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Giappone – Italia, i sopravvissuti dell’atomica

Le storie e le testimonianze degli “hibakusha”, i sopravvissuti del primo e unico bombardamento nucleare della storia. Quello di Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto 1945

Sono i testimoni del primo e finora unico bombardamento nucleare della storia umana. Sono chiamati hibakusha, letteralmente “esposti alle radiazioni” atomiche: i sopravvissuti alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945. La seconda guerra mondiale era ormai agli sgoccioli quando i bombardieri degli Stati uniti d’America hanno sganciano sulle città giapponesi quelle bombe di un nuovo tipo, mai sperimentate prima: il primo assaggio di cosa potrebbe essere un olocausto nucleare, almeno 150 mila morti in poche ore (alcune stime arrivano a 300 mila), quasi tutti civili. Poco dopo il Giappone firmò la resa, e la vulgata storica tramandata in Occidente è che quel bombardamento, per terribile che fosse, era stato necessario per piegare una potenza aggressiva e mettere fine alla guerra. Verità contestata, perché il Giappone era già allo stremo e aveva mandato segni di volere l’armistizio. Ma le esplosioni atomiche sulle due città giapponesi segnavano l’ascesa di un altro tipo di forza bellica, e ovviamente della potenza che era stata capace di esercitare quella forza schiacciante, capace di annichilire.

Anni fa uno scrittore giapponese, lo scomparso Makoto Oda, mostrava una foto del bombardamento a tappeto di Osaka, nel 1945, alla vigilia della capitolazione del Giappone: scattata dalle forze armate americane, la foto mostrava la nuvola di fumo e gas che avvolgeva la città. “Io ero là, dentro il fumo”, diceva Oda per spiegare l’essenza della sua militanza per la pace (in “Dentro il fumo. Colloquio con Makoto Oda, http://www.semisottolaneve.org/ssn/a/21608.html): la guerra viene raccontata in termini di potenza, attacchi, ritirate, mai dal punto di vista dei comuni esseri umani che ne subiscono le conseguenze.

Gli hibakusha erano “dentro il fumo”. Avevano pochi anni all’epoca del bombardamento, ma abbastanza da conservare dei ricordi. Come la signora Teruko Yahata, allora una bambina di 8 anni – oggi una signora dalla pelle diafana e un caschetto di capelli nerissimi: il suo ricordo più vivido di quei giorni, dice, è il cortile della sua scuola elementare trasformato in crematorio. Dev’essere qualcosa di impressionante per dei bambini perché anche il signor Akira Ikeda, di Nagasaki, allora 13enne, non riesce a dimenticare di aver aiutato a trasportare i corpi di molti conoscenti alla sua scuola per essere cremati nel cortile.

Yahata e Ikeda fanno parte di un piccolo gruppo di hibakusha che incontro a Civitavecchia a bordo di Peace Boat, grande nave da crociera dell’omonima Ong internazionale con sede in Giappone. Nata nell’83 per indagare le responsabilità storiche del Giappone nelle guerre del ventesimo secolo, da trent’anni esatti la “nave della pace” organizza viaggi, i primi in Asia-Pacifico e poi nel mondo intero, per diffondere un messaggio di pace, per il disarmo nucleare, per la sostenibilità ambientale. Da qualche tempo partecipano anche gruppi di sopravvissuti al bombardamento atomico: lo chiamano progetto Orizuru, dal nome della piccola gru di origami scelta come logo della spedizione, tradizionale simbolo giapponese di pace e speranza. A questa conversazione a più voci partecipano anche Francesco Martone, ex senatore e responsabile esteri di Sel, e membro onorario della rete internazionale dei Parlamentari per la non proliferazione e il disarmo nucleare, e Yukari Saito, fondatrice del Centro di documentazione Semi sotto la neve.

Oggi viaggiano il mondo per testimoniare, ma parlare del passato non è stata la prima preoccupazione, per questi signori tra i 75 e gli 80 avanzati – il più anziano del gruppo, il signor Susumo Tsuboi, è nato nel 1928; il più giovane, Hideki Takamura, è del ’43 e aveva poco più di un anno quando la bomba è stata sganciata. Lui era troppo piccolo per avere ricordi personali, ma gli altri hanno visto morire parenti e amici, sono stati sfollati… Dopo la guerra hanno studiato, trovato lavoro, si sono sposati, hanno avuto figli. “Più profonde sono le ferite lasciate dagli eventi, meno hai voglia di raccontarle”, osserva Ikeda, ingegnere aeronautico in pensione. Solo con la pensione e l’età più avanzata hanno sentito la necessità (“il dovere”, dice Ikeda) di disseppellire i ricordi. “Ero molto presa dal mio lavoro e dalla famiglia”, spiega la signora Yahata: “Ogni anno però, il 6 agosto, mi prendeva il terrore. Mi chiedevo: i miei figli riusciranno a vivere senza dover vedere di nuovo una cosa simile? Passati i 70 anni mi sono detta: la mia memoria è così vivida, e sono probabilmente l’ultima generazione che ha visto la bomba atomica. Allora ho cominciato a parlare – nei forum per la pace, nelle università, ai giovani”.

