La legge di stabilità approvata dal governo è inutile perché non sceglie né la distribuzione del reddito, né lo sviluppo, né il governo della spesa pubblica
Sembra che la “crisi nella crisi” dell’Italia rispetto ai principali paesi europei sia una invenzione. Da molti anni il Pil dell’Italia cresce meno di quello medio europeo, ormai stabilmente del meno 1%. L’effetto cumulato è di 16 punti percentuali tra il 2003 e il 2013, con una brusca riduzione a partire dal 2007 di 8 punti percentuali. Per dare un ordine di grandezza della crisi nella crisi dell’Italia, possiamo dire che il nostro paese ha perso per strada qualcosa come 240 miliardi di euro di minore crescita rispetto all’Europa. Gli effetti sull’occupazione, sul tessuto produttivo, sulla dinamica della spesa in consumi, financo nella distribuzione del reddito, è quello di aver fatto retrocedere il tenore di vita degli italiani ai livelli del 1992.
I conti pubblici hanno sofferto della contrazione del Pil, anche perché costretti ad assorbire una parte del debito privato legato alle operazioni spericolate delle banche. Tutta la crescita del debito pubblico europeo di questi ultimi 5 anni è debito privato cattivo mutualizzato dagli Stati. Nonostante la crescita del debito pubblico sia direttamente proporzionale alla ri-assicurazione del debito privato, la Commissione europea ha imposto delle misure di contenimento della spesa, quindi una riduzione della domanda aggregata, tale da aggravare la situazione economica e sociale dei paesi sottoposti a questi tagli delle spese e ulteriori forme di flessibilità del mercato. L’effetto è stato quello di comprimere la base imponibile, cioè il Pil, quindi di ridurre le entrate fiscali indipendentemente dall’aumento della pressione fiscale (accise, Iva, altro). In qualche modo, la distanza tra le previsioni del governo di maggiori entrate e quelle realmente realizzate, dà conto della profondità della crisi attraversata dal nostro paese. Come se non bastasse, per la prima volta dalla nascita della repubblica italiana, la spesa pubblica è diminuita in valore. Le misure di contenimento della spesa pubblica adottate tra il 2011 e il 2012, pari a non meno di cento miliardi (governo Monti e Berlusconi), hanno dato il colpo di grazia al paese. Spesso gli economisti utilizzano il rapporto spesa pubblica/Pil per registrare l’andamento della stessa spesa, pensiamo alla previdenza, alla sanità o alla scuola, ma la capacità di tenere invariato il rapporto nasconde, in realtà, un taglio delle prestazioni pari alla contrazione del Pil. Quando il governo sostiene che la spesa pubblica per la sanità in rapporto al Pil è rimasta stabile, il governo conferma i tagli alla spesa. Quindi dobbiamo aspettarci meno servizi, meno stato sociale, meno spesa in conto capitale, meno dipendenti pubblici, con l’effetto di ridurre la domanda aggregata. La riduzione del pubblico impiego è impressionante: meno 500.000 dipendenti che, uniti al blocco della contrattazione e al blocco della vacanza contrattuale, hanno determinato un risparmio (solo per il biennio 2013-14) di 5,5 mld di euro: il reddito da lavoro dipendente pubblico ha perso il 10% dall’inizio della crisi. In ragione di questa crisi “fiscale” appare in-“comprensibile” la rinuncia del governo di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie. Infatti, non si rinuncia a 2,5 mld di euro, piuttosto all’obiettivo di una riforma fiscale tesa a trovare un equilibrio superiore tra tasse sui fattori di produzione, e le tasse sui fattori che poco hanno che fare con il lavoro e la produzione di beni e servizi. Una linea di politica economica che precipita nella nuova imposta Trise (nel comunicato del governo è ancora Service tax), che dovrebbe subentrare all’Imu e alla Tarsu. La nuova imposta cambia o allarga l’inciso, cioè non sarà solo il proprietario della casa a pagare l’imposta, ma concorreranno anche le famiglie che occupano la casa. Almeno è rimasta l’Imu per le case di pregio, ma lo spostamento dell’imposta dai proprietari agli affittuari (famiglie) è il segno delle politiche del governo in tema di “diritti presi sul serio” (Einaudi). Alla fine, l’Italia sarà l’unico paese in Europa a non avere una imposta patrimoniale sulla proprietà. Di più: l’Italia è l’unico paese in Europa a non avere una tassa sul patrimonio.
Il governo Letta ha licenziato la Legge di Stabilità. L’importo complessivo, sul triennio, è di 27,3 mld di euro, di cui 11,6 mld per il 2014, a cui si devono aggiungere i 2 miliardi della manovrina correttiva per traguardare il rapporto indebitamento/Pil del 3% per il 2013. L’obiettivo è quello delineato nella nota di aggiornamento del Def (documento economico finanziario di settembre), cioè quello di conseguire un rapporto indebitamento/Pil del 2,5% nel 2014. Sono un insieme di misure eterogenee, in cui è difficile trovare il segno distintivo. Per questo la legge di stabilità è inutile, perché non sceglie né la distribuzione del reddito, né lo sviluppo, né il governo della spesa pubblica. Non solo. Con le misure restrittive sul pubblico impiego, le cessione di beni immobili e mobili dello stato, rinuncia al compito di guidare i processi di trasformazione dell’economia reale. A questo proposito, è bene non dimenticare il provvedimento denominato “Destinazione Italia” che lega le privatizzazioni agli investimenti diretti esteri, garantendo persino il ritorno economico.
