Il premio per l’economia va a una non-economista: un ricononoscimento agli studi interdisciplinari. E alle risorse della società civile
L’assegnazione del Premio Nobel per l’economia ad Elinor Ostrom rappresenta un fatto di grande importanza, su diversi piani.
Innanzitutto, su un piano generalissimo di metodo, merita di essere sottolineato il fatto che Elinor Ostrom non è tanto una economista nel senso classico del termine (e men che meno una di quegli studiosi dell’economia che formulano astrusi modelli autoreferenziali, troppo spesso premiati nel passato dall’Accademia di Svezia); è, piuttosto, una political scientist che usa gli strumenti dell’economia, ma non solo quelli: anche la politologia, la sociologia, il diritto. Una scienziata sociale a tutto tondo, che sa studiare un problema senza farsi ingabbiare dalle ortodossie e dagli schematismi delle tribù accademiche.
Insomma, con la Ostrom il premio Nobel per l’economia va a una non economista: e questo è un fatto da meditare, in tempi nei quali su ruolo e responsabilità degli economisti infuria una polemica internazionale certo più seria di quella, solo parzialmente coincidente, in atto in Italia.
Con l’opera della Ostrom viene premiato un approccio interdisciplinare ai problemi che è praticamente assente nel nostro Paese e che, anche più in generale, è da troppi decenni minoritario in tutto il mondo.
Senza scomodare l’antico anatema di Ortega y Gasset contro la «barbarie dello specialismo», pare di poter dire che il premio attribuito alla Ostrom giustifica pienamente una ripresa del dibattito su metodo e contributo delle scienze sociali alla soluzione dei problemi della modernità. Metodo e contributo cruciali per far riprendere quota al dibattito pubblico e ridare dignità di contenuti alla stessa progettualità politica, e fors’anche per sollecitare la nascita di un nuovo umanesimo, che appare ormai ineludibile.
Venendo al merito dell’opera che è valsa alla Ostrom il prestigioso riconoscimento, ovvero «Governing the commons», occorre preliminarmente sottolineare (ancora su un piano di metodo, ma più specifico) che quest’opera, incentrata sul tema dei regimi di gestione collettiva (ma non pubblica in senso statalistico) di beni scarsi, segna, riletta a posteriori, un cambio di paradigma rispetto alla secolare dialettica tra le categorie ideologiche dello «Stato» e del «Mercato», intesi come presunti «grandi regolatori unici» per la soluzione dei problemi di interesse collettivo.
Non a caso, infatti, l’opera è stata pubblicata nel 1990, e dunque alla fine del decennio di massima diffusione di un certo pensiero unico mercatista, esasperato fina a farne un dogma illiberale. Quel decennio ha probabilmente visto lo «scontro finale» tra i dogmi dello «Stato» e del «Mercato», dal quale entrambi sono usciti sconfitti: il primo con la perdita definitiva di fiducia nella sua capacità di garantire l’einaudiano riequilibrio dei punti di partenza attraverso le vecchie forme del costruttivismo sociale, del dirigismo istituzionale, della dittatura burocratica; il secondo con l’evidenza della sua inadeguatezza a far fronte da solo ai grandi problemi di interesse collettivo, sulla scorta della sola molla del self interest smithiano, come avrebbe voluto una certa rivalutazione del mito della «mano invisibile».
A fronte di questa duplice sconfitta, assume dunque un rilievo enorme la rassegna dei casi di virtuosa gestione cooperativa dei commons che la Ostrom ha offerto nella sua opera principale. E ciò non solo nello specifico delle evidenze che se ne possono trarre, in merito a condizioni e fattori critici di successo di simili modalità regolative collettive ma non «pubbliche ».
Infatti, nell’età del passaggio dal paradigma del big government novecentesco a quello ancora in fieri della public governance e dello «Stato modesto» (per dirla con Crozier, e dunque non dello «Stato minimo»), si vanno articolando nuovi modi di costruzione e gestione delle politiche pubbliche, inclusivi e deliberativi, come anche nuovi assetti di conduzione delle funzioni e dei servizi di interesse collettivo, partecipati e non dirigistici: e ciò proprio in ragione della definitiva smitizzazione delle categorie dogmatiche dello «Stato» e del «Mercato».
Proprio in questo sta la novità di certi nuovi assetti pubblico/privato, ma anche la nuova fortuna di modalità di regolazione e programmazione aperte e reticolari, che si esplicano con successo in tante parti del mondo e che caratterizzano il «nuovo» paradigma. Ed è indubbio che i sistemi regolativi dei commons censiti e (per così dire) vivisezionati dalla Ostrom dettino, per la costruzione di simili nuovi assetti, preziose lezioni di metodo, che possono essere utilizzate per la costruzione di nuove e più efficaci politiche pubbliche, ove si sia pronti ad abbandonare i vecchi paradigmi ideologici cogenti.
Infine, nel merito specifico dell’analisi dei commons offerta dalla Ostrom, non si può non sottolineare come, nella prospettiva ormai ineludibile di un’economia sostenibile (e, soprattutto, meno famelicamente divoratrice delle ormai ridottissime risorse naturali del pianeta) lo spirito, il metodo e la stessa sintassi istituzionale di questi sistemi regolativi, spesso molto antichi, possano diventare cruciali strumenti di soluzione di grandi problemi collettivi e modalità efficaci di utilizzo e distribuzione di beni tragicamente scarsi.
Insomma, su tutti i piani (del metodo generale, del metodo specifico e del merito stretto) l’opera della Ostrom giustifica ampiamente il riconoscimento attribuitole e suggerirebbe, anzi, l’apertura di un ben più ampio ed articolato dibattito su come fare scienza sociale e come costruire politiche pubbliche nella modernità. Magari rivendicando la necessità di iscrivere questo sforzo in un ben preciso orizzonte di senso, riportando alla sua ispirazione originaria quella cultura liberale tanto maltrattata negli ultimi venti anni: come fa la stessa Ostrom, che chiude il suo opus magnum rivendicando la continuità di pensiero e di metodo con «autori quali Hobbes, Montesquieu, Hume, Smith, Madison, Hamilton, Tocqueville».
Con la società civile, contro gli idola dello «Stato» e del «Mercato». Anche questo è il Nobel a Elinor Ostrom.