Il punto della politica economica del governo è la sfiducia nel ruolo del pubblico come soggetto istituzionale capace di tenere in tensione la domanda effettiva
Valutare la Legge di Stabilità alla luce delle precarie informazioni disponibili è, probabilmente, un azzardo; le cosiddette “news” e anteprime disponibili delineano un quadro coerente con l’impostazione di fondo delle politiche del governo ma, allo stesso tempo, manifesta una incongruenza tra il quadro programmatico (aggiornato) del DEF, da un lato, e le misure delineate nella Legge di Stabilità, dall’altro. Il semestre europeo di bilancio ha un vantaggio: quello della trasparenza del percorso di formazione delle politiche finanziarie. Step by step è possibile ri-conoscere il “che cosa, il come e il chi” delle politiche di bilancio, ma la distanza tra il DEF e le misure delineate e successivamente le misure adottate dalla Legge di Stabilità registra una discrepanza difficile da comprendere. Non tanto dal lato dello scenario macroeconomico, che rimane sostanzialmente inalterato, piuttosto dal lato delle misure di politica economica e fiscale. Infatti, dalle anticipazioni del governo, via slide e altre indiscrezioni, la Legge di Stabilità non contabilizza né le entrate da privatizzazioni (0,7% di PIL), né l’aumento delle entrate IVA legate alla retrocessione dei debiti pubblici verso i privati (3 mld di euro). Inoltre, dobbiamo considerare l’ulteriore deterioramento del rapporto tra pubblica amministrazione e propri dipendenti. Il pubblico impiego non avrà nessun adeguamento del reddito. Un risparmio non contabilizzabile nella Legge di Stabilità, ma di vitale importanza. Dopo quattro anni di blocco del contratto, con un risparmio di 11,5 mld di euro, a cui dovrebbe aggiungersi anche il blocco del turn over, altri 6 mld di risparmi, il governo intende risparmiare ulteriori 2,1 mld per il 2015. La logica è sempre la stessa, ma la riforma della pubblica amministrazione si configura sempre di più come un taglio progressivo del reddito da lavoro dipendente. In effetti, ad oggi, è l’unica misura certa della riforma della macchina dello Stato.
Si noti che la Nota di aggiornamento del DEF, un documento di fondamentale importanza per l’impostazione della Legge di Stabilità tanto che il Parlamento vota una mozione che approva o meno lo scenario proposto dal governo con il DEF, diventa modificabile e interpretabile. Il segno della scarsa considerazione del ruolo del Parlamento si vede dalle ”piccole” cose, si pensi all’eccesso della decretazione d’urgenza, ma quando la legge che regola e pianifica la pubblica amministrazione, così come la politica economica e fiscale, si allontana dalle considerazioni e raccomandazioni appena discusse nella settimana, si umilia il rapporto tra esecutivo e legislativo, superando in peggio il concetto di “dittatura della maggioranza”.
Al netto delle considerazioni appena svolte, la logica sottesa alla manovra e al DEF è quella della austerità espansiva: se le imprese sono certe che nel medio periodo le tasse dello Stato si riducono, assieme al peso dell’economia pubblica, le stesse cominceranno a investire. Per questo nel breve periodo il moltiplicatore economico è così contenuto, se non negativo. Il taglio delle tasse e della spesa pubblica nel breve periodo producono effetti limitati e, in alcuni casi, contrari a quelli attesi nel lungo periodo. L’insistenza del Ministro Padoan sulla “fiducia” per rilanciare i consumi e più in particolare gli investimenti sono coerenti sia con il DEF e sia con la Legge di Stabilità, ma l’anticipo di una parte della spending review, che prevedeva una sorta di clausola di salvaguardia a partire dal 2016[1], potrebbe avere degli effetti recessivi che superano i benefici attesi dalla riduzione delle tasse. Infatti, il taglio della spesa pubblica comprime la domanda aggregata, mentre le risorse liberate dalla riduzione delle tasse produce domanda incerta e comunque inferiore alle risorse tagliate[2]. In altri termini, la crescita economica (0,2%) imputabile alla riduzione del costo del lavoro e del prelievo fiscale a valere sull’Irap (17 mld di euro), potrebbe essere controbilanciata dall’anticipo della spending review, che nel breve periodo rappresenta una contrazione secca della domanda (effettiva). “Fiducia” è un concetto ampiamente utilizzato in economia, assomiglia molto alle aspettative declinate da Keynes, ma in assenza di crescita, la così detta “fiducia” trasforma la maggiore disponibilità di risorse finanziarie in un ulteriore vincolo alla crescita. I nostri comportamenti (consumi e investimenti) sono per lo più guidati dalle aspettative e dalla fiducia in un futuro migliore, non dalla