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Federico Caffè e la crisi del welfare state

A dieci anni dall’esplosione della Grande Crisi quali sono gli spazi possibili per un intervento pubblico. Un volume collettivo appena uscito per Asterios analizza i vari scenari

Federico Caffè, trent’anni fa, individuò le tendenze della trasformazione neoliberale, ma non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata. Solo in seguito si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico” (Ramonet 1995) aveva tolto l’ossigeno all’auspicabile controtendenza basata sulla “public cognizance”.

Le vicende finanziarie – della finanza privata, ma anche di quella pubblica (dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà) – hanno continuato a provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria. Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, piuttosto come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali che come metodo efficiente di finanziamento delle imprese (Caffè 1971, p. 671). Questo atteggiamento ha reso, in seguito, più acuta e radicale la sua critica del dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Egli sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito. Le rendite – riguardo alle quali egli richiama la denuncia keynesiana di “inefficienza sociale” – gli appaiono connaturate con “la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario” (Caffè 2014, pp. 83-84).

I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di ‘aggiustamento strutturale’ imposte dal FMI negli anni Ottanta e, in generale, di “un’economia ‘usuraia’” (ibid., pp. 86-88). La stessa politica (la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali) è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli USA, con il Presidente Clinton, continuavano a indicare la rotta, riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la de-regolamentazione delle attività finanziarie. Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994 fu elaborato da FMI e USA per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio. I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione. La pressione del debito estero insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro portarono alla rovina l’economia argentina, predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo stato. Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete erano stati decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – ed ebbero, per la ex DDR, conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina.

Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica. In un articolo del 1985, Caffè, facendo anche riferimento ai pareri di diversi economisti, aveva indicato alcuni punti critici, tanto fondamentali quanto, purtroppo, sottovalutati. L’integrazione europea avrebbe dovuto, a suo avviso, adottare “idonee e coordinate misure di politica economica” (Caffè 2014, p. 146) contro la disoccupazione e la disuguaglianza, controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, egli osserva, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli stati membri sugli altri. Il problema è, in effetti, se si realizzerà “un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette” (ibid., p. 150). Ora sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi. Nell’articolo di Caffè viene rilevata la tendenza verso un’Europa “strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri”, contraria al permanere di “settori pubblici dell’economia”, soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere “un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali”, le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi (ibid., pp. 152, 146 e 149).

La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata. La sinergia tra le norme, e soprattutto le pratiche, dell’UE e la trasformazione neoliberista è profonda ed efficace. La moneta è stata resa autonoma dallo stato, sia pure non nella forma più estrema della “libera concorrenza tra le banche private di emissione”, secondo la formula che Caffè (2014, p. 56) cita dal saggio Denationalisation of Money pubblicato da Hayek nel 1976. Ecco “una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo”, commenta Caffè (ibid.), rilevando la coincidenza della concezione di Hayek con quella ottocentesca di Ferrara. Una corrispondenza viene mostrata ai nostri giorni da Claus Thomasberger (2015) fra le istituzioni della UE e l’ordinamento internazionale delineato da Hayek (1937) e da Robbins (1937), che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali. Secondo tale progetto, i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi. Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Le istituzioni democratiche devono avere, sostiene Hayek, semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti; e l’unione, quella di impedire l’interferenza dei singoli stati nell’attività economica (cfr. Thomasberger 2015, p. 193).

Le idee di Hayek e Robbins hanno avuto infine successo. In primo luogo, tuttavia, sia la persistenza secolare dell’ideologia liberista sia la sua speciale efficacia in certi periodi vanno spiegate: la prima, con il vincolo del profitto, quale caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica; la seconda, con fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali. In secondo luogo, il neoliberismo è bensì un successo di tale ideologia: ma un successo paradossale, poiché tratti fondamentali di essa – l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui – restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario.

Nel caso dell’UE, mentre la liberalizzazione della circolazione delle merci, delle attività finanziarie e dei movimenti dei capitali è stata universalmente imposta, le politiche dei singoli stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale. Anzi, si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da ‘paradisi fiscali’. Capita che la stesura di rapporti sui ‘beni comuni’ sia affidata a grandi società private, per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business. Viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso. La privatizzazione investe anche attività che costituiscono monopoli naturali, anche i beni comuni, le public utilities, la formazione e l’assistenza (sanitaria e sociale) (v. p. es. Frangakis et al., eds, 2010). Alla riduzione delle pensioni e dei servizi sociali fanno riscontro la forte diminuzione della progressività delle imposte dirette e l’aumento di quelle indirette e delle tasse. Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione. Quel che ciò significhi si vede, per esempio, nei dati seguenti, in cui vengono confrontati due sistemi di assistenza sanitaria, il primo prevalentemente pubblico e universalista, il secondo prevalentemente privato e individualistico. Nel 2014 la spesa sanitaria (pubblica e privata) pro capite è stata di $ 4950 in Francia e $ 9403 negli Stati Uniti d’America (a parità di potere d’acquisto). La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del PIL dei due Paesi. La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli USA (World Health Organization, 2016). Dunque, negli USA, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del PIL, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre.

