Atene ha “inventato” l’Europa, ma potrebbe uscirne presto. Se accadesse, sarebbe la fine ridicola di una grande idea. Un’idea costruita in tre fasi, che portano con sè limiti e contraddizioni che oggi dobbiamo scontare
Come Atene dimostra in queste settimane è molto difficile venire via dall’euro. Molto più facile entrare a far parte dell’Uem, l’Unione monetaria europea che ha l’euro come moneta. Che fosse facile la stessa Grecia ha potuto dimostrarlo entrando come dodicesimo membro del club il 1˚ gennaio del 2001, quando la terza fase dell’unione era già cominciata da due anni. Dopo Grecia sono entrati, sempre il primo giorno dell’anno, Slovenia nel 2007, Cipro e Malta nel 2008, Slovacchia nel 2009 ed Estonia nel 2011. 17 sono dunque, attualmente, i paesi. L’unico che non è entrato, anzi si è tirato indietro, molto criticato da tutti gli altri, è stato il Regno unito di Tony Blair e Gordon Brown che hanno avuto il buon senso democratico di chiedere ai concittadini, con tre successivi referendum e con una lunga serie di sondaggi, cosa ne pensassero, ottenendo sempre la stessa risposta negativa. Le persone inesperte – noi stessi e milioni di altri – tendono a ricordare la nascita dell’euro a questo secolo, anzi più precisamente al capodanno del 2002, nell’occasione in cui chi più, chi meno, tutti hanno ricevuto le nuove monete e i nuovi biglietti di banca. Gli stessi in Italia, in Francia, in Germania e in vari altri paesi. Per molti è stato un tuffo nella libertà europea, una prova di felice democrazia comune. In poche settimane ci si accorse però che il cambio con monete e biglietti di tale valore, non ci faceva più ricchi, ma più poveri. Nel nostro breve ricordo, la moneta di duecento lire comprava di più di quella nuova di dieci centesimi; un euro sembrava molto meno della banconota da duemila lire, o due da mille. Ci fu risposto che era tutta un’impressione. Qualcuno, ben più esperto di noi, ci spiegò che si trattava di inflazione percepita e non di altro: stessimo dunque sereni. In realtà, come si è ricordato più sopra, si era ormai alla terza fase dell’Uem e della sua benedetta moneta.
La prima fase iniziò il 1˚ luglio del 1990. Lo aveva proposto Jacques Delors, un anno prima, e alle sue indicazioni era impossibile sottrarsi. Delors, ultimo dei padri dell’Europa, era allora presidente della Commissione di Bruxelles. Stilò un calendario di tre fasi: la prima, durante i primi anni novanta, sarebbe servita a preparare il dispositivo legale. Occorreva modificare l’assetto dell’Unione e le leggi dei dodici stati che ne facevano parte. Ne seguì il Trattato sull’Unione europea, firmato a Maastricht, nei Paesi bassi, il 7 febbraio del 1992. Maastricht è un nome ben conosciuto; ci impegna a rispettare parametri (di Maastricht, appunto) che vincolano la stabilità dei prezzi, la finanza pubblica, sotto forma di disavanzo annuale e di debito pubblico e infine il tasso di cambio. Sono obiettivi davvero difficili; e per raggiungerli un paese come il nostro sceglie di rovesciare come un guanto la propria economia. Non solo ma per ridurre il disavanzo annuale, che supera il 3% consentito, Prodi si inventa l’eurotassa, promettendone la restituzione a entrata nell’euro riuscita. In effetti nel 1999 avverrà, in qualche forma, la restituzione.
La seconda fase partì nel 1994: si passava alla sistemazione di economia e finanza. Finora i governatori delle banche centrali avevano i poteri. Qui nacque l’Ime, Istituto monetario europeo, e il Comitato dei governatori si sciolse. L’Ime aveva un compito preparatorio in tutte le direzioni. Doveva preparare il terreno alla moneta unica; per esempio nel dicembre del 1995 fu dato un nome al nascituro: non ci voleva una grande fantasia e lo chiamarono euro. Ma le altre proposte erano peggiori, quando non offensive per qualcuno perché rievocavano vittorie. Un anno dopo l’Ime presentò al consiglio europeo e poi al pubblico le nuove banconote. Che dovevano entrare in circolo all’inizio del 2002. Bisognava stamparle e distribuirle. La preoccupazione era grande. Per la prima volta il controllo della moneta era sottratto al principe. A questo punto cambiava il governo inglese e i laburisti, Blair e Brown, responsabile quest’ultimo dell’economia, decisero di tirarsi fuori. Nel Regno unito circolava un documento con cinque domande che riguardavano le convenienze finanziarie e l’esito dei rapporti internazionali. Una domanda era però pungente: è possibile venir via? Gli inglesi in questa trappola a vita, non ci stavano. Gli 11 rimasti istituiscono la Bce, nominano il presidente, il vice e altri 4 membri (uno di essi, per l’Italia, era Tommaso Padoa Schioppa e dopo di lui Lorenzo Bini Smaghi).
Si arriva infine alla terza fase. Che comincia il 1˚ gennaio del 1999. Le regole di Maastricht si sono ormai trasformate dapprima nel patto di stabilità e crescita e poi nel fiscal compact con le sue due disposizioni della golden rule che riguarda il disavanzo annuo che deve mantenersi al di sotto del 3% e l’impegno a ridurre di un ventesimo l’anno il divario dal 60% massimo nel debito pubblico superiore al 60% del pil. La golden rule è entrata nella Costituzione italiana con la modifica dell’articolo 81. Nell’intenzione, questo dovrebbe garantire meglio i risparmiatori tedeschi, scontenti della mano debole di Angela Merkel la loro cancelliera. Ora c’è grande attesa per vedere se Atene, il numero dodici in Europa, sarà cacciata via. E un’Europa senza Atene che l’ha inventata, a pensarci bene, sembra una fine ridicola di una grande idea.
Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 26 maggio