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Europa 2020 e noi

Come si si ricostruisce l’infrastruttura della piena occupazione? Il Def del governo accoglie solo in parte la sfida delineata dall’Unione Europea con il programma Europa 2020. Perchè mentre l’Europa prefigura il governo dei processi di cambiamento, l’Italia li de-regola lasciandoli al mercato

Prefigurare delle buone politiche economiche e industriali in particolare significa studiare cosa si nasconde dietro i movimenti dei redditi, dei prezzi e della produzione; nello sviluppo c’è qualcosa di diseguale: gli investimenti nella tecnologia. La riflessione supera la distinzione statistica tra spesa in investimenti e spesa in ricerca e sviluppo, indagando le conseguenze che gli investimenti e la spesa in ricerca e sviluppo, che rimane una declinazione del progresso tecnico, hanno sulla struttura e la composizione del reddito: “in una analisi dinamica lo sviluppo economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione e che determina cambiamenti nelle forme di mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei prezzi” (Sylos Labini, 1993). Non si tratta di un generico aumento degli investimenti o di un altrettanto generico ritmo dell’innovazione tecnologica. Il progresso tecnico non è (solo) l’invenzione di una nuova macchina o di un nuovo principio fisico o meccanico: è la variazione dell’organizzazione economica di una unità produttiva, quindi dell’economia nel suo insieme: “supponendo l’esistenza contemporanea di più tecniche non superiori in un momento determinato, l’introduzione del progresso tecnico si esprimerà nella creazione di una nuova tecnica superiore, non di un intero spettro di tecniche, che non è nelle intenzioni né del tecnico né dell’imprenditore di ottenere; e a partire dal momento in cui la prima tecnica superiore è stata introdotta nell’economia è logico arguire che solo le tecniche superiori verranno successivamente scelte. […]. Lo sviluppo economico avviene nel tempo […],. la continuità cronologica impone che ciò che è valido per la prima scelta lo sia anche per tutte le scelte successive” (Leon, 1965). Alla fine lo sviluppo è l’esito delle “tecniche superiori di produzione”, e la politica pubblica gioca un ruolo specifico: quello di portare avanti con successo una redistribuzione settoriale dell’occupazione da settori in declino verso settori in espansione, facendo del progresso tecnico, del reddito e del fattore lavoro, l’infrastruttura portante del ben-essere. Stiamo analizzando l’infrastruttura dello stato sociale: la piena occupazione, senza la quale non si potrebbe “immaginare” un “piano di protezione sociale”(1).

L’Europa nel corso degli anni ha sviluppato alcune linee d’intervento per conseguire una crescita economica sostenibile, una maggiore integrazione delle politiche economiche e sociali, una migliore competitività internazionale (Pianta, 2013). Le principali linee d’intervento sono rintracciabili da prima nel libro bianco di Delors (CEC, 1993), nel piano di coesione sociale di Lisbona-Agenda 2000 (CE, 2000; EC, 2000), nella strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva Europa 2020 (CE, 2010). Più precisamente Europa 2020 declina alcuni grandi orizzonti, supportati da obiettivi-indicatori specifici (2). Restando al tema delle politiche economiche e industriali, possiamo intercettare alcuni snodi di struttura (CE, 2010):

  1. L’Unione dell’innovazione” come strumento per migliorare le condizioni economiche generali, così come l’accesso ai finanziamenti per la ricerca e l’innovazione per industrializzare nuovi prodotti e servizi provenienti dalle idee innovative;

  2. Youth on the move“, ovvero la necessità di migliorare i sistemi d’insegnamento e agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro;

  3. Un’agenda europea del digitale” tesa ad accelerare la diffusione di “internet ad alta velocità” e sfruttare i vantaggi di un mercato unico del digitale per famiglie e imprese;

  4. Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse” per sganciare la crescita economica dall’uso delle materie prime, favorire il passaggio a un’economia a bassa emissione di carbonio, incrementare l’uso delle fonti di energia rinnovabile, modernizzare il settore dei trasporti e l’efficienza energetica;

  5. Una politica industriale per l’era della globalizzazione“, specialmente per le PMI, capace di sviluppare una base industriale solida e sostenibile, in grado di competere su scala mondiale;

  6. Un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro” al fine di consentire alle persone di migliorare le proprie competenze su tutto l’arco della vita, aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e, in fine, conciliare meglio l’offerta e la domanda di manodopera, anche tramite la mobilità dei lavoratori.