La disoccupazione, pur essendo un problema sistemico, che riguarda almeno 30 milioni di persone nell’UE, tende a venir affrontata con politiche di ‘attivazione’ e di ‘workfare’ rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro. La contrattazione collettiva va scomparendo. La ‘flessibilizzazione’ del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi.

Tutto ciò corrisponde al credo neoliberale, cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi. I risultati sono, oltre alla tendenza depressiva, l’aumento della disuguaglianza, lo smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e l’accentuarsi della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli stati membri dell’Unione. Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui. La sovranità popolare attraverso il parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, viene seriamente compromessa, sia dai governi ‘tecnici’ e di ‘grande coalizione’ sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori. Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono.

Il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione – corrispondente ai propri interessi o almeno al proprio modo di intenderli – della crisi politica ed economica iniziata negli anni Settanta. Essa ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia, e ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate. La nuova economia si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano. Vi è poi la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli sottratti alla gestione pubblica, menzionati qui sopra, ci sono l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali. Investimenti di questo tipo consentono bensì a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività. Come scrive David Harvey (2005, p. 159), il principale risultato del neoliberismo è stato di “trasferire più che creare reddito e ricchezza”: un’“accumulazione mediante espropriazione”.

Critici radicali della trasformazione neoliberista cercano la spiegazione della sua origine e dei suoi fallimenti nella dinamica contraddittoria e nell’inevitabilità della crisi, che caratterizzano l’accumulazione capitalistica. Si può dire in generale che non c’è rimedio – specialmente fra quelli adottati dal neoliberismo – che non produca anche o in seguito effetti contrari. L’indebitamento pubblico e privato serve a sostenere, insieme con la domanda, un certo livello di attività, ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria: essa genera infatti rendita finanziaria ed esigenza di ‘austerità’, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale. Wolfram Elsner (2015) dimostra che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza ecc.). Anche per questo tali politiche risultano controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte.

Secondo Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi, che è insito nel fatto che, come scrive Veblen (1994 [1901], p. 286), con il capitalismo le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico. Comunque, osservano Lohoff e Trenkle (2012, p. 19), la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito. Prima o poi “deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio”.

Depressione e sovraccumulazione derivano anche dall’aumento dei costi nel medio e lungo periodo, causato dal tentativo di scaricarli sull’ambiente naturale e umano per aumentare, immediatamente, il profitto atteso dagli investimenti e quindi gli investimenti stessi. A ciò si riferisce James O’Connor (1991) con il suo concetto di “seconda contraddizione del capitalismo” – la prima essendo la tendenza alla sovraccumulazione. Egli ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo. In effetti, la tendenza verso un rapporto contro-adattivo del sistema economico con l’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda guerra mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale, e più ancora nell’epoca neoliberale, in conseguenza della cosiddetta de-regolazione e della crisi, sia essa strisciante o conclamata. La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione.

Esiste una via d’uscita?

Colin Crouch (2013) immagina una possibile “socialdemocrazia come la forma più alta del liberalismo”, mediante la quale il capitalismo verrebbe reso “adatto alla società”. Ma, a parte la difficoltà costituita in generale dal fatto che il capitalismo stesso costituisce la struttura e la dinamica della società, la minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch. La lotta di classe di tale minoranza risulta vincente. Elsner, nello studio citato qui sopra, ritiene che lo smantellamento progressivo delle procedure democratiche sia necessario, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini del vitale aumento della massa (se non del saggio) di profitto.

Ci sarebbero in effetti, secondo Wolfgang Streek (2014), riforme alternative rispetto a quelle neoliberiste, le quali generano circoli viziosi che minacciano l’esistenza stessa del capitalismo. Egli è convinto che il capitalismo abbia l’esigenza di istituzioni regolative. Queste, bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, che Polanyi chiama “merci fittizie”, consentirebbero di combattere i “cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato”, cioè “la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale” (ibid., p. 55). E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta “un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo” (ibid., p. 64).

Il problema è che riforme tipicamente keynesiane quali il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito sono, attualmente, non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento. Le passate illusioni di un’economia ‘mista’ o di una ‘terza via’ sono cadute. Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma, mentre mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive.

Il sistema finanziario, per esempio. Che cosa potrebbe dire oggi Federico Caffè, il quale, di fronte a una situazione incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta (v. p. es. Barak 2017), osservava che “l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo (che, anzi, sono spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico)”? (Caffè 2014, p. 108) Traspariva già, in diverse sue considerazioni, specialmente nei suoi ultimi anni, l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico; di paesi dominanti che tendono alla prepotenza; di una politica segnata da servilismo e inefficienza; di una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza.

Occorrerebbero ulteriori ricerche, e un titanico lavoro di organizzazione politica, per capire quali politiche potrebbero, almeno, salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica. Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo “a un punto di svolta globale” – scrivono John Bellamy Foster and Fred Magdoff – riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che “un’organizzazione sociale più razionale” implicherebbe “una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano ‘socialismo’ e massimamente temono e denigrano” (Bellamy Foster e Magdoff 2009, pp. 138-140).

 

Il testo pubblicato è un estratto dell’intervento di Michele Cangiani nel volume ‘Stato sociale, politica economica, democrazia‘ appena uscito per Asterios.