Testimoniare “è diventata una responsabilità”, dice il signor Takashi Miyata, di Hiroshima, che aveva 5 anni quando è caduta la bomba. “Sopravvivere a quella bomba è stato il punto di partenza della mia vita. Mi interrogo spesso sul senso di tutto ciò, perché tanti siano morti”. Per tutta la vita Miyata ha lavorato come ingegnere alla Mitsubishi Electric, che produce anche impianti nucleari, e ha viaggiato molto per lavoro. In Libano e Giordania ha visto bambini vittime di guerra. In seguito, negli Stati uniti e in Messico – dove è stato alcuni anni – ha sentito le storie di vittime di centrali nucleari: “Allora ho avuto la sensazione di essere nella parte del carnefice”. È cominciata allora una riflessione sulla complessità della storia, dice: era un hibakusha, quindi una vittima, ma il suo paese aveva responsabilità storiche, aveva fatto vittime e continuava a farne…

Il problema è come raccontare il passato. “Trasmettere testimonianze dirette è davvero dura, sia per chi parla che per chi ascolta”, osserva Ikeda – in effetti durante questa conversazione gli accenni a circostanze personali sono rari. Miyata ad esempio ha costruito un modello in scala reale di Fat Man, soprannome della bomba sganciata di Nagasaki (l’altra, quella lanciata su Hiroshima, era Little Boy), e lo porta nelle scuole. “Mi trovo a parlare a ragazzi dai 6 ai 18 anni che non sanno nulla di quanto è avvenuto: il fatto è che i loro stessi genitori non conoscono molto della guerra. E il sistema scolastico in Giappone non trasmette in modo veritiero i fatti storici”, osserva Miyata. Cita un incontro con studenti tedeschi, dove rimase impressionato dai loro discorsi sulla Germania nazista e sull’Olocausto: “In Giappone non c’è altrettanta coscienza storica”.

Interviene Mayo Setu, una studentessa di Hiroshima che accompagna il gruppo. Sua nonna era una hibakusha, spiega: “Sono cresciuta ascoltando queste storie. Mi chiedo, va bene conservare le testimonianze, ma a quale scopo? Ci hanno insegnato che quella avvenuta è una tragedia immane, ma non si discute mai perché è avvenuta. Si poteva evitare?”. Perché, continua, il mondo oggi è pieno di ordigni atomici molto più potenti di quelli esplosi nel ’45. “Il vostro non è solo un racconto di storia. È uno stimolo ad agire nel presente”.

Ed è questo il punto su cui gli hibakusha insistono. Dopo la guerra il loro paese si è dato una Costituzione di pace – l’articolo 9 esclude la guerra se non per autodifesa – eppure il Giappone ha imboccato la via del riarmo: “Il mio auspicio è che questo articolo 9 sia realizzato e non solo in Giappone, ma che diventi patrimonio comune del mondo”, dice il signor Ikeda, “la realtà però va in direzione opposta”. Con Peace Boat gli hibakusha si battono per il disarmo nucleare, perché sia realizzato l’Articolo 9 della costituzione – e forse per dare un senso al fardello che si sono portati dentro per tutta la vita.

“Vede, ero salita a bordo per ‘testimoniare’: ma poi ho imparato molto sulla nostra storia di aggressori”, interviene con voce lieve la signora Teruko Yahata, che tende a lasciar parlare i suoi compagni di viaggio ma ora sente il bisogno di spiegare. “Ho imparato che tutto andrebbe visto nel quadro della storia. Sono infuriata con il mio governo che vuole modificare la nostra costituzione”. Quando era ragazza, dice, le piaceva molto una canzone che diceva, all’incirca, ‘com’è bello il mare, c’è un mondo oltre questo mare’. Sorride: “Ora, in età avanzata, finalmente ho attraversato il mare. Ho visto posti bellissimi, ma distrutti dalle guerre”. Mentre ci salutiamo, con aria sommessa, mi dice: “Spero di averle risposto”.