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Fondo Atlante, cosa è e a cosa serve

Il Fondo che dovrebbe contribuire alla ricapitalizzazione delle banche e a rilevare una parte dei prestiti deteriorati sembra molto lontano dal chiudere il buco di capitale del sistema

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In questi giorni viene varato dal governo il fondo “Atlante”, ennesimo tentativo di affrontare i problemi impellenti del settore bancario nazionale.

La nuova iniziativa fa venire in mente una scena della commedia “Miseria e nobiltà” di Edoardo Scarpetta, quando i protagonisti della pièce, poveri e affamati, decidono di portare al banco dei pegni un loro cappotto piuttosto malridotto, illusoriamente sperando di riuscire a comprare poi moltissime cose con il ricavato.

In effetti, vista la dimensione dei problemi del nostro sistema finanziario, ci sembra che essi risultino troppo gravosi per le esili forze del fondo, cosicché del potente Atlante, che riusciva a sostenere il mondo intero sulle sue spalle, esso ha alla fine soltanto il nome.

Il quadro

Le difficoltà dei nostri istituti sono da considerare tanto più gravi in quanto esse si inseriscono in un quadro attuale poco brillante del sistema bancario internazionale, ed in particolare di quello europeo.

Ricordiamone alcuni elementi.

1)Uno studio di Citigroup ci ricorda che dalla crisi in poi le banche occidentali hanno ridotto il personale di 730.000 unità e prevede che nei prossimi dieci anni esse dovrebbero liberarsi ancora di 1.700.000 dipendenti.

Tali cifre, piuttosto terrificanti, sono da mettere in relazione, oltre che ovviamente con la crisi, con l’avanzare della rivoluzione tecnologica, che da una parte comporta un rapporto con la clientela sempre più indiretto, svuotando di senso le filiali, dall’altra ha come conseguenza una crescente concorrenza delle imprese internet, che stanno entrando in maniera sempre più invasiva in molti dei campi tradizionalmente feudi delle banche, quali i prestiti e i pagamenti, che insieme registrano all’incirca i due terzi di tutti i profitti del settore.

Tali novità contribuiscono ad un forte aumento dei livelli di concorrenza e ad una conseguente riduzione dell’attività e dei margini soprattutto delle banche europee.

2)Un secondo fattore da sottolineare riguarda le conseguenze delle attuali politiche delle banche centrali. Si fa sempre più evidente che esse non sono in grado né di contrastare la discesa dei tassi di inflazione, né di suscitare lo sviluppo, attraverso la svalutazione del tasso di cambio e il sostegno alle banche per spingerle ad aumentare i prestiti all’economia. Questo senza dimenticare che in assenza di tali interventi la situazione delle economie dei paesi occidentali sarebbe comunque peggiore.

Le banche, da una parte, pur inondate di denaro, sono molto caute nell’accrescere i finanziamenti alle imprese perché, dato lo stato attuale dell’economia, temono i rischi di non restituzione, mentre dall’altra sono le stesse imprese che, in mancanza di domanda di beni sul mercato, non richiedono nuove risorse.

La politica di tassi di interesse sempre più bassi riduce poi fortemente i profitti delle imprese, che normalmente sono importanti quando i tassi sono elevati; per di più, gli istituti di solito guadagnano prendendo a prestito il denaro a breve termine e impiegandolo a lungo, mentre oggi le differenze fra i sue tassi sono molto ridotte. D’altro canto, interessi tendenzialmente negativi scoraggiano i depositanti dal versare risorse nelle banche e fanno mancare alle stesse la materia prima.

Comunque le politiche monetarie non sono in grado di per se stesse, in generale e da sole, di suscitare lo sviluppo. Quello che manca a tale fine è una politica adeguata da parte dei governi. Mentre quello statunitense appare bloccato su tale strada dall’ostruzionismo dei repubblicani, quelli dell’eurozona aggiungono molto di proprio alla politica di austerità imposta a tutti dalla Germania.

3)Un terzo fattore fa riferimento agli scandali. I Panama Papers si basano per la gran parte su dati reali. Essi mostrano ancora una volta che molte banche tedesche e francesi partecipano alle operazioni fraudolente .

