Le uscite di Grillo sull’euro riaccendono la discussione. Ma è bene vedere la questione nella sua reale portata: nelle condizioni date, in ciascuno dei due casi a pagare saranno i salari reali. Si può discutere all’infinito sul “meno peggio”. Oppure cambiare rotta
La questione della permanenza dell’Italia nell’area dell’euro, latente nel dibattito su come uscire dalla crisi, è stata rilanciata anche in questi giorni da Grillo che pronostica l’uscita del nostro paese dalla moneta unica europea come un esito fatale. Sono note le posizioni, a destra e a sinistra, che attribuiscono all’euro, e alla Germania che ne condiziona la gestione, le difficoltà che incontrano i paesi dell’euro-zona economicamente più deboli, tra cui il nostro paese. Si tratta di un’interpretazione che, per l’evidente fondamento economico che la sorregge, prospetta come inevitabile l’uscita di questi paesi dalla moneta unica; trattandosi di un problema di natura strutturale, una tale soluzione rischia di confondere gli effetti con le cause e di non essere pertanto risolutiva.
Il nostro paese presenta una scarsa o declinante competitività nei confronti delle produzioni estere e un pesante debito pubblico ritenuto, stante le condizioni attuali, difficilmente sostenibile dai mercati finanziari. Il combinarsi di questi due fattori determina la nostra vulnerabilità dato che la debolezza delle condizioni produttive aumenta il rischio che in prospettiva non siamo in grado di soddisfare gli impegni del servizio del debito (pubblico e privato); d’altra parte, un maggiore livello del rischio, traducendosi in un peggioramento delle condizioni di finanziamento del debito, aumenta gli oneri a carico degli enti pubblici e delle imprese peggiorando le prospettive produttive e della domanda. Il contesto dei nostri rapporti europei ha quindi un ruolo particolarmente delicato poiché qualsiasi shock, come lo è stata la crisi finanziaria di origine esterna, fa degenerare la situazione in un processo cumulativo di regressione economica e sociale.
La questione di cosa potrebbe succedere al paese se decidesse di uscire dall’euro ripristinando la sua moneta nazionale – in un contesto di tassi di cambio fluttuanti con la moneta europea – riceve risposte decisamente opposte.[1] Va riconosciuto innanzitutto che non si può mettere in discussione che la partecipazione alla moneta unica generi difficoltà produttive data l’impossibilità di compensare con la svalutazione della moneta interna una situazione di scarsa competitività; così come si deve ammettere che sganciandosi dall’euro le condizioni finanziarie del paese possono peggiorare rapidamente per il maggior premio per il rischio richiesto sui titoli del paese a causa dell’aumentata incertezza delle sue prospettive economiche che ne compromettono l’ordinato risanamento finanziario (pubblico e privato). Pur essendo le due implicazioni ampiamente condivise, le conclusioni cui si giunge possono essere radicalmente diverse: a posizioni ottimistiche per cui la crescita produttiva sarebbe immediatamente rilanciata dalla maggior libertà nell’utilizzare politiche monetarie e valutarie, si contrappongono posizioni pessimistiche che mettono l’accento sull’aggravamento delle condizioni finanziarie che porterebbe il paese letteralmente alla catastrofe. Nelle due contrastanti argomentazioni gioca in maniera evidente il diverso peso attribuito a uno o all’altro dei due termini congiuntamente presenti nel processo cumulativo; mentre nel caso favorevole si esalta la possibilità che una soluzione alle difficoltà produttive riesca a contenere le sfavorevoli implicazioni finanziarie, nel caso sfavorevole si dà per acquisito che la rapidità e l’intensità con la quale queste si verificano sono tali da rendere irrilevante qualsiasi stimolo all’attività produttiva.
