Rossana Rossanda nell’avviare la discussione sul Forum ha posto la questione del rapporto tra la crisi del nostro debito pubblico e il ruolo incerto dell’Unione Europea in questa fase turbolenta. I successivi interventi, fin dal primo contributo di Mario Pianta, hanno espresso la convinzione che, per comprendere la situazione attuale e le prospettive dell’immediato futuro, era essenziale individuare le ragioni della crisi delle istituzioni europee, non solo di quelle economiche ma anche, se non soprattutto, di quelle politiche.I guai dell’Italia, l’assenza dell’Europa e il vuoto di democrazia sono i tre temi al centro del dibattito sulla “Rotta d’Europa” iniziato lo scorso luglio. In questa sintesi della discussione emerge il nodo difficile della finanza internazionale, la necessità di rinnovare le istituzioni e le politiche dell’Unione, e di estendere le forme di partecipazione e […]
All’inizio del dibattito la questione più trattata è stata la difficoltà dell’economia italiana nel fronteggiare l’attacco della finanza internazionale, ma ben presto l’interesse si è spostato sulle responsabilità dell’Unione europea, in primis della sua Banca centrale, per avere orientato la sua azione all’interno di una concezione neoliberista delle relazioni economiche e sociali considerando del tutto marginali i costi sociali che ne potevano derivare. Attorno a questi tre temi – situazione strutturale dell’economia italiana; inadeguatezza delle istituzioni europee nel sostegno dei paesi membri in difficoltà; ostacolo alla costruzione di una democrazia di qualità – si è concentrata la riflessione collettiva non solo per dare una spiegazione delle difficoltà attuali, ma soprattutto per prospettare i modi di un loro superamento.
I tre temi costituiscono la guida per la presente sintesi, il cui intento è di sottolineare gli snodi principali di un discorso collettivo e di presentare le acquisizioni maggiormente condivise. Nella prima parte riporto le spiegazioni della nostra fragilità economica e sociale e le sue connessioni con l’inadeguatezza assunta dal progetto europeo. Successivamente espongo quali innovazioni sono proposte affinché le istituzioni economiche europee possano garantire ai paesi in difficoltà di far fronte agli shock finanziari, attuali e futuri. Infine, presento le contromisure che potrebbero controbilanciare l’ulteriore accentramento delle istituzioni economiche europee e potenziare il grado di democrazia politica dell’Unione.
Dal dibattito emerge, in sostanza, la convinzione che dalla pressione della finanza internazionale ci si può difendere, ma che ciò può avvenire più utilmente all’interno di appropriate istituzioni europee in grado di offrire ai membri in difficoltà uno scudo nei confronti della finanza globale. Affrontare le difficoltà politiche e sociali per concretizzare una tale prospettiva ha però senso solo se l’obiettivo politico è quello di rafforzare il modello sociale europeo, dell’Europa del welfare. Una tale prospettiva non riguarda esclusivamente il nostro paese, ma interessa tutti i paesi europei e l’Europa nel suo complesso e questo spiega perché nel Forum non sempre vengano distinte nettamente le tre dimensioni geografiche (nazionale, europea, globale) e questo sguardo ampio è, a mio avviso, un merito non marginale.
Dal fordismo al neoliberismo.Pur con diversità di accenti, il dibattito ha ampiamente condiviso la tesi che il contesto, materiale e culturale, di “fede nel liberismo” (Rossanda) ha condizionato pesantemente le politiche economiche alla radice della crisi che dal 2008 imperversa sulla nostre economie e che negli ultimi tempi ha assunto la forma della crisi dei debiti sovrani. Una fede di cui non sono rimaste immuni né l’Unione europea né la BCE e la sua gestione dell’euro. Si è trattato di un orientamento che ha prodotto linguaggi, parametri, riferimenti politici e istituzionali che hanno affascinato ampi settori, anche della socialdemocrazia e della sinistra (Palmer).
La visione neoliberista dell’economia e della società non è cosa recente; essa determina una drastica e irrimediabile cesura rispetto al compromesso fra le parti sociali di natura fordista che era stato il fondamento della politica economica dell’“età dell’oro del capitalismo” (Kaldor). Dagli anni settanta si avvia un processo politico-culturale travolgente che, attraverso l’imperativo di “liberare l’economia dalle bardature regolative per lasciare alle forze economiche di poter far da sé e, così, fare società” (Fassina), aveva (e ha) come obiettivo la costruzione di quella “società di mercato” regolata dalle relazioni dello scambio interessato. Sebbene la realtà sociale abbia ormai accettata la svolta monetarista favorevole al mercato a tutti i costi e quella della pubblic choice con la sua diffidenza per l’intervento pubblico, altrettanto non vale a livello sociale poiché la logica della “piena libertà di circolazione delle persone, delle imprese e dei capitali, messi sullo stesso piano” ha prodotto l’arretramento dei diritti sociali e la precarizzazione del lavoro che sono sotto i nostri occhi (Bellofiore). Anche la crescente disuguaglianza degli ultimi decenni, più che essere dovuta alla minore capacità redistributiva del welfare, è il risultato della flessibilizzazione dei mercati prodotta da una politica economica coerente con il processo di globalizzazione (Franzini).
Con questi riferimenti di fondo, le riflessioni su “come è potuto succedere” hanno riguardato principalmente due temi: il peso della finanza internazionale nel determinare le condizioni strutturali dell’attuale crisi e il (mancato) ruolo dell’Unione europea nel governare una realtà che ha accettato di trasferire (parte del) proprio potere decisionale a istanze sopranazionali.
Il ruolo strutturale della finanza globale. Il ruolo della finanza globale nell’attuale crisi è stato ampiamente commentato. Il diffuso giudizio negativo sui suoi condizionamenti economici e sociali è dovuto alla considerazione che la struttura gerarchica del sistema finanziario mondiale – costituito da un vertice di nove grandi complessi bancari e tre società di rating – non garantisce la non-neutralità delle sue scelte che, per quanto possano apparire irrazionali nella loro dimensione speculativa, sono un meccanismo di orientamento della dinamica dei mercati funzionale agli interessi globali (Fumagalli).