Il provvedimento rivendicato dal governo come misura strategica, è quello legato alla riduzione del cuneo fiscale: meno 1,5 mld di euro per maggiori detrazioni per il lavoro dipendente, meno 1,2 mld di euro a favore delle imprese, per un ammontare complessivo sul triennio di quasi 10 mld di euro. Sulla base di una simulazione condotta da il sole 24 ore (16 ottobre 2014), il vantaggio fiscale per i redditi da 11.000 euro è di 95 euro annui, che si riducono a 9 (annui) per i redditi fino a 29.000 euro. Per intenderci: 7,30 centesimi al mese per un lavoratore che guadagna 11.000 euro all’anno. Una beffa? Molto più efficace, in termini di crescita del Pil, sarebbe l’utilizzo di queste risorse per l’adeguamento del reddito del lavoro pubblico, che avrebbe non solo risolto il problema del diritto ad avere un salario dignitoso, ma migliorato l’impatto macroeconomico del provvedimento. Infatti, la propensione al consumo di 3 milioni di persone che ricevono 10 mld di euro in due anni è certamente maggiore della propensione al consumo di 15 milioni di lavoratori che si distribuiscono le stesse risorse. Rimane l’errore economico di assegnare alla riduzione del cuneo fiscale le prospettive del rilancio economico. All’interno della legge di stabilità ci sono alcune misure di buon senso: 300 mln per il fondo delle politiche sociali; 250 mln per la non autosufficienza; 100 mln per i lavori socialmente utili; la crescita delle spese in conto capitale per 3,1 mld di euro, ancorché per misure non sempre condivisibili; l’allentamento del patto di stabilità interno di 1 mld di euro per i Comuni, a cui deve essere aggiunta una somma di 500 mln per il pagamento di fatture pregresse, anche se dovrebbe applicarsi anche per le società in house e partecipate dei comuni (forse una via per la privatizzazione).
Ma all’interno delle misure adottate nella legge di stabilità, si cela sempre la stessa voglia di colpire le spese pubbliche: la riduzione degli incentivi alle imprese, meno 210 mln, è in realtà un taglio ai servizi pubblici. Infatti, 152 mln interessano il fondo nazionale per coprire i disavanzi del Tpl e delle Fs. Cosa si deve tagliare è sempre molto chiaro. Inoltre, l’assenza del taglio di 2,6 mld di euro della sanità, inizialmente previsto, è solo rimandato. La Spending Review si farà carico della programmazione del taglio al termine del suo lavoro. Ma sulla spending review occorre uscire dai luoghi comuni. Un conto è armonizzare la spesa pubblica via costi standard, un altro conto è aggredire la formazione della spesa pubblica. Oggi nel bilancio dello stato, ma non solo in quello dello stato, ci sono delle poste di spesa che hanno poco a che fare con i costi standard; una parte non trascurabile della spesa pubblica, si pensi alla Tav, agli F35 ed altre opere simili, è soggetta a contratti (privatistici) stipulati dalla pubblica amministrazione. Se non realizzi il progetto, giustamente, si paga una penale. La Spending Review ha senso nella misura in cui aggredisce la formazione della spesa. Si tratta di rivedere le clausole, le tipologie e le modalità dei contratti e delle procedure degli appalti. Una operazione complicata, ma eviterebbe di aggredire la spesa pubblica che sostiene lo stato sociale in senso generale e, probabilmente, migliorerebbe la spesa pubblica in senso generale. Magari si potrebbe costituire una Commissione Parlamentare, affiancata da esperti e dalla Corte dei Conti, senza lasciare a fantomatici “nominati” la scelta della selezione della spesa da tagliare.
Questa legge di stabilità è inutile, inefficace e piena di pregiudizi ideologici. Ci sono poi delle partite di giro come quella del trasferimento alla Cassa Depositi e Prestiti di una parte del demanio pubblico (550 mln per il 2013 e 1,5 mld per gli anni successivi). Sono entrate fittizie che poco hanno a che fare con la sana politica pubblica.
Le misure per lo sviluppo sono poi da trovare, almeno che non si creda che la “riduzione” del costo del lavoro, il “risparmio” di imposta delle imprese pari a 5,6 mld di euro possano produrre un salto nei consumi delle famiglie e nella capacità di investimento delle imprese.
Il governo non ha capito che la platea dei lavoratori interessata dai provvedimenti si è ridotta verticalmente. Quanti sanno che il tasso di disoccupazione reale dell’Italia è vicina al 22%? Quanti sanno che gli investimenti sono diminuiti del 13% dal 2011 al 2012? Quanti sanno che gli investimenti delle imprese italiane si traducono per lo più in importazioni di conoscenza da altri paesi?
Forse qualcosa di positivo possiamo trovarla nella legge di stabilità: il nuovo ciclo di programmazione dei Fondi Comunitari e nazionali (2014-20) fornirà al paese 110 mld di euro da spendere in questi 7 anni. La Commissione Europea ha posto un vincolo macroeconomico di struttura, cioè gli aiuti europei devono agire sulla bassa specializzazione delle imprese italiane e, per questa via, competere con le altre imprese europee.
Speriamo che almeno questa buona politica possa trovare un qualche spazio.