disponibilità di maggiori o minori risorse. L’effetto macroeconomico nullo del bonus fiscale dimostra che non basta distribuire reddito, ancorché utile ai fini della giustizia fiscale e della possibilità di aumentare la propensione marginale al consumo. Il problema è la certezza di reddito primario. Se le prospettive di perdere il lavoro o di non avere profitto dagli investimenti sono dominanti, le imprese e i consumatori tenderanno a tesoreggiare (risparmiare) il reddito aggiuntivo. In altri termini, la così detta mano invisibile di A. Smith non lavora correttamente[3]. Per questo il mainstream continua a prefigurare scenari di lungo periodo, ma questo scenario ha come presupposto la piena occupazione e il mercato perfettamente concorrenziale, cioè un caso particolare del sistema economico. Quando si enfatizza l’inadeguatezza delle politiche neoclassiche durante la recessione economica, sempre che oggi si possa parlare di recessione, si sottolinea che queste politiche non danno una risposta alla crisi perché il loro modello rappresenta un solo caso: l’occupazione piena di tutti i fattori di produzione. Ma quando applichiamo questo modello durante una recessione non facciamo altro che allungare nel tempo la crisi, nel migliore dei casi, e prefigurare un deprezzamento del reddito accumulato. Alcuni opinionisti sottolineano che la Grecia comincia a crescere dopo le misure imposte dalla Commissione Europea. Quando un paese riduce il PIL come la Grecia, la “crescita” diventa pura riproduzione del reddito distrutto dalle misure d’austerità. Dobbiamo creare dei poveri per crescere? Dobbiamo distruggere capitale? Non dovrebbe essere questo l’orizzonte dell’Europa, almeno che il ben-essere di William Beveridge (1942-1945) diventi un costo[4].
Se proprio se deve trovare un messaggio nella Legge di Stabilità e nelle politiche della Commissione Europea, possiamo sostenere che l’Europa ha perso il senso della politica economica, che rimane una scienza sociale e non un problema di “aritmetica”.
Il DEF2014 di aprile era ancora un retaggio del Governo Letta, anche se il Ministero dell’economia era passato da BdI (Saccomanni) direttamente all’Ocse (Padoan). Il DEF2014 abbassava di molto le stime di crescita del dicembre 2013, ma ancora era fiducioso per un 2014 di ripresa del Pil, mentre per l’occupazione si sarebbe dovuto attendere un poco di più. Si scommetteva tutto su investimenti privati ed esportazioni, con consumi privati in stagnazione e investimenti pubblici in caduta libera. Sappiamo come sta andando. Previsioni errate, come peraltro FMI, OCSE, BCE, CE avevano avvertito: il Pil quest’anno diminuisce rispetto al 2013, le esportazioni nette languono, grazie peraltro al contenimento delle importazioni, investimenti privati e pubblici sono in picchiata, ed i consumi privati ristagnano nonostante gli 80 euro.
La Nota di Aggiornamento al Def2014 ha semplicemente fotografato lo stato di depressione, reso credibili le stime del Pil per il 2014, mantenuto però sopra le righe quelle al 2015, tanto che la BdI ha osservato che la crescita prevista, pur modesta, pecca comunque di troppo ottimismo[5]. Anche sui conti pubblici, aggiustati verso la soglia Deficit/Pil del 3% e spostato al 2017 il raggiungimento degli obiettivi di medio termine, la BdI esprime perplessità, data l’entità ottimistica dei risparmi previsti sugli interessi del debito. Ma la Nota è onesta su un punto: prevede una pressione fiscale non minore negli anni a venire, anzi nel breve continuerà ad aumentare. La Nota contesta anche, in modo garbato ma deciso, le stime dell’output gap, ovvero la differenza tra reddito effettivo e reddito potenziale, per invitare la Commissione ad essere molto cauta nel valutare (leggi “minacciare d’infrazione”!) l’inadempienza del governo rispetto il Fiscal Compact.
Con la Legge di Stabilità 2015, la “verità” governativa viene ristabilita, e si realizza una sana iniezione di ottimismo per l’economia reale. L’aumento del deficit/Pil al 2,9% consente 11 mld di spesa in deficit, in una manovra di 36 mld complessivi. In attesa della relazione tecnica allegata alla Legge di Stabilità 2015, e nel tentativo di mettere ordine al caos mediatico circa l’entità della manovra economica, sicuramente alimentato dal Presidente del Consiglio, è possibile descrivere le principali poste che compongono la Legge di Stabilità. Rimangono i dubbi circa alcune entrate certificate nel DEF (aggiornato) improvvisamente scomparse dalla Legge di Stabilità: 7 mld da privatizzazioni e 3 mld da IVA per la retrocessione dei debiti della pubblica amministrazione ai privati, senza dimenticare che le entrate legate alla evasione fiscale salgono da 3 mld a 3,8 mld.