La strategia descritta si rafforza e completa con la comunicazione della Commissione “For a European Industrial Renaissance” (EC, 2014). Un documento di fondamentale importanza per ricostruire l’infrastruttura della piena occupazione. Nella comunicazione si sottolinea come la crisi abbia rimesso al centro del dibattito politico l’economia reale e la necessità di una forte struttura industriale, soprattutto di quella ad alta e media tecnologia: automotive, machinery and equipment, pharmaceuticals, chemicals, aeronautics, food. Il cuore del progetto è l’industria e la generazione di conoscenza: “innovation and technological advancement will remain the main source of competitiveness for EU industry”. Vale la pena sottolineare i grandi clusters di manifattura 2020: manifattura avanzata, tecnologie abilitanti (batterie, materiali intelligenti, ecc.), prodotti a base biologica, veicoli e navi intelligenti, edilizia sostenibile e riuso delle materie prime, reti intelligenti.

In qualche misura la Commissione Europea, almeno dal lato delle policy industriali e della ricerca e sviluppo, ambientale ed energetica, riconosce che “la crisi non è stata solo un episodio isolato, tale da consentirci un ritorno alla precedente normalità. Le sfide a cui si trova di fronte l’Unione sono più temibili rispetto al periodo che ha preceduto la recessione, mentre il nostro margine di manovra è limitato. Per di più, il resto del mondo non rimane certo fermo a guardare” (CE, 2010).

Sarebbe molto interessante osservare come e quanto dei “precetti” di politica industriale europea l’Italia intenda adottare. L’ultimo documento programmatico del governo (MEF, 2014) declina alcune misure di politica economica, che solo in parte raccolgono la sfida della Commissione. Tra le principali misure troviamo il programma di cessione delle partecipate pubbliche per un ammontare non inferiore a 11 mld di euro; l’attrazione di capitali stranieri; il sostegno all’imprenditoria giovanile; la semplificazione delle norme fiscali, autorizzative e giudiziarie al fine di creare un ambiente amico per gli imprenditori; nuove agevolazioni fiscali per l’assunzione di giovani, per la ricerca e sviluppo e la produttività via contrattazione di secondo livello. La misura cardine per sostenere la competitività internazionale delle imprese, e la domanda interna, è la riduzione del così detto cuneo fiscale e il rafforzamento della flessibilità in entrata nel mercato del lavoro. Sono inoltre previste ulteriori risorse finanziarie per pagare i debiti pregressi della pubblica amministrazione verso i privati.

In generale la politica economica pubblica delineata dal governo lascia al mercato la selezione delle politiche industriali. Compito del governo è quello di agevolare il lavoro del mercato via riduzione del peso e del ruolo della spesa pubblica come strumento economico del cambiamento. In sintesi: l’UE prefigura il governo dei processi di cambiamento, l’Italia li (de)-regola, lasciandoli al mercato.

Quando i commentatori economici descrivono la crisi italiana sottolineano alcuni aspetti rispettabilissimi, la contrazione del PIL, trascurando, però, un particolare: il PIL è un indicatore sintetico della capacità di crescita di un paese. Il PIL, infatti, è la somma degli investimenti, dei consumi e della spesa pubblica. La mancata crescita può dipendere dalla carenza di consumi o investimenti, oppure da una stretta della spesa pubblica. Tra tutti gli indicatori del PIL gli investimenti sono la voce più importante. In qualche misura “registrano” lo stato di fiducia dell’economia nel suo insieme. Come direbbe Keynes (1947): “non potete aspettarvi che gli imprenditori si mettano a varare programmi di ampliamenti mentre stanno subendo perdite”. Più opportunamente: “una larga parte delle nostre attività positive dipende da un ottimismo spontaneo piuttosto che da una aspettativa in termini matematici”. In altri termini la contrazione degli investimenti durante una crisi è del tutto legittima. Se la contrazione degli investimenti è legittima, la profondità è direttamente proporzionale alla specializzazione produttiva. Prima della crisi (2008-2013) gli investimenti delle imprese italiane non erano inferiori alla media europea. Rispettivamente 19,8 e 21,1 per cento, ma l’output (PIL) è sistematicamente più basso di ben 5 punti di PIL. Evidentemente una parte degli investimenti delle imprese italiane si traduceva in importazioni. Non è in assoluto un aspetto negativo, ma qualora l’importazione di investimenti diventa strutturale, la capacità di crescere è condizionata dal knowledge sviluppato da altri. Ed è quello che è successo. L’intensità tecnologica degli investimenti dell’Italia, il rapporto tra ricerca e sviluppo e investimenti, è significativamente più basso della media europea (Lucarelli, Palma, Romano, 2013). Diversamente è inspiegabile lo 0,7% di PIL speso dalle imprese in ricerca e sviluppo contro una media europea dell’1,3% e del 2% della Germania. In questo modo si spiega la minore crescita del PIL dell’Italia (3). Per questo si parla di crisi nella crisi dell’Italia. Basta rafforzare la spesa in ricerca e sviluppo? Attenzione al vincolo estero: il saldo commerciale high tech dell’Italia è sistematicamente negativo. In altri termini: ulteriori incentivi alle imprese per la ricerca e sviluppo consoliderebbero la dipendenza tecnologica del paese.

