Euro manovre/Nei giorni del piano Juncker, Mario Draghi ha dichiarato guerra ai «falchi» della Bce: trasferimenti fiscali e bilanci più forti per la sopravvivenza dell’Eurozona. Qui si gioca l’ultima partita del capo della Bce. Se la perde, per lui c’è il Quirinale
La situazione dell’Europa è sempre più paradossale. Di fronte alla crisi più drammatica che l’Ue abbia mai attraversato, non si parla altro che di crescita, investimenti, occupazione; dall’altro lato, si difende strenuamente l’attuale assetto dell’Unione monetaria, che rende strutturalmente irraggiungibili quegli obiettivi. Agli stati membri viene chiesto di insistere sulla strada dell’austerità e delle riforme strutturali – la causa principale della crisi in corso –, in cambio di presunte misure “federali” che dovrebbero controbilanciarne gli effetti restrittivi. Ma le misure a livello europeo non si avvicinano neanche lontanamente a quello stimolo fiscale e monetario di cui ci sarebbe bisogno per trascinare l’Europa fuori dalla depressione, dalla deflazione e dalla disoccupazione di massa. Anzi, sembrano essere semplicemente “una scusa per continuare a portare avanti le politiche di austerità”, come ha dichiarato l’autorevole economista Charles Wyplosz. L’esempio più lampante è il “risibile” (parola dell’Economist) piano di investimenti di Juncker, che si affida a un miracoloso “effetto leva” per trasformare, come per magia, 20 miliardi di fondi europei (una goccia nell’oceano) in più di 300 miliardi di investimenti. Un altro caso è il “piano europeo per Francia e Germania” proposto dagli esperti governativi Henrik Enderlein e Jean Pisani-Ferry, dove ci sono buone intenzioni ma nessun impegno concreto. Tutto il contrario, ad esempio, del piano d’investimenti per un’Europa sostenibile proposto in questi giorni dal Gruppo Verde del Parlamento europeo, che presentiamo in queste pagine.
Piccole manovre, finora, ma un dibattito sembra essersi aperto dentro l’élite europea. Come segnala l’articolo di Agenor qui accanto, Mario Draghi è andato a Helsinki a spiegare che la moneta unica è intrinsecamente parte di una “costruzione politica”, e come tale necessiterebbe di “trasferimenti fiscali permanenti”. Per poi riconoscere che i trattati non li prevedono e che dunque spetta alla finanza il compito di redistribuire le risorse all’interno dell’eurozona. Una sfida esplicita ai falchi tedeschi, olandesi e finlandesi, ma che rischia ancora una volta di tradursi in piccoli passi in continuità con lo status quo. Quello che manca è un’azione politica di governi, partiti, movimenti per aprire un varco nel muro dell’austerità. E invece i paesi della periferia e dintorni continuano ad accettare le imposizioni della Troika (Grecia e Portogallo), avallare ossequiosamente Bruxelles (l’Italia) o a chiedere “più tempo” per la riduzione del deficit (la Francia), senza metterne in discussione la logica. A prescindere dalle responsabilità nazionali, il “normale” funzionamento delle istituzioni dell’eurozona non riuscirà ad evitare una depressione di lungo periodo e una possibile implosione dell’area euro. Da qui la forza dei populismi reazionari anti-europei che – dall’Ukip di David Farage, al Front national di Marine Le Pen, alla Lega di Matteo Salvini, col sostegno anche di Putin – influenzeranno sempre più l’agenda europea.
La vera spaccatura oggi in Europa è tra coloro che in nome della “responsabilità” invocano il rispetto delle regole con minime correzioni – le forze di centrodestra e centrosinistra che hanno votato Juncker – e coloro che si rendono conto che l’unico modo per evitare una devastante depressione – e conseguentemente la dissoluzione dell’Unione monetaria – è una rottura radicale di quelle regole: un “atto di insubordinazione” che imponga alla Germania e agli altri paesi del “centro” l’inevitabile revisione dell’architettura dell’Unione.