Valutare quale scelta – se rimanere o uscire dall’euro – sia la più appropriata, non può però avere come riferimento un contesto ristretto ai rapporti del paese con i soli membri dell’euro-zona. La valutazione deve tener conto del contesto più ampio di competizione globale (reale e finanziaria) quale fattore che condetermina la situazione presente e che condiziona quella futura qualsiasi sia la decisione sull’euro. In effetti, dovendo comunque operare all’interno del contesto globale, le difficoltà competitive che incontriamo per rilanciare la crescita produttiva richiede di recuperare spazio sui mercati (europei e) internazionali e questo impone, particolarmente nel breve periodo, una riduzione (reale) dei suoi costi produttivi. In altre parole, stante le esistenti condizioni produttive strutturali, il paese deve accettare sostanzialmente una svalutazione reale dei salari, per effetto dell’inflazione nel caso in cui esca dall’euro, per la riduzione dei salari nominali nel caso mantenga la moneta unica. Certamente i tempi e l’intensità di tale contrazione salariale sarà diversa se il sistema produttivo riesce a ridurre gli altri costi che gravano sulla produzione o se innova la qualità del prodotto; alternative che richiedono comunque tempo e non sono in grado di contrastare – in entrambe le situazioni – una prospettiva deflattiva dei salari. Ciò evidentemente non implica che le due diverse traiettorie siano le medesime per rapidità e per intensità per quanto riguarda l’evoluzione del prodotto e del reddito, ma soprattutto per quanto riguarda il conflitto sociale e settoriale che le accompagna. Su questi aspetti l’analisi non offre conclusioni definitive; esse non possono che essere molto incerte per i molti fattori che ne condizionano la dinamica. Si può comunque ritenere che – nelle attuali condizioni globali, incluso il regime di mobilità internazionale dei capitali – la situazione nel medio periodo non potrà essere molto diversa nei due casi: si tratta di subire la pressione a sottostare alle regole di mercato imposte dalla concorrenza globale o di adattarsi alla disciplina europea quale interpretazione della disciplina globale. Rimanendo all’interno degli attuali rapporti di forza europei e globali e degli obiettivi di competitività e crescita che da essi promanano, non sembra vi siano alternative alla svalutazione salariale: l’alternativa sembra ridursi a come e in quale compagnia si preferisce affrontare il vincolo esterno.
Il rifiuto di ammettere che sia il deperimento delle relazioni di lavoro a garantire da solo la flessibilità dell’intero sistema economico e a rilanciare il processo di crescita in condizioni di stabilità sociale impone di dover individuare una strategia di politica economica capace di intrecciare la difesa delle condizioni salariali e occupazionali con una politica che garantisca, nei tempi adeguati, di migliorare la competitività dell’apparato produttivo mantenendo sotto controllo la finanza pubblica. Individuare e perseguire una tale politica è comunque essenziale sia che il paese decida di rimanere o di abbandonare l’euro.
È per questo che la questione si deve spostare, come da tempo si sostiene su queste pagine[2], a livello di politica economica europea. La strutturale debolezza produttiva dei paesi periferici costituisce un fattore strutturale di debolezza politica dell’Unione e dell’euro-zona in particolare. L’averlo trascurato è l’elemento che giustifica il giudizio nettamente negativo sulle politiche europee finora perseguite concentrate solo sul risanamento finanziario, al quale sono state subordinate la crescita dell’occupazione e l’equilibrio sociale. è un orientamento che aggrava le cause di tali squilibri, per cui, di fronte alle inevitabili difficoltà che crea l’appartenenza all’euro-zona, sembra si ponga solo l’alternativa secca tra accettare le pesanti conseguenze del risanamento imposto dalla Troika o il recedere dalla moneta unica.
Nell’attuale gestione di politica economica non sembra trovare il dovuto ascolto l’esigenza di porre radicalmente in discussione l’obiettivo perseguito dall’attuale classe dirigente europea di forzare le condizioni strutturali dei paesi deboli affinchè realizzino avanzi con l’estero attraverso la stagnazione salariale. Questa strategia non può costituire una prospettiva soddisfacente né per i singoli paesi (nemmeno per quelli dell’area forte), né per l’Europa nel suo complesso. Le difficoltà economiche strutturali e le loro ricadute sociali potrebbero essere meglio affrontate – all’interno dell’Unione – solo attraverso un’azione comune che riesca a mettere in discussione gli obiettivi e gli strumenti adottati dalle attuali istituzioni politiche europee rovesciando il segno delle strategie in atto anche per quel loro connotato che ne denuncia il preoccupante deficit democratico.
La prospettiva che l’Europa è in grado di offrire è il reale discrimine della scelta del paese tra un percorso che, uscendo dalla moneta unica, voglia contare sulle proprie forze disponendo peraltro di un governo solidamente deciso a riformare in senso progressivo economia e società e un percorso altrettanto complesso che, rimanendo nell’euro, faccia leva sulla pressione comune delle forze intellettuali e dei movimenti sociali per modificare in senso più progressivo gli obiettivi, le politiche dell’Unione.