Il sistema finanziario orienta e condiziona i flussi mondiali con effetti reali sulle economie in quanto convoglia i fondi raccolti sull’intero scacchiere mondiale (inclusi quelli delle fasce di reddito elevato, europee e italiane) verso realtà economiche ad alto rendimento, seppur particolarmente rischiose (quali quelle del sud-est asiatico). In una logica strettamente economica e in un’ottica globale, non si può sostenere che la finanza induca effetti distorsivi, ma, dal punto di vista sociale, essa influenza profondamente le prospettive di vita delle realtà locali non privilegiate dal suo credito. Il ruolo dell’infrastruttura finanziaria per l’accumulazione dei paesi periferici è notoriamente vitale, come è rilevato dalla direzione degli investimenti diretti, della delocalizzazione industriale, della rete di commesse e subforniture; in altre parole, è innegabile la funzione storica della finanza globale a sostegno della fase di accumulazione “accelerata” a livello mondiale degli ultimi decenni, che, come naturale effetto discriminatorio, non coinvolge le nostre economie per le minori opportunità di investimento offerte (Fumagalli).
Si deve inoltre riconoscere che la dimensione assunta dalle transazioni finanziarie (rispetto ai flussi reali della produzione e del reddito) è certamente ipertrofica per il processo di accumulazione descritto. Si deve però tener presente che per collocare i titoli presso risparmiatori avversi al rischio è normale che gli operatori finanziari utilizzino forme di rifinanziamento o di assicurazione che permette loro di coprirsi dal rischio del debitore (particolarmente elevato per gli investimenti nei paesi emergenti). Ciò avviene con l’emissione di titoli, nelle odierne forme sofisticate, da parte dell’istituto finanziatore sui quali viene trasferita una parte del rischio finale. Quando la ripetizione abnorme di questa procedura produce l’enorme volume delle attività finanziarie attualmente in circolazione, il sistema riesce a spalmare il rischio (del debitore finale) tra una miriade di soggetti che sembra scomparire magicamente alla vista dei risparmiatori finali (e anche di molti intermediari). I titoli sul mercato appaiono per il singolo investitore del tutto sicuri tanto da indurlo, per la non corretta informazione, a detenere titoli che non corrispondono alle proprie necessità e a subire così le pratiche predatorie di chi dispone dell’effettiva conoscenza della situazione (Tricarico). Una pratica rende il sistema finanziario strutturalmente instabile poiché i singoli operatori non sono in grado né di valutare l’effettivo rischio che corrono, né di governare le interazioni sistemiche che si vengono a generare quando divengono reali le perdite a carico del debitore finale. Situazione pericolosa quando tali comportamenti si esprimono in un contesto internazionale in cui non si registra un rapporto equilibrato tra politica e mercato (Schiattarella). Per quanto il giudizio sugli attuali meccanismi finanziari sia decisamente negativo per i danni economici e sociali che può provocare, non si deve ignorare che, per quanto la cosa possa inquietare, non sembra esservi – almeno nell’immediato futuro – un’alternativa a questo meccanismo di accumulazione globale, per cui si dovrà prevedibilmente fare ancora i conti nel prossimo futuro con una finanza alla pressante ricerca di nuove opportunità (Tricarico).
Va infine sottolineata l’esistenza di un legame tra liberalizzazioni finanziarie e disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, rimarcata dall’estendersi negli ultimi decenni delle povertà assieme alla crescita iperbolica dei profitti e delle rendite. A questo riguardo, non si dà sufficiente rilievo al fatto che la crescente offerta di fondi finanziari è dovuta ai risparmi dei ceti ad alto reddito, favoriti in varia maniera dall’alleggerimento dell’imposizione progressiva del reddito o dalla possibilità di evasione ed elusione fiscale di benestanti e imprese delocalizzate ( Gallino). Si tratta di una componente essenziale della raccolta di fondi delle istituzioni finanziarie che permette loro di redistribuire il risparmio dei paesi ad alto reddito (inclusi quelli europei) agli investimenti in aree ad alto rendimento. Se il meccanismo è efficiente dal punto di vista finanziario (globale) non lo è a livello locale per la compressione degli investimenti e della crescita interna al di sotto delle sue potenzialità di risparmio. Solo l’accettazione acritica di una presunta oggettività economica può spiegare perché una comunità democratica accetti di sottostare a un tale meccanismo.
L’Unione europea: una scelta politica gestita in termini economici. Le riflessioni sul ruolo dell’Unione europea si concentrano sulla deriva che ha subito l’obiettivo originario di costruire un soggetto geo-politico autonomo a livello mondiale avente per obiettivo la stabilità, il benessere e la pace (Ciafaloni, Amato, Melloni). L’involuzione è bene espressa dalla trasformazione registrata, nel passaggio dalla Strategia di Lisbona a quella di Europa 2020, dell’obiettivo della coesione sociale che viene vista, nel documento più recente, come un peso per la crescita (De Fiores, Lundvall, Mattei). Lo stesso disegno istituzionale europeo, centrato su Patto di Stabilità e Banca centrale, che avrebbe dovuto rappresentare il quadro di riferimento di una politica economica autonoma per proteggere gli stati membri dall’instabilità e favorire l’integrazione politica, si è trasformato in un fattore di tensione quando, nel clima neoliberista, è stato ridotto a strumento amministrativo di supporto dell’autoregolazione dei mercati (Petrella, Ferrara). Con l’apparente depoliticizzazione di queste istituzioni, si è ridotto il loro orizzonte di politica economica alla sola flessibilizzazione dei mercati, nella convinzione che le regole finanziarie fossero sufficienti, attraverso il contenimento dei salari reali e dei conti pubblici, a garantire una crescita sostenuta e stabile (Pianta, Bellofiore).