Nel complesso la manovra rispecchia la politica economica di Renzi e il programma italiano per il semestre europeo. La manovra dal lato delle coperture finanziarie ruota attorno a 3 macro voci per un totale di 36 mld, che costituiscono le risorse aggiuntive: 11 mld dalla crescita del deficit (indebitamento); 15 mld dalla spending review; 10 mld da maggiori entrate.
La manovra prevede minori spese per investimenti pubblici e trasferimenti alle autonomie locali, tagli a Regioni (4 mld), Province (1 mld) e Comuni (1,2 mld), e una razionalizzazione delle cosiddette municipalizzate che dovrebbe dare un risparmio di spesa non inferiore a 1 mld di euro, compensato da un allargamento del Patto di Stabilità Interno. I principali servizi colpiti saranno: sanità, trasporti locali e servizi scolastici anzitutto. La spending review qui colpisce per 15 mld, compresi i tagli ai Ministeri. Dalla lotta all’evasione si recupereranno altri 3,8 mld, che nel DEF erano stimati in 3 mld. Altrettanti miliardi provengono da tassazione delle rendite finanziarie, ma di questi 3,6 mld almeno 2,5 risulterebbero da provvedimenti già adottati, per cui poco più di 1 saranno risorse fresche. Dalle slot machine si recupera 1 altro mld, un auspicio visto il precedente del 2012 del governo Monti. Infine 0,6 dalla banda larga ed 1 da una riprogrammazione delle entrate.
La Legge di Stabilità prefigura una manovra da 36 mld, come impieghi aggiuntivi. Le risorse risparmiate, assieme al maggiore deficit, saranno destinate per metà, 18 mld, a minori tasse per imprese e lavoro (Irap e decontribuzione assunzioni per le imprese, copertura 80 euro e sostegno a partite iva per i lavoratori), ed un poco alle famiglie. Viene previsto l’impiego del TFR su base volontaria, sperimentale e da metà 2015, fatto salvo l’impegno delle banche ad anticipare le cifre a fronte di certificati di garanzia dello Stato per 100 milioni. In questo caso si pone un problema costituzionale. Infatti, lo Stato non finanzierà questa misura per i dipendenti pubblici. Per finanziare l’estensione di ammortizzatori sociali sono destinati 1,5 mld, quelli annunciati nel job act. Quasi 7 mld son previsti per coprire spese prevista a legislazione vigente e 3 per eliminare le clausole di salvaguardia del governo Letta. La ricerca, la scuola e la giustizia si dovranno accontentare di poco più di 1 mld di risorse aggiuntive, cosicché si evince che la stabilizzazione dei precari (2,5 mld) avverrà in gran parte con recupero di risorse nella scuola stessa. Interventi per le aree metropolitane, Roma e Milano, e risorse per cofinanziamenti europei sommano 1,35 mld. Il residuo di 3,4 mld è il tesoretto previsto ed accantonato nel caso, presumibile, la Commissione Europea contesti la manovra e richieda almeno di ridurre il rapporto deficit/Pil di circa 0,2 punti percentuali.
Tab.1 – Provvedimenti in Legge di Stabilità e coperture (in milioni di euro)
La manovra economica sembra più una azzardo che il programma economico di governo. Tutto ciò comporta un rischio. Non solo si effettua una redistribuzione della domanda tra componente pubblica e componenti private, senza assicurare una domanda aggiuntiva, ma più rilevante è che si ha una sostituzione di domanda certa con domanda incerta. Il governo pubblicizza una grande azione di fiducia collettiva su famiglie e soprattutto imprese, perché ora non vi sono più scuse: “consumate ed investite a più non posso, che dal pantano usciremo solo grazie a voi”. Neppure si fa leva sulla domanda estera. Infatti, anche il modello bavarese è in crisi profonda. Tutto si gioca sul terreno della ripresa degli spiriti animali degli imprenditori affrancati da un governo che intende delegiferare su tutto e di più, dallo Sblocca Italia al Jobs Act. Dovrebbero consumare ed investire tutto ciò che hanno risparmiato e guadagnato negli anni della crisi, magari indebitandosi se necessario, banche permettendo. E le imprese dovrebbero assumere flotte di lavoratori con il discount, grazie a contributi sociali zero e licenziamento facile entro i tre anni allo scadere della promozione, garantirà il contratto a tutele progressive previsto dal jobs act.
