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Espansionismo senza copertura

Il presidente Usa regala a Putin ogni concessione prima ancora che il negoziato sull’Ucraina sia convocato e umilia l’Europa, insieme al Regno Unito. Non si sa cosa resti dell’Alleanza Atlantica e servirebbe un dibattito non ragionieristico sulla difesa geostrategica, che però non si vede emergere alla conferenza di Monaco.

«Non possiamo parlare di Ucraina senza l’Ucraina, né di Europa senza l’Europa», scandisce il ministro degli esteri ucraino. Donald Trump e Vladimir Putin si sono allineati: ecco l’inedito storico del presidente Usa che, elevandosi a pacificatore globale, regala al presidente russo ogni concessione prima ancora che il negoziato sull’Ucraina sia convocato. Una sorta di spartizione criticata da Berlino e Parigi (Roma al solito tace), con Washington che rifiuta all’Ucraina un ruolo paritetico nel processo di pace. Trump seppellisce sbrigativamente la politica estera repubblicana da Eisenhower a Bush, mette all’angolo il suo stesso inviato speciale, risultato sgradito a Mosca e conclude che la Russia, che «ha combattuto per quella terra (ucraina) perdendo molti soldati», abbia diritto a tenersela.

A Putin non è parso vero veder umiliata l’Unione europea, esclusa dal tavolo di pace, al pari del Regno unito. La borsa di Mosca festeggia, fiutando la fine delle sanzioni. A girare il coltello nella piaga, la conferma di Tulsi Gabbard, assai apprezzata al Cremlino, quale capo della Dni (l’intelligence nazionale americana).

A spiegarci meglio arriva il neo-segretario alla difesa, Pete Hegseth, quello che porta tatuato il Deus vult di Urbano II alle Crociate: «Le crude realtà strategiche impediscono agli Stati uniti di essere il principale garante della sicurezza in Europa». Subito accorrono i pompieri, gli interpreti del pensiero di Hegseth: in nessun modo tali parole implicano la fine dell’ombrello nucleare americano, garanzia di last resort. Esse vanno andrebbero intese rispetto alle forze convenzionali. Ma tutto parla di come i calcoli Usa sulla deterrenza siano cambiati, e l’Europa venga lasciata a fare i conti con sé stessa.
Nessuno è sorpreso dal fatto che l’Ucraina, che a fine Guerra Fredda accettò il proprio disarmo nucleare, dovrà cedere parti del proprio territorio, né che Trump punti a far razzia delle terre rare dalle miniere ucraine. Colpisce di più che non si parli di garanzie di sicurezza (quale che sia la condotta di Mosca domani) e men che meno di un ruolo per la Nato, oggi fortemente mobilitata a supporto dell’Ucraina. Il contraccolpo a Kyiv sarà forte, tanto più se Trump insisterà per elezioni subito, con il rischio che il paese, già provato, vada a pezzi.

Il capo della politica estera dell’Ue, Kaja Kallas, prova a battere un colpo tardivamente, annunciando che l’Europa continuerà a sostenere l’Ucraina se questa si opporrà ai termini di un accordo di pace stipulato tra Russia e Stati uniti. In un quadro minato da crescenti tensioni e riallineamenti, l’Europa dovrebbe dunque prepararsi ad ogni eventualità, guerra inclusa, al di fuori del quadro dell’Alleanza atlantica a cui è ancorata: la Nato oggi ha cinque comandi su sette (incluso quello di Napoli) a guida americana. Una drastica riorganizzazione lungo linee di autonomia strategica scaverebbero un solco profondo. Del resto, gli eserciti convenzionali più forti, nell’Europa di oggi, sono sull’Est – dalla Finlandia alla Polonia e la stessa Ucraina.

È a partire da questo stato di cose che si dovrà fare i conti nella dissuasione dell’espansionismo russo in futuro. Diversi politici baltici a tal proposito minimizzano, sostenendo che siamo semplicemente davanti alla fine del free riding europeo: dovremo iniziare a pagare a prezzo pieno la nostra sicurezza, a partire dalla nostra frontiera orientale e dunque dall’Ucraina. In Italia, fra chi ora cerca ragioni per il proprio «noi l’avevamo detto», dipingendo Trump come araldo di pace, viene sottolineata l’occasione che l’Europa avrebbe per mettere insieme le proprie difese militari e addirittura risparmiare. Abituati alla disciplina neoliberale e ai tagli lineari, pensiamo che la difesa europea, nel quadro che va delineandosi, sia in fin dei conti una questione ragionieristica: tu spendi 3,5% per la difesa, noi spendiamo l’1,5%, ed eccoci già al 2,5% come media. Se poi tagliamo duplicazioni e rami secchi, via che si decolla. Insomma, al prevalere con una stoccata in un salotto televisivo viene sacrificato il dibattito sugli enormi costi, generativi di un diverso patto sociale, che comporta il salto di paradigma strategico che stiamo vivendo, con tanto di ridefinizione di cosa sia un’alleanza.

Intanto, nell’imminenza delle elezioni tedesche, Monaco oggi è capitale della diplomazia internazionale con la sua annuale Conferenza sulla Sicurezza. Si sprecano i paragoni con la Conferenza di Monaco del 1938, che permise alla Germania nazista di annettere la regione cecoslovacca dei Sudeti, abitata dalla minoranza tedesca, con la Cecoslovacchia, non invitata, costretta ad accettare per evitare la guerra. In realtà, il conto amaro che arriva oggi per l’Ucraina e l’Europa è in larga parte il prodotto di tre anni di cieca fiducia nella superiorità morale, militare ed economica di un Occidente liberale che si è rivelato minato da crescenti lacerazioni, e incapace di raccordarsi politicamente con il resto del mondo. Questo Occidente non ha retto contro un nemico che si è distinto per aver sbagliato un po’ tutti i calcoli, oltre che per una condotta miserabile della guerra. Questo nemico ha retto puntando soprattutto su tratti più autoritari e sulla propria capacità di sostenere spaventosi costi umani, economici e sociali. Trump, che ha recentemente parlato di un milione e settecentomila morti in questa «guerra ridicola», all’inizio dell’invasione militare dell’Ucraina non esitò a definire Putin «un genio».

Articolo pubblicato anche da il manifesto del 14 febbraio 2025