La dimensione politica dell’Europa si è, nella sostanza, appiattita sulla dimensione economica dell’Euro (Musacchio). La scelta della moneta unica da parte dei paesi economicamente più fragili ha imposto loro dei vincoli che, alla lunga, sono diventati preminenti rispetto ai vantaggi (di più breve periodo). derivanti dal contenimento del costo dell’indebitamento, privato e pubblico. Due sono i vincoli evidenziati: la subordinazione produttiva alla centralità industriale della Germania; la subordinazione alle condizioni finanziarie internazionali, anche per effetto di una politica della BCE che non accoglie tra i suoi obiettivi la crescita del reddito e la tenuta dell’occupazione (Pianta).
Il mercantilismo tedesco… La centralità del modello industriale tedesco è una costante storica del panorama economico europeo. Esso è il risultato di una struttura politica e istituzionale a sostegno di una rete di imprese che operano in settori ad alta tecnologia e la cui competitività non-di-prezzo favorisce lo sbocco sui mercati esteri (Guérot). Il carattere dominante del sistema produttivo tedesco risulta acuito in un sistema di cambi inevitabilmente fissi, quale quello costituito dall’area dell’euro, per la presenza di paesi con una sistematica carenza competitiva. Da qui l’inevitabile tensione all’interno dell’area tra il contesto industriale e quello finanziario.
In effetti, l’economia tedesca, e quelle dei paesi che ne sono il corollario, non si avvantaggia solo dal fatto che gli altri paesi europei (che non possono svalutare per compensare la loro minore dinamica competitiva) costituiscono un importante mercato di sbocco, ma anche dal fatto che la presenza dei deficit commerciali di questi paesi frena l’apprezzamento della moneta europea. Per quanto rallentata, la rivalutazione dell’euro modera la crescita dei prezzi alle importazioni che, proteggendo i salari e i redditi reali, favorisce la pressione alla moderazione salariale e alla disciplina sociale che il modello tedesco richiede per conservare i suoi vantaggi competitivi (Cesaratto, Palma-Leon-Romano-Ferrari).
Per quanto riguarda le economie più deboli, la moneta unica le libera dal vincolo estero, ma essendo precluso l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti tramite la svalutazione, lo squilibrio viene sanato accumulando debito (privato e pubblico) sull’estero. Le condizioni facili di indebitamento rafforzano l’illusione di questi paesi di poter perseguire obiettivi di politica economica non sostenibili nel lungo periodo (Bagnai, Melloni). Ciò diviene manifesto quando le condizioni di credito sui merc ti internazionali si inaspriscono con la crisi; i paesi deficitari sono sotto pressione per ridurre il loro squilibrio nei conti con l’estero da ottenere attraverso l’aumento della produttività e tagli del bilancio pubblico. La pretesa tedesca di risanamento dei conti è di difficile gestione non solo per i tempi brevi richiesti, ma soprattutto per la inevitabile caduta della domanda a livello europeo che ne è seguita (Simonazzi). Il superamento delle presenti difficoltà richiede tempi presumibilmente lunghi e riflessi pesanti a livello sociale; la prospettiva di una lunga deflazione con preoccupanti effetti su disoccupazione e livelli di reddito allarma anche la forte società tedesca (Palma-Leon-Romano-Ferrari).
… e la subordinazione alla finanza internazionale. La finanza ha il ruolo di disciplinare i comportamenti locali per renderli coerenti con l’attuale modello di sviluppo globale attraverso il naturale meccanismo speculativo che sposta gli enormi fondi in circolazione dai titoli dei debitori con peggiori prospettive a quelli con redditività maggiore. Se, come succede per i titoli pubblici dei paesi periferici dell’euro e dell’Italia, la finanza ritiene che le prospettive dei soggetti debitori stiano peggiorando, essa non è disposta a detenere i loro titoli nei propri attivi a meno che la pressione delle sue vendite non ne aumenti il rendimento (Gnesutta).
Va rimarcato che la debolezza dei conti pubblici non è costituita tanto dal livello dello stock del debito pubblico (è una sciocchezza parlare di necessità di “ripagare” il debito), quanto dalla capacità di garantire nel tempo il servizio del debito (Bruno). In effetti, per essere tranquillizzata, la finanza deve ritenere che lo Stato potrà disporre nel corso del tempo delle risorse necessarie per il pagamento degli interessi (e per il rinnovo della tranche di fondi in scadenza) in quanto il sistema produttivo nazionale sarà in grado di far affluire a esso un adeguato volume del reddito prodotto. Se la crescita del paese non dovesse prospettarsi adeguata e le istituzioni finanziarie fossero indotte a dare una valutazione negativa sulla capacità dello Stato di rispettare i propri impegni, questi potrà rifinanziarsi solo a condizioni più pesanti; il maggior tasso d’interesse che dovrà accettare rappresenta in sostanza il rimborso anticipato di quella quota del capitale che il finanziatore valuta di perdere per il possibile default futuro. Si tratta dell’ovvia conseguenza di una valutazione soggettiva di presumibili inadempienze future, che però aggrava le condizioni correnti dei paesi in difficoltà che, peggiorando la solvibilità dello Stato, finisce con il giustificare a posteriori il primitivo giudizio negativo (Palma-Leon-Romano-Ferrari).
Ampiamente condivisa è la considerazione che la pressione della finanza compromette l’autonomia degli stati; in effetti, le valutazioni sulla solvibilità dei conti pubblici sono formulate dalle stesse istituzioni finanziarie (incluse le società di rating). che pertanto incorporano la loro avversione per quelle politiche, correnti e future, da esse giudicate non corrette perché contrarie ai propri interessi. Si rende così esplicito che la finanza internazionale rappresenta la forma più compiuta, astratta e delocalizzata del capitale (Viale) e, nell’accettazione acritica dei suoi giudizi, la “politica” manifesta la piena soggezione nei suoi confronti, nei confronti del “mercato”.