Il governo è consapevole che la crisi che percorre il paese è profonda, lambendo la depressione. Per essere onesti l’Italia è in depressione dal 2008, gli italiani pure son depressi. Nonostante lo scenario economico accertato da tutti gli istituti internazionali, il governo rimane però fiducioso su alcune misure, e non potrebbe essere diversamente. Il pilastro delle politiche del governo è quello di stimolare gli investimenti. Senza investimenti (è il refrain di Filippo Taddei) il paese non può uscire dalla crisi. Come non essere d’accordo. Ma la domanda è: chi deve fare gli investimenti e perché investire?
Il governo non ha solo sottolineato che la spesa pubblica è inefficiente, sulla qual cosa ci si potrebbe anche lavorare, ma è pure inefficace, quindi più che inutile è dannosa perché drena risorse che il privato userebbe al meglio. Quindi se non si ri-avviano gli investimenti privati non si uscirà dalla crisi. Il punto di arrivo sono gli investimenti privati da stimolare, in quanto quelli pubblici non producono nessun effetto significativo, e se lo producono rischia di essere pure negativo.
Ma gli investimenti privati sono pesantemente condizionati dalle aspettative. Renzi parla di fiducia, che non è proprio un sinonimo, che il governo intende alimentare via riduzione del costo del lavoro, delle tasse e un incremento dei consumi; financo l’ipotesi di utilizzare il TFR rientra in questa logica. Il taglio delle spese delle tasse produce un effetto limitato? Vero. La carta canta, soprattutto per le tasse, gli effetti espansivi son modesti; un poco più effetti elevati sono quelli per la spesa a dir il vero che è domanda certa, ma in tal caso son negativi, dato i tagli.
Ma non è questo il punto. Se lo scenario di riduzione delle tasse e del costo del lavoro è credibile, l’austerità espansiva assieme alla precarietà espansiva nel tempo darà i suoi frutti. Come interpretare, diversamente, le mirabolanti proiezioni di crescita di lungo periodo della riduzione delle tasse e delle privatizzazioni di partecipate pubbliche? Un bel problema.
Il punto della politica economica del governo, così come della Commissione Europea, è la sfiducia nel ruolo pubblico e più precisamente al pubblico come soggetto istituzionale capace di tenere in tensione la domanda effettiva. Keynes è in soffitta. La sua idea era che lo Stato intervenga per fare cose che il privato non fa, e nella crisi sono molte le cose che il privato non fa, investire ad esempio. Ma per Renzi lo Stato si deve ritirare, anche nella crisi, e lasciar fare al privato.
Nel frattempo sono sprecate risorse pubbliche che potrebbero avere ben altra destinazione, magari favorendo quei piccoli interventi di ripristino ambientale che sarebbero essenziali dato lo stato di salute del nostro territorio. Si potrebbero usare le risorse per industrializzare la ricerca pubblica e privata per aumentare la produttività del capitale investito, cioè intervenire sul punto più debole dell’industria italiana. Poi investire in conoscenza, anche nei luoghi di lavoro perché l’innovazione non è solo tecnologica ma anche organizzativa e riguarda qualità e condizioni di lavoro, flessibilità funzionale che sostiene la produttività. Ma il governo non si cura affatto di ciò; il lavoro è declinato solo in flessibilità di mercato, quella dei rapporti di lavoro “usa e getta”.
Il problema è la filosofia di fondo che guida l’azione del governo. Lo stesso jobs act è lo specchio fedele delle policy governative. Noi creiamo le condizioni per la crescita, voi dateci una mano con gli investimenti. Ma lasciare oggi la soluzione dei problemi ai cosiddetti “capitani coraggiosi” è un azzardo. Avrebbe anche un senso se avessimo un capitalismo dallo “sguardo lungo”, ma l’industria italiana da anni ha dato prova di “sguardo molto corto”.
La fiducia del governo è immensa rispetto al mercato, ma il mercato è purtroppo abitato da troppi capitani coraggiosi ben poco lungimiranti.
Non basta ridurre le tasse ed essere anche certi che queste misure siano adottate. Occorre perseguire l’obiettivo della piena occupazione, e non assumere il lavoro come mero residuo del processo di ristrutturazione per rilanciare l’offerta. Occorre quindi un tessuto produttivo, forse anche uno civile-morale, capace di affrontare le sfide del XXI secolo.