Tanti commentatori sostengono che da questa crisi non si uscirà come siamo entrati. Vero. Alla fine il mercato seleziona le imprese migliori, ma le condizioni di partenza condizionano le risposte delle imprese e degli stati. Tutte le imprese europee sono state interessate dalla crisi, ma l’impresa italiana, in ragione delle debolezze pregresse, è crollata sotto il peso della propria de-specializzazione, a cui ha contribuito la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Come possiamo spiegare, diversamente, il meno 29% di investimenti tra il 2008 e il 2013, contro il meno 0,6% della Germania e il meno 9,5% della Francia? Gli investimenti sono diventati un vincolo alla crescita sia dal lato tecnologico e sia come componente del PIL. Un problema inedito, senza precedenti e di difficile soluzione.

Il retroterra della caduta degli investimenti è la produzione industriale. Abbiamo già ricordato che come si entra in una crisi non è irrilevante. La produzione industriale aggregata (2008-2013 dell’Italia è crollata del 23,4%, diversamente dalla Germania che è diminuita dell’8,3% o dell’area euro del meno 9,4%. È crollata la produzione di beni di consumo? Certamente, ma ai fini della politica industriale è molto più preoccupante la caduta della produzione dei così detti beni capitali (meno 25,4%) e dei beni intermedi (meno 25,9%), diversamente da quanto è accaduto in tutti i paesi di area euro che si sono progressivamente specializzati nella produzione di beni intermedi e capitali. In qualche modo la proiezione della produzione industriale da conto della de-specializzazione dell’industria italiana e della difficoltà che la policy incontra.

Una sfida inedita e speciale per il governo italiano. Per alcuni versi anche affascinante, se solo si “indagasse” la causa della crisi nella crisi dell’Italia.

Bibliografia

CE (2000), “L’occupazione, riforme economiche e coesione sociale. Verso un’Europa dell’innovazione e del sapere” (5256/00), Commissione Europea, Bruxelles.

CE (2010), “Europa 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, COM(2010), Commissione Europea, Bruxelles.

CEC (1993), White Paper Growth, competitiveness, employment. The challenges and ways forward into the 21st century, COM (93) 700, Commission of the European Communities, Brussells, 5 Decembre.

EC (2000), “Agenda 2000: For a Stronger and Wider Union”, COM(97), Commissione Europea, Brussells.

EC (2012), “A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery”, EC, Brussels, 10 ottobre, COM(2012) 582 final.

EC (2014), “Communication for a European Industrial Renaissance”, EC COM 14/2, European Commission, Brussells.

Keynes J.M. (1947), Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, UTET (ed. originale 1936).

Leon P. (1965), L’ipotesi dello sviluppo dell’economia capitalistica, Torino, Boringhieri.

Lucarelli S., Palma D., Romano R. (2013), “Quando gli investimenti rappresentano un vincolo. Contributo alla discussione sulla crisi italiana nella crisi internazionale”, Moneta e Credito, vol.66, n.262: http://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/article/view/10421.

MEF (2014), “Documento di Economia e Finanza. DEF2014”, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Roma, 7 aprile: http://www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/def/.

Pianta M. (2013), “An Industrial Policy for Europe”, Paper alla “19th Conference on Alternative Economic Policy in Europe”, Londra, 20-22 settembre, in Global Research: http://www.globalresearch.ca/an-industrial-policy-for-europe/5362751.

Pini P. (2013a), Lavoro, contrattazione, Europa, Ediesse, Roma.

Pini P. (2013b), “What Europe Needs to Be European”, Economia Politica, vol.30, n.1, pp.3-12.

Sylos Labini P. (1993), Progresso tecnico e sviluppo ciclico, Laterza, Roma-Bari.

Note

(1) W. Beveridge è nominato nel 1941 dal Ministro per la ricostruzione (A. Greenwood) presidente di una commissione governativa per mettere ordine nel settore delle assicurazioni sociali. Il governo inglese pur sotto assedio tedesco aveva posto le basi dello stato sociale moderno.

(2) Il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro; il 3% del PIL dell’UE deve essere investito in R&S; gli obiettivi “20/20/20” in materia di clima/energia devono essere raggiunti, compreso un incremento del 30% della riduzione delle emissioni se le condizioni lo permettono; il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve essere laureato; 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio di povertà.

(3) Una avvertenza: la spesa in ricerca e sviluppo non è bassa o alta. Le imprese sono interessate a realizzare ricerca e sviluppo per “conquistare” prima di altre quote di mercato. Diversamente i brevetti non servirebbero a nulla. Se le imprese non fanno ricerca e sviluppo significa che la specializzazione produttiva non necessita lo sviluppo di ricerca.