La crisi dei debiti sovrani dei paesi europei dimostra l’inadeguatezza dell’attuale struttura istituzionale europea a rappresentare una protezione dei governi dei paesi-membri più deboli, protezione che pure era stata ampiamente attivata nel 2008 per la crisi delle banche. L’incapacità della politica economica europea di fornire ai conti pubblici il necessario sostegno finanziario intacca la sua credibilità finanziaria, garanzia per l’indispensabile apertura di credito sui mercati per il loro rifinanziamento (Melloni). Risulta in tal modo rafforzata la pressione per ridimensionare l’intervento pubblico (attraverso tagli e liberalizzazioni). con prevedibili pesanti ricadute sociali dato che le drastiche manovre di rientro aggravano le condizioni di rifinanziamento e sospingono l’economia lungo una suicida china deflazionistica (Simonazzi).
Una prospettiva deflazionistica per l’Europa. Se la speculazione sui titoli pubblici può apparire giustificata a livello di singola istituzione per la necessità di ricostituire, in una fase di crisi prolungata, le proprie condizioni di solvibilità (ma a scapito della stabilità di altri soggetti, privati e pubblici), essa è intrinsecamente contraddittoria per il rischio che funzioni da detonatore per la diffusione della crisi (Comito). Ciò si verificherebbe se la speculazione proseguisse oltre, sui titoli delle banche (europee). impegnate nel finanziamento dei debiti pubblici e poi su tutti gli altri, di cui i recenti crolli di borsa sono il segnale di una logica finanziaria priva di qualsiasi contrappeso di cautela sistemica.
In presenza di una crisi che sta erodendo tutti i punti di stabilità a livello globale appare evidente come l’Europa – nel suo complesso e nelle sue singole nazioni – si trovi schiacciata tra difficoltà competitive dal punto di vista industriale e condizioni di subalternità dal punto di vista finanziario. Nell’interpretazione politica neoliberista particolarmente aggressiva degli ultimi tempi, la situazione è ritenuta insostenibile per i costi che le economie europee devono sostenere per il loro welfare. Non meraviglia allora che, di fronte alla pressione finanziaria internazionale, il riaggiustamento richiesto ai diversi paesi assuma la forma del contenimento diretto e indiretto dei salari reali e dei redditi della classe media (Pizzuti). Se poi, come in Europa, non viene affrontata la questione della politica fiscale comune per non interferire con gli obiettivi nazionali e se, come in Italia, il governo ha un orizzonte di ancor più corto respiro della finanza, l’assenza di una politica europea autonoma si traduce necessariamente nella sottomissione della società alle condizioni poste dai mercati (Pianta).
Le ipotesi di soluzione avanzate, e spesso imposte, a livello internazionale operano per un aggravamento delle difficoltà in quanto prospettano un quadro dalla netta tendenza alla stagnazione che è particolarmente preoccupante per le condizioni di vita delle fasce sociali più deboli. La mancata ricerca di uno spazio per rispondere alle condizioni essenziali di vita e di benessere dei propri cittadini (Fassina) riflette l’insoddisfacente mediazione tra modello sociale europeo e modello globale di mercato (di impianto liberista) da parte di un’Europa che ha assegnato al capitale, e alla sua ricerca dell’efficienza guidata dai mercati finanziari, quella sovranità sulla politica (economica) che le Costituzioni democratiche attribuiscono al popolo (Viale).
L’Europa, un’area economicamente non omogenea. La gestione della crisi determinerà i caratteri futuri della società europea sia per come si struttureranno i poteri a livello sovranazionale, sia per gli obiettivi che risulteranno istituzionalmente privilegiati. A questo riguardo, sono due gli aspetti sui quali si è concentrata l’attenzione per individuare “cosa è possibile fare”: la ristrutturazione dell’architettura istituzionale della politica economica europea attualmente fondata sull’autonomia della banca centrale e sull’efficienza informativa dei mercati (finanziari); la qualità dell’impegno dell’Unione per garantire ai paesi economicamente più fragili una loro collocazione sostenibile al suo interno.
Per non uscire da questa crisi in senso regressivo (abbandonando cioè i carattere di una società del welfare) è importante partire dall’ovvia constatazione che l’area europea non è una realtà omogenea, né dal punto di vista economico, né tanto meno da quello politico e istituzionale (Pianta, Cesaratto, Bellofiore). Le evidenti asimmetrie esistenti, tra paesi e all’interno di ciascuno di essi, rendono contraddittoria la pretesa – assunta spesso come obiettivo – di perseguire la convergenza tra paesi in termini di competitività, salari e conti pubblici: le asimmetrie evolvono nel tempo, possono accentuarsi o attutirsi, ma non possono essere completamente riassorbite: con esse si deve convivere oggi e in futuro (Bagnai, Garibaldo-Rinaldini). L’affermazione più volte enunciata che l’Unione europea non è un’area valutaria economicamente ottimale è scontata, anche se nella sua incontestabilità è lungi dal cogliere il senso del problema (Lundvall). In effetti, l’Unione è, per scelta, un’area valutaria politicamente ottimale e, finché permane questa scelta, essa ne deve sostenere i relativi costi (De Fiores). In altre parole, se intende sopravvivere politicamente, deve risolvere la questione di come far convivere al suo interno una realtà di irriducibili asimmetrie nazionali e ciò richiede di adottare una governance non subalterna alla finanza globale (Fassina).
Non meraviglia allora che le cause della crisi e della sua particolare intensità siano state collegate alle possibili carenze del quadro istituzionale della politica economica europea il quale si dimostra inadeguato per realizzare compromessi all’altezza della gravità della situazione. Appare quindi essenziale una ridefinizione delle attuali istituzioni di politica economica per affermare una prospettiva europea liberata dal dogma neo-liberista (Lundvall).
Accettare il fallimento: l’uscita dall’euro e il default. Prima di affrontare questo punto sul quale si è concentrato maggiormente il dibattito, conviene soffermarsi su quelle posizioni che, accettando il fallimento della moneta unica, ne auspicano l’uscita.