Si tratta, per altro verso, dell’ultimo di un lungo elenco di scandali, con atti criminosi compiuti spesso insieme da molte banche internazionali. Essi mostrano che, nella sostanza, il sistema bancario internazionale è in pratica una associazione a delinquere. Del resto, nei giorni scorsi Martin Wolf, del Financial Times, ci ricordava, in toni formalmente più misurati, come le banche siano oggi degli organismi inefficienti, molto costosi e pieni di conflitti di interesse.

Ricordiamo a questo proposito come il sistema bancario fosse all’origine della crisi del 2008 e come dopo lo scoppio della stessa erano stati avanzati dal mondo politico propositi di grande riforma del sistema. Ma i provvedimenti presi negli anni successivi e sino ad oggi in merito appaiono piuttosto deludenti. Si pone il problema di riannodare il filo delle misure di intervento, tra le quali alcune riguardavano proprio i livelli di capitale. Molti esperti avevano allora sottolineato come essi avrebbero dovuto essere aumentati molto di più di come è stato poi fatto, considerazione che pone sotto una luce ancora più negativa gli istituti del nostro paese.

In effetti in questo quadro le difficoltà attuali del sistema bancario nazionale sono particolarmente marcate. Gli istituti italiani, secondo anche uno studio recente dell’Eba, presentano i più alti livelli di crediti in sofferenza nell’eurozona, hanno la redditività media più bassa e sono tra le meno capitalizzate. Le loro strategie appaiono molto deboli, in presenza di un quadro di management e di un livello organizzativo piuttosto inadeguato. L’avanzamento nel settore delle nuove tecnologie appare in particolare mediocre.

Il fondo Atlante

Il livello dei crediti in sofferenza o incagliati del sistema bancario italiano ammonta oggi ad oltre 360 miliardi di euro, pari a più del 20% del totale dei prestiti. È diffusa l’idea che essi siano dovuti solo alla crisi dell’economia, mentre sono da considerare nel conto anche le tradizionali inefficienze nella concessione dei fidi e la corruzione diffusa.

Per quanto riguarda specificatamente i crediti in sofferenza, dal valore nominale di 210 miliardi di euro, al netto degli stanziamenti ai fondi rischi essi risultano alla fine pari a 84 miliardi. Ora, attraverso la loro vendita eventuale sul mercato, si potrebbero ricavare, nella condizione attuale, circa 40 miliardi; resterebbe un buco di 44 miliardi, più le eventuali perdite sui 150 miliardi di crediti incagliati. Si può quindi stimare che complessivamente la voragine sia pari ad almeno 50 miliardi, ma essa potrebbe rivelarsi anche come più elevata.

Il capitale del fondo Atlante dovrebbe aggirarsi intorno ai 5 miliardi di euro. Le banche in sostanza precettate contribuiranno con circa 3 miliardi. I capitali pubblici, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti e la Sga, la bad bank a suo tempo costituita per il salvataggio del Banco di Napoli, per altri 500. Inoltre è previsto l’intervento di fondazioni, assicurazioni ed altri investitori.

Il fondo ha due obiettivi operativi: da una parte quello di contribuire alla ricapitalizzazione degli istituti con il 70% delle risorse stanziate e per il resto quello di rilevare una parte dei prestiti deteriorati. A questo proposito esso interverrebbe nella tranche junior degli stessi, mentre, come è noto, a quella senior ci penserebbe il meccanismo di garanzia pubblica Gaecs, varato tra molte sofferenze qualche tempo fa.

Anche se il fondo si può indebitare, aumentando così i mezzi a disposizione, resta molto ampio il divario tra esigenze di ricapitalizzazione e di salvataggio e i fondi stanziati, che sembra saranno per la verità assorbiti presto per una parte molto consistente dagli aumenti di capitali per le due banche del Veneto in crisi e dai problemi del Monte dei Paschi. Il fondo è quindi molto lontano dal chiudere il buco di capitale del sistema. Ricordiamo tra l’altro che gli istituti italiani hanno già varato, negli ultimi cinque anni, circa 50 miliardi per aumenti di capitale, soldi presto inghiottiti dalla voragine dei loro conti.

