i truffatori e riesce a farsi restituire il maltolto. Il gioco finisce con l’ennesima promessa di Florindo, ma noi spettatori sappiamo che il nostro eroe non la rispetterà.

Difficile dire se Goldoni volesse davvero mettere in scena un cialtrone, e chiedere a noi spettatori una riprovazione collettiva; oppure, sotto sotto, gli piacesse l’avventuriero… Nel nostro piccolo mondo degli affari e delle borse, noi, innocui lettori di giornali, di Florindo ne abbiamo sentito parlare ogni giorno.

Il personaggio principale de Il Giocatore, quello che parla e racconta la vicenda scritta da  Dostoevskij è tutt’altro che simpatico. D. lo ha preso di traverso e ne fa un egoista, sgradevole e anche iracondo (come lui stesso osserva quando racconta delle sue azioni e parole). E’ anche pauroso e stupido, perché non capisce la simpatia, forse l’amore, di Polina Aleksandrovna. L’azione si svolge a Roulettenburg una cittadina tedesca termale inventata che riassume tutte le altre con il gioco al primo posto. I nostri russi sono arrivati lì nel corso del tradizionale viaggio in Europa e vi si sono fermati per giocare, perdere e disperarsi. Il protagonista non è di famiglia, ma precettore dei giovani figli. Il capofamiglia, il generale (?), è un ridicolo personaggio senza soldi e senza idee, pieno di sussiego e di paure. Poi c’è un buon numero di mestatori, perdigiorno, faccendieri, prestatori di denaro a strozzo (altrettanti figli dell’Europa d’allora secondo Dostoevskij) che spesso o sempre gravitano nell’ambito del generale e della sua banda di russi senza princìpi e senza idee. Mentre i legami familiari non sono esplicitati, si sa che tutti fanno capo alla nonna, Antonida Vasil’evna, un’anziana signora della provincia russa, danarosa e severa, che si ritiene sia malatissima. La famiglia si rifà a lei per chiedere prestiti garantendo agli scrocconi il pagamento in ordine alla futura eredità. Perfino la dolce Polina, figliastra del generale a un certo punto osserva: “Da Pietroburgo abbiamo ricevuto due notizie: dapprima che la nonna stava molto male e, due giorni dopo, che, a quanto pare, era morta”. La vecchia signora, di cui si ripete che è malatissima e forse defunta – ma si sa, le comunicazioni con il continente russo non sono facili – a un certo punto si stufa e arriva a Roulettenburg per farsi un’idea personale e diretta. La grande idea di D. è che anch’essa, senza sapere niente del gioco e senza voglia di imparare, dà i suoi soliti ordini, da aristocratica russa, al mondo intero, ma il rosso non ubbidisce e spesso neppure il nero. Continua a giocare il rosso e il nero senza curarsi di capire, senza entrare nello spirito del giuoco e perde tutto. O almeno, perde un villaggio con tutte le anime dentro; dà ordine agli avvocati di venderlo, gioca ancora, si stufa, paga i propri debiti e riparte, lasciando i russi, suoi discendenti e tutti gli altri parassiti con un palmo di naso. D. non formula la domanda, la lascia a noi lettori: chi ha capito di più lo spirito di Roulettenburg, lo spirito dell’Europa dei lumi, la nonna imperiosa e scostante o i suoi discendenti, viziati e viziosi, prostrati alla roulette e convinti di essere di fronte al futuro? Intorno a questo vergognoso pasticcio di russi venuti a imparare i guasti dell’Europa e di europei pretenziosi e pieni di sé che vogliono truffarli, sono compresi due piccoli e innocui polacchi autonominatisi al seguito della nonna.

Il romanzo del giocatore si intreccia con un’altra vicenda, quella del gioco autentico tra l’autore e il suo editore. Quest’ultimo è convinto di poter ricattare D. Vuole un romanzo entro tre (?) mesi oppure sequestrerà tutti i libri di D. e li venderà a proprio interesse. D. scrive allora il giocatore senza requie. Per fare prima assume una stenografa, Anna Grivor’evna Snitkina, capace, piena di talento e affettuosa al punto che poco dopo D. la sposerà. Il libro – il giocatore – va a buon fine e l’ipotesi peggiore viene sventata. D e anche la moglie, vincono la personale scommessa con l’editore che non riuscirà a vincere le pubblicazioni future di Dostoevskij. Va solo aggiunto che le due pagine della Nota introduttiva a Il giocatore di Fedor Dostoevskij nell’edizione Classici Einaudi, scritte nel 1941 da Leone Ginzburg (nato a Odessa nel 1909 e morto a Roma-Regina Coeli di percosse nazifasciste nel 1944) sono esse stesse un capolavoro. 

Tra giocatori e giocatrici, quelli e quelle che preferiamo sono le persone dedite al gratta e vinci.

Il gioco dei nostri giorni è infatti e soprattutto quello del “gratta-e-vinci”. Consiste nel comprare un cartoncino colorato dal tabaccaio (a prezzi che variano dall’euro ai venti euro) e grattare via una parte della superficie, quella che copre nove riquadri di uno schema sempre apparentemente uguale. Se tre riquadri in orizzontale o verticale corrispondono (sono uguali, per esempio, tre ancore) si vince. L’importo della vincita si determina tramite un’informazione elettronica che è trasmessa in automatico. La scheda “grattata” è immessa nella fessura di un macchinario che espone, immediatamente, il risultato: nel mio caso con la prima e unica giocata di due euro ho vinto dieci euro. Sono così malfidente da ritenere che a tutti i giocatori debuttanti viene dato un risultato vittorioso simile al mio. Come poi la macchina faccia a sapere se chi gioca è un debuttante o, più o meno, un habitué, questo non lo so e comunque se lo sapessi non lo direi ad anima viva. Sono convinto che la prima emozionante vittoria e certe vittorie non troppo infrequenti abbiano fatto la magia del gioco. Vi sono ormai decine di disegni di fantasia, diversi, per milioni di cartelle, per uomini e donne di ogni età – forse più donne che altro – purché maggiorenni e di ogni condizione sociale. Il gioco consente di vincere abbastanza spesso qualcosa. Offre insomma una possibile vincita – affidata al caso o al destino – e offre soprattutto un rimborso, piccolo o grande che sia. Resta così la convinzione di trovarsi di fronte un gioco amichevole, aperto, in cui, alla fine, si potrebbe perfino vincere o andare in pari. L’idea di un gioco in cui si può vincere (o andare in pari) è molto forte tra i giocatori. Intanto, a buon prezzo, si sogna. Il gratta-e-vinci, a detta dei tabaccai che ormai conoscono la psicologia delle masse meglio di chiunque altro e son i veri interpreti attenti, smaliziati, della società odierna, ha sopravanzato ampiamente i giochi precedenti come il superenalotto. Come poi si possa giocare a gratta-e-vinci online non lo so e non voglio saperlo.

Fine partita

Dividiamo il gioco in legale e illegale. Da sempre autorità morali e religiose hanno cercato di escludere il gioco dalle nostre vite. In effetti, che diritto abbiamo noi di decidere della nostra vita, del tempo che scorre e sfuma…

Le autorità hanno sempre molto proibito. Altrimenti che autorità sarebbero?

PS- L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha inibito l’accesso a oltre 9 mila portali fuori legge, già 400 in più rispetto allo scorso anno.