La complessità della situazione accumulatasi nel tempo, l’incertezza nel garantire nei tempi brevi le richieste della finanza, la sfiducia nel poter far affidamento sulla protezione delle istituzioni europee, tutto ciò giustifica una scelta così drastica poiché è ritenuta preferibile al dover sottostare ai costi sociali di una deflazione dei debiti. La considerazione di un tale evento è comunque importante perché può non essere il frutto della ricerca di una maggiore indipendenza nazionale nella conduzione della politica economica, ma essere invece il risultato improvviso di condizioni di forza maggiore o della benevola disattenzione degli altri paesi europei che, anche contro i propri interessi di più lungo periodo, rinunciano ad assumersi le responsabilità politiche richieste dall’appartenenza a un’unione politica (Guèrot, Comito).
I sostenitori di questa opzione ritengono che con l’abbandono della moneta europea, e una forte svalutazione della nuova valuta nazionale, si possa utilmente riconquistare la gestione del cambio ai fini della crescita (Bagnai). Per quanto rimanga indefinito quale maggiore margine espansivo possa avere una politica monetaria locale nell’attuale gestione monetaria globale di bassi tassi d’interesse condotta dalla Fed, è indubbio che acquisire la flessibilità del cambio, dovrebbe permettere il sostegno delle esportazioni e quindi della crescita. Tuttavia, lo strumento abbandonato, il cambio fisso, lascia scoperto l’obiettivo al quale era finalizzato (la stabilità dei valori nominali, i prezzi e salari interni) per il perseguimento del quale si rende necessario acquisire uno strumento distinto. Anche se non è difficile ammettere che sull’importanza della stabilità dei prezzi vi sia un eccesso di enfatizzazione, ciò non significa che si possa escludere che la flessibilità del cambio non comporti una pressione inflazionistica che ridimensioni l’atteso rilancio della competitività di prezzo.
Affinché il ritorno ai cambi flessibili non inasprisca le condizioni delle fasce più deboli della società sarebbe necessario che i guadagni di competitività non avessero l’effetto di ridurre i salari reali o, se ciò dovesse avvenire, che la riduzione fosse compensata da una politica redistributiva a carico del bilancio pubblico. Attraverso il miglioramento della competitività non-di-prezzo (e della competitività di sistema) si potrebbe conseguire l’obiettivo, ma se così fosse la svalutazione della moneta non sarebbe strettamente necessaria, anche se essa può facilitare una politica industriale in quella direzione. In ogni caso, politica industriale e riorientamento della spesa pubblica sono interventi essenziali e prioritari e, in qualche misura, alternativi alla svalutazione (Garibaldo Rinaldini).
Per quanto riguarda gli effetti finanziari della svalutazione, essa risulterebbe efficace se l’indebitamento del paese fosse espresso nella propria moneta, come sarebbe il caso della svalutazione del dollaro per gli Stati Uniti; l’effetto risulterebbe invece gravoso se il debito fosse espresso in una valuta diversa (come nel caso dei piccoli paesi che si indebitano all’estero). Anche in questo caso, l’effetto negativo potrebbe risultare contenuto se la politica economica interna riuscisse a bloccare le aspettative di inflazione interna e ad acquisire la fiducia dei mercati internazionali sulla sua solvibilità futura. Solo in questo caso, non si interromperebbe il rifinanziamento del debito da parte dell’estero e l’aumento del premio per il rischio rimarrebbe contenuto con effetti benefici sull’onere del servizio del debito, sia pubblico che privato. Di nuovo, liberarsi dal vincolo del cambio fisso non è risolutivo, anche se utile all’interno di una forte strategia di rilancio dell’economia e di risanamento dei conti pubblici per migliorare la credibilità finanziaria del paese.
I medesimi condizionamenti finanziari sono presenti anche per le proposte di ricorso al default – volontario o imposto, accompagnato o meno dell’uscita dall’euro – con il quale il paese in difficoltà dichiara di non essere disposto a onorare il proprio debito nelle forme a suo tempo contratte (Fumagalli). Una tale scelta comporta una contrattazione con i creditori, assistita o meno dall’intervento delle istituzioni internazionali. Per le considerazioni fatte in precedenza, la scelta del default può non essere risolutiva se la parte dello stock di debito che viene condonata non è sufficiente a ridurre il servizio del debito sulla parte rimanente. In questo caso, quando il paese si rifinanzia sul mercato, le condizioni di tasso e di rimborso risultano aggravate dall’imposizione di premi per il rischio richiesti in vista di ulteriori default futuri. Per evitare l’aggravio del servizio del debito il paese potrebbe essere costretto ad avviare un processo di risanamento credibile dai tempi piuttosto lunghi e dai costi pre umibilmente pesanti. Un default controllato e, se fosse possibile, sostenuto da un ampio consenso a livello europeo, potrebbe ridurre di molto i costi dell’operazione; ma se un tale appoggio europeo fosse realizzabile, esso potrebbe essere meglio sfruttato per attuare altri processi meno penosi di correzione degli squilibri pubblici.
La valutazione che, allo stato attuale, l’uscita dall’euro o la dichiarazione di default appaiono improponibili si fonda sulle preoccupazioni che entrambi innestino un circolo perverso di inflazione-deflazione e conseguente processo involutivo di deterioramento delle condizioni del mondo del lavoro e dei settori più deboli della società (Gianni, Gallino). Non sembrano inoltre secondarie le implicazioni a livello internazionale che subirebbe il paese dal dissociarsi dagli accordi dell’euro rendendo (ancora più). marginale la sua posizione nel governo della politica europea. Non va inoltre trascurato che in questo modo la rinuncia all’area monetaria potrebbe costituire la rinuncia a una “scialuppa di salvataggio”, particolarmente utile in questo frangente storico così intricato (Wallerstein).