Al varo del fondo si dovrebbero comunque accompagnare delle nuove norme sulle procedure fallimentari in modo da accelerare i tempi di incasso degli stessi crediti, oggi molto alti. Anche se la nuova legislazione potrebbe migliorare in astratto di parecchio il valore dei crediti in difficoltà, da una parte il governo aveva già approvato nel 2015 delle norme in proposito che si sono poi rivelate inefficaci, dall’altra i tempi di messa in opera reale della nuova procedura potrebbero rivelarsi molto lunghi e non riuscire quindi a dare un contributo reale alla soluzione del problema.

Incidentalmente, ricordiamo che le grandi banche nazionali da una parte cominciano ad essere coinvolte in troppe iniziative di salvataggio, rischiando di entrare loro stesse in difficoltà, dall’altra che il loro intervento potrebbe innescare importanti conflitti di interesse.

L’affare delle banche come l’Ilva?

La gestione delle crisi bancarie ricorda per alcuni aspetti quella dell’Ilva.

In entrambi i casi va intanto sottolineata la lunghezza dei tempi e la dimensione molto tormentata nella ricerca di una soluzione; per l’Ilva sono ormai più di quattro anni che i vari governi se ne occupano maldestramente; nel caso delle banche un po’ meno, ma pensiamo che i tormenti nei due casi dureranno ancora abbastanza a lungo.

Per altro verso, le difficoltà delle banche come dell’Ilva sono rimaste nascoste per tanti anni senza che nessuno, amministratori, collegi sindacali, autorità locali, media, partiti, fondazioni bancarie, organismi di controllo, si accorgessero mai di nulla. Da noi non si pensa mai in anticipo, non si prevengono i disastri.

I due casi sono poi un’ulteriore riprova di una caratteristica peculiare del nostro sistema, quello di essere un capitalismo senza capitale, secondo una vecchia espressione. Quelli che comandano le varie strutture dell’economia e della finanza sono abituati a mantenere le redini senza mettere i capitali corrispondenti, o utilizzando graziosamente quelli pubblici. Oggi molte trasformazioni nel sistema bancario sono frenate o bloccate dalla volontà di mantenere assetti di potere consolidati; nel caso dell’Ilva, poi, capitalisti come Marcegaglia e Arvedi vogliono partecipare alla soluzione del caso senza versare dei soldi che peraltro non avrebbero.

Una dimensione fondamentale dei due casi riguarda il ruolo del capitale pubblico. Un governo fanaticamente liberista ha comunque bisogno per far quadrare almeno alcuni conti, dal momento che i capitali privati nazionali sono latitanti, di coinvolgere nelle soluzioni la Cassa Depositi e Prestiti, oltre che occasionalmente altri soggetti pubblici o semipubblici.

Di fatto così la stessa sta diventando una specie di nuova Iri. Non che questo sia un dato negativo, anzi noi pensiamo che la cosa sia opportuna. Ma sarebbe opportuno che a questo punto sugli obiettivi e le strategie della Cassa si svolgesse un ampio dibattito, che trovasse poi il suo sbocco in Parlamento. Oggi essa sembra un club massone molto esclusivo.

Nei due casi citati il governo è tentato di usarla come una foglia di fico che nasconda il possibile assalto dei capitali esteri, che sarebbero pronti a investire in particolare tra i 30 e i 40 miliardi di euro nel sistema bancario italiano, invece di utilizzarla come un partner forte in grado di preservare gli interessi nazionali. Ma non a caso alla testa della Cassa c’è un ex-funzionario della Goldman Sachs.

Conclusioni

L’economia italiana continua, come è suo costume ormai da molto tempo, a mostrare risultati deludenti. L’attuale governo intanto si trastulla con costosi giocattoli, a partire dal Jobs Act, con azioni che non portano da nessuna parte se non in direzione di accrescere i profitti delle imprese private svuotando le casse dello Stato.

Per far ripartire l’economia sembra soprattutto necessario varare un importante programma di investimenti pubblici e spingere il sistema finanziario in direzione di un molto più deciso sostegno alla crescita. Appare opportuno a questo fine, tra l’altro, utilizzare tutti gli strumenti disponibili, dal riorientamento dell’attività della Cassa Depositi e Prestiti, alla nazionalizzazione di qualche istituto e sino ad un utilizzo più adeguato dello strumento fiscale per cercare di indirizzare le banche a rivolgere lo sguardo più attentamente alle necessità del paese.