Una nuova governance europea: la politica fiscale… La valutazione, ampiamente ripresa nel dibattito, che non sia possibile pensare a un nostro futuro autonomo rispetto a quello dell’Europa si poggia sulla considerazione degli obiettivi e della politica macroeconomica necessari per l’auspicata “più Europa” (Palmer). In questa prospettiva, il punto centrale è costituito dal rafforzamento della politica fiscale a livello comunitario da ottenersi con l’ampliamento del bilancio comunitario (Pizzuti).
I maggiori fondi andrebbero destinati al sostegno della domanda interna dell’Unione non solo in funzione anticiclica, particolarmente rilevante nelle fasi recessive come l’attuale, ma anche per finalità strutturali (Pianta). Per quanto riguarda il primo aspetto vi è la necessità di interventi per avviare a livello continentale un ciclo trainato dagli investimenti, particolarmente propizio in un momento in cui l’eccesso di capacità e la presenza di disoccupazione dovrebbe rassicurare sui pericoli di tensioni inflazionistiche e di squilibri nei conti con l’estero (Ietto-Gillies, Bruno). La regolazione della domanda a livello dell’Unione permetterebbe ai diversi paesi che presentano squilibri produttivi di alleggerirne l’intensità e di ridurre i tempi del riaggiustamento. Si tratta di un’azione che eviterebbe le pressioni deflazionistiche presenti nelle ricette di rilancio produttivo basate esclusivamente sulle condizioni dell’offerta (flessibilità del lavoro, stimolo alla competitività, risanamento delle finanze pubbliche anche attraverso tagli al welfare), quali quelle previste dal Patto Europlus della scorsa primavera (Bellofiore). L’altro obiettivo della politica macroeconomica europea, quello che riguarda l’aspetto strutturale della promozione e del sostegno dell’occupazione (Comito), richiede progetti di promozione di territori e fasce sociali a rischio di impoverimento (Franzini) in un quadro di orientamento allo sviluppo sostenibile in funzione della riconversione ecologica dell’economia e alla difesa dei beni comuni (Andreis, Musacchio, Petrella).
Per un diverso e più incisivo intervento pubblico è essenziale la ristrutturazione delle forme di prelievo che andrebbe centrata su un’imposta patrimoniale in un contesto di aliquote fiscali armonizzate a livello europeo (Palmer) al fine anche di contrastare le tendenze attuali alla disuguaglianza dei redditi e di garantire, con lo spostamento di fondi dalla ricchezza privata al finanziamento di investimenti pubblici, un assetto sociale più equilibrato (Baranes). Il costo del rafforzamento della politica economica comunitaria è certamente la perdita (di parte) della sovranità fiscale delle singole nazioni, ma i vantaggi sarebbero notevolmente maggiori. Un’Europa in grado di adottare proprie “ricette” per allentare i vincoli strutturali alla crescita disporrebbe anche di una maggiore capacità contrattuale da far valere nelle trattative sulle politiche commerciali a livello globale per ampliare il proprio spazio di autonomia nei processi di ristrutturazione industriale (Murer).
… e la politica finanziaria. Alla richiesta di una maggiore autonomia per la politica di bilancio si accompagna inevitabilmente l’esigenza di adeguare le forme del suo finanziamento permettendo la raccolta diretta di fondi sul mercato, anche attraverso l’emissione di propri titoli (eurobonds). La consapevolezza che la debolezza finanziaria dell’Europa penalizza le sue potenzialità di crescita e quindi il progetto politico sul quale si fonda, induce a condividere le proposte di innovazioni istituzionali, alcune avviate (Esfs-Esm, il fondo salva-stati; l’imposta sulle transazioni finanziarie), altre discusse ma in attesa di essere considerate (eurobonds), altre ancora da discutere (ristrutturazione dei debiti pubblici e meccanismi di default controllato; separazione tra banche commerciali e istituti finanziari; abolizione dei paradisi fiscali; creazione di un’agenzia europea di rating; riregolamentazione dei movimenti di capitale più speculativi di brevissimo periodo e delle transazioni fuori bilancio). (Palmer, ***, Tricarico). L’aspetto rilevante sul quale si vuole richiamare l’attenzione è la necessità di costruire un sistema istituzionale che fornisca un’architettura nella quale collocare, in maniera organica e completa, le diverse innovazioni tecniche proposte, in modo che l’Unione abbia la possibilità di condurre una politica finanziaria in grado di preservare, quale “ombrello”, la finanza europea, pubblica e privata, dagli attacchi della speculazione internazionale (Comito).
La questione di quali disavanzi pubblici sono “cattivi”, e quindi da rimuovere, e quali quelli “buoni” da accompagnare nella loro evoluzione, non va lasciata a un mercato che si caratterizza per l’ottica di breve periodo e per obiettivi esclusivamente di profitto (Bellofiore). È necessario disarmare la finanza privata su questi terreni e attribuire il relativo potere a istituzioni (europee). in grado di fornire un giudizio attendibile sull’aggiustamento richiesto che tenga conto delle implicazioni, anche sociali, di lungo periodo. È quindi cruciale introdurre adeguate modalità di rifinanziamento dei bilanci pubblici, forme di garanzia del debito pubblico, meccanismi per il loro monitoraggio, procedure finalizzate a garantire i tempi e i modi più consoni di provvedere alla ristrutturazione dei propri conti al minor costo sociale (Bruno). La difesa della finanza pubblica da attacchi speculativi è giustificata dalla necessità di tener sotto controllo gli effetti sistemici di particolare gravità che potrebbero essere innescati dal contagio di altre istituzioni non necessariamente in condizioni precarie, come si prospetta per le banche europee nell’attuale situazione in cui sembrano essere il bersaglio ultimo della speculazione aggressiva. Acquisire gli strumenti e la capacità di gestire eventuali situazioni critiche renderebbe inoltre ingiustificato il giudizio di fragilità finanziaria attualmente attribuito all’euro; ne beneficerebbe l’intera Unione.
In un contesto istituzionale così modificato, la gestione monetaria, se non gli stessi obiettivi, della Banca centrale europea sarebbero aggiornati per tener conto del necessario coordinamento con gli altri soggetti della politica finanziaria e fiscale europea. Si rovescerebbe quel peccato d’origine che ha finito con l’attribuire all’euro il ruolo di obiettivo dell’unità politica, piuttosto che quello di strumento (Baranes). Già oggi si assiste infatti a modificazioni non marginali (acquisti sul mercato secondario di titoli dei paesi in difficoltà). nella gestione della politica monetaria per adeguarla alla situazione che si sarebbe creata con la costruzione di istituzioni per la politica finanziaria. Se ciò si verificasse, saremmo in presenza di una profonda trasformazione dell’assetto istituzionale europeo in quanto, come emerge dallo stesso dibattito sulla Costituzione europea, sarebbe messa proprio in discussione quella forma di rigido supporto del mercato che, attribuito nella sua costituzione alla Banca centrale, avrebbe dovuto modellare anche le altre istituzioni dell’Unione (Ferrara).
Non va trascurata, infine, la possibilità di comportamenti opportunistici da parte di governi non disposti a gestire i loro conti pubblici nel rispetto degli impegni assunti a livello comunitario (Mortellaro). La credibilità dei membri dell’Unione è un problema rilevante per la stabilità dell’intera struttura istituzionale; il suo rafforzamento richiede pertanto un sistema consensuale di incentivi e di sanzioni nei confronti di coloro che possono essere tentati a non rispettare le regole e ciò inevitabilmente richiede un’ulteriore delimitazione della sovranità fiscale dei singoli paesi (Simonazzi). Non però nei termini proposti dalla scorciatoia di costituzionalizzare il vincolo del pareggio di bilancio poiché tale modalità di controllo sarebbe basata sull’imposizione di regole fisse e di delega delle scelte politiche alle forze economiche palesemente contraddittoria con l’esigenza di riappropriarsi, in un contesto di scelte democratiche, della discrezionalità e della responsabilità della politica economica (Amato, De Ioanna, Gianni, Bertinotti, ***).
Ridefinire gli obiettivi della politica macroeconomica europea. Sono queste considerazioni che rendono indispensabile e urgente, sia nella riflessione che nella prassi politica, la costruzione di un sistema istituzionale che garantisca una governance democratica dell’Unione (Amato) in grado di sfuggire alla subordinazione totalizzante dei mercati, di affrancarsi da quel “senato virtuale” dei prestatori di fondi internazionali autoinvestitisi del potere di decidere quale futuro debba spettare ai popoli (Lunghini).
L’aggettivo “democratica” che qualifica la governance è la qualità che si richiede alle nuove istituzioni europee affinché il loro operare sia finalizzato alla realizzazione del modello sociale europeo (Gallino). Si tratta di recuperare un terreno che permetta, contenendo le spinte recessive, di contrastare le tendenze nazionalistiche, se non xenofobe, certamente anti-europeiste, che portano al deperimento delle democrazie europee impedendo di perseguire obiettivi alti di sviluppo sostenibile, di lotta alla povertà e di garanzia della pace (Ragozzino); ma anche di promuovere le condizioni di trasparenza e di assunzione di responsabilità che garantiscano un efficace monitoraggio e controllo sociale delle scelte adottate (De Ioanna). È un’esigenza fondamentale per controbilanciare l’inevitabile ulteriore trasferimento della sovranità (fiscale) a livello sovranazionale (Kaldor).
Il modello sociale europeo come punto di riferimento. La costruzione di un assetto finanziario europeo comporta inevitabilmente un accentramento delle decisioni rilevanti sia per l’evoluzione di breve periodo che per la sostenibilità della società europea nel lungo periodo e pertanto richiede un parallelo rafforzamento delle strutture istituzionali attraverso le quali si realizzano le scelte democratiche (Lundvall). Il riferimento alla democrazia non va inteso in senso formale, dato che la costruzione e la gestione di un apparato così complesso non sarebbe giustificato se l’obiettivo fosse semplicemente quello di adattarsi a una società di mercato. L’impegno per una tale realizzazione ha senso solo se lo scopo è quello di governare le asimmetrie nazionali esistenti in una prospettiva di sviluppo di un modello di società, quale quella rappresentata dall’Europa del welfare, di un’Europa altra (Andreis) che garantisca una crescita economica e sociale sostenibile per la realizzazione di una democrazia di qualità (Petrella).
Per quanto non univocamente presente sul continente (Franzini), il modello sociale europeo è pur sempre quello che più si avvicina a quella “identità europea” che Castells individua nei “sentimenti condivisi sulla necessità di una protezione sociale universale delle condizioni di vita, la solidarietà sociale, un lavoro stabile, i diritti dei lavoratori, i diritti umani universali, la preoccupazione per i poveri del mondo, l’estensione della democrazia a tutti i livelli” (Lundvall). È evidente che una tale prospettiva impone che si costruiscano istituzioni europee e relative politiche che non siano gregarie del mercato, ma sappiano tenere la rotta per sollecitare e incanalare comportamenti favorevoli allo sviluppo della democrazia e per promuovere, in quanto meccanismo redistributivo alternativo al mercato, la crescita sostenibile e il rafforzamento di un welfare inclusivo con la riduzione delle disuguaglianze tra i paesi e all’interno di ciascuno di essi (Amato, Melloni).
La gravità della crisi gioca a questo riguardo in modo ambiguo. Da un lato, rappresenta una formidabile spinta alla trasformazione del modo in cui sono attualmente governate le società europee, ma dall’altro, porta a ripetere in forma accentuata le scelte del passato a causa di interessi consolidati e per inerzia culturale (Schiattarella). La crisi economica ha evidenziato la crisi della politica, della sua capacità a definire una visione della società futura e a governare la sua realizzazione (Della Porta). In gioco è il recupero del ruolo dello Stato e quindi della politica (Ferrara) e dal modo in cui si risolverà la crisi ne potrà risultare rafforzata la subordinazione dello Stato alla finanza e al mercato, oppure, in un quadro diverso di obiettivi e di strumenti e con istituzioni pubbliche innovate, sarà possibile disporre di appropriate istituzioni alle quali riattribuire il ruolo di strumento del progresso sociale (Ciafaloni).
Le difficoltà politiche e sociali. Per una prospettiva di innovazione istituzionale quello che sembra mancare all’Europa è il capitale politico capace di costituire il punto di riferimento di un blocco sociale che la possa sostenere (Garibaldo-Rinaldini). Di ciò testimoniano le difficoltà che l’Unione incontra nel trovare una soluzione di ampio respiro per salvare alcuni suoi stati-membri, ma soprattutto per i ritardi che registra nel pre dere coscienza del pericolo che sta correndo il suo stesso progetto (Pizzuti). È drammatica la sua irresolutezza a rivendicare un proprio ruolo autonomo nel sostenere lo sviluppo della società europea in una fase storica nella quale la finanza internazionale spinge per ridimensionare lo Stato di welfare e le forme di democrazia che su di esso si fondono (Gnesutta).
La posta in gioco è politica: il contenuto civile dell’Unione. È la questione della governance democratica dell’Unione europea, la cui attuale fragilità emerge dal combinarsi della concentrazione dei poteri decisionali in tecnocrazie sovranazionali (Mattei) con la rilevanza che assumono nelle scelte di fondo gli umori di elettorati contrapposti sulla base degli interessi nazionali (Balbo). L’asse Merkel-Sarkozy appare essere il governo economico europeo autoproclamatosi al di fuori di qualsiasi rappresentanza democratica e in assenza di un confronto nelle sedi istituzionalmente definite (Gianni). Il consolidarsi del direttorio franco-tedesco stravolge il senso dell’Unione europea poiché pone gli stati economicamente più fragili in una posizione subalterna; la loro debolezza finanziaria li rende dipendenti dall’aiuto dei paesi forti e rischia di trasformarli in semplici amministratori di politiche altrui (Mortellaro).
La costruzione di una democrazia interstatuale più avanzata – alternativa all’adattamento passivo alle prescrizioni dell’economia globale – appare molto problematica se si considera quanto le decisioni assunte a livello europeo siano fortemente condizionate dai sentimenti nazionalistici di un elettorato privo di una tensione autenticamente europea (Wallerstein): la paralisi che dimostra la Germania su questo terreno cruciale è una tragedia tedesca e europea (Guèrot). Inoltre l’incertezza dovuta alla situazione di crisi non favorisce certamente una risposta avanzata da parte degli ampi strati sociali che ne sono colpiti; ma è la lontananza dei cittadini dalle decisioni prese a livello europeo che moltiplica la sfiducia nei confronti dell’Unione dando spazio a chiusure populiste e nazionaliste (Palmer). Se l’unico modo per contrastare il dominio del mercato e il facile populismo consiste nel rifondare il primato della politica per la valorizzazione del “vincolo interno” (Bertinotti), allora è viva la preoccupazione che le forze di sinistra – condizionate ancora da una visione industrialista della crescita (Ricoveri) – non siano in grado di predisporre un’appropriata agenda innovativa, vivificata da un continuo e approfondito confronto a livello europeo, capace di indicare linee convincenti di lungo periodo e conseguenti politiche di breve periodo per sovrastare le difficoltà oggettive di comunicazione e quelle soggettive elettorali (Gallino, Frassoni).
L’Europa nell’orizzonte dei movimenti. Nel ventaglio di posizioni che vanno dal ritenere che le istituzioni possono costituire una risorsa, a quelle che ne constatano la possibile deriva tecnocratica-autoritaria, a quelle che ne disconoscono la rilevanza come terreno immediato di intervento politico, è pur sempre presente la consapevolezza che la qualità democratica del nostro futuro si gioca sulla prospettiva più ampia degli sviluppi dell’integrazione politica europea. Per questa ragione viene ripetutamente sollecitata l’esigenza di porre il problema della democrazia al centro della riflessione sull’attuale crisi e a riconoscere che una delle maggiori cause della crisi risiede nella mancanza di legittimazione democratica delle istituzioni esistenti (Della Porta). Vi è piena consapevolezza dell’importanza di rinnovare il ruolo sociale dell’Europa da sostituire a quello dell’Europa dei mercati e dei patti di stabilità (De Fiores, ***, Melloni).
La contrapposizione tra queste due visioni dell’Europa è una contrapposizione di forze sociali con diverse interpretazioni del proprio futuro. Lo scontro si svolge ai due livelli, politico e istituzionale, e genera forti iniziative, su entrambi i lati, per acquisire il consenso intorno a trasformazioni istituzionali (della politica fiscale e di quella finanziaria) dai rilevanti contenuti costituzionali (Frassoni). La preoccupazione che non vi sia un limite al deperimento dell’Europa sociale se si permette all’attuale classe politica europea di proseguire nella benevola disattenzione nei confronti dei caratteri qualitativi dello sviluppo è la principale sollecitazione a sostenere la richiesta di rinnovamento di un’Europa socialmente più avanzata, rinnovamento che costringa questa, o una nuova, classe dirigente europea, a riqualificare gli attuali connotati sia del modello che del personale politico (Gianni, Kaldor). La valutazione che nell’attuale società europea non appare diffuso e prevalente l’obiettivo dell’Europa sociale è elemento che dovrebbe rendere consapevoli della difficoltà di realizzare l’auspicata riforma delle istituzioni (in particolare rinvigorendo il Parlamento europeo, in quanto organo elettivo) per una più incisiva politica economica (Palma-Leon-Romano-Ferrari). Appare quindi urgente un impegno politico-culturale di medio periodo e di largo raggio per dar vita a una prospettiva che trovi nella crescita della cittadinanza attiva e nello sviluppo sociale auto-organizzato (Viale, Ricoveri) le energie per contrastare i processi che da tempo mirano a svuotare lo Stato sociale, strumento reale della cittadinanza europea (Mortellaro).