L’Italia è uno dei paesi che ospita più bombe atomiche B1, nelle basi di Aviano e Ghedi. Il network Rete Pace e disarmo promuove la campagna “Italia ripensaci” perché aderisca al nuovo trattato anti atomico in vigore dal 22 gennaio. Mentre si fanno strada le Nuclear Weapon Free Zones.
Era il 6 agosto del 1945 quando un bombardiere statunitense sganciò la prima bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima, radendola al suolo. Tre giorni dopo, identica sorte toccò a Nagasaki. Con la fine del conflitto, però, la nuova arma divenne obiettivo di tanti governi e nel giro di pochi anni Urss, Francia, Gran Bretagna e Cina riuscirono a dotarsene, mentre altri avviavano i loro programmi nella stessa direzione. Per questo nel 1968 fu firmato il TNP (Trattato di Non proliferazione), che entrò in vigore nel 1970 con lo scopo di impedire la diffusione di armi tanto distruttive, procedendo verso un relativo disarmo e un’utilizzo dell’energia nucleare solo a fini pacifici.
Durante la guerra fredda però aumentarono gli arsenali atomici sino ad arrivare intorno alle 70.000 testate nucleari. Mentre alcuni Paesi (Israele, India e Pakistan, non firmatari del TNP) si dotavano di questi terribili ordigni, altri invece vi rinunciavano. Ad oggi, dopo 50 anni dall’entrata in vigore del TNP, possiamo constatare che quantitativamente le testate sono decisamente diminuite: circa 13.000, ma sono nel frattempo diventate più precise, più potenti e tecnologicamente avanzate. Il “club nucleare” ha visto l’ingresso della Corea del Nord, che nel 2003 è uscita dal TNP per dotarsi di un proprio arsenale.
Testate nucleari nel mondo – Stime al settembre 2020
Il nuovo presidente statunitense Joe Biden, modificando la linea del suo predecessore, ha mostrato di puntare ad un’intesa sul tema nucleare con la Russia prolungando, d’intesa con Vladimir Putin, per un quinquennio il Trattato New Start in scadenza proprio questo febbraio. Il New Start era l’ultimo trattato ormai in vigore, dopo la cancellazione di altri accordi e anni di silenzio e di non confronto sul tema.
Ci troviamo di fronte al classico bicchiere mezzo pieno-mezzo vuoto: la riduzione c’è stata effettivamente, ma il disarmo nucleare totale è lungi dall’essere raggiunto. Anzi, i Paesi del club nucleare ne ipotizzano l’uso nell’ambito delle loro dottrine strategiche e, a volte, lo minacciano in occasione di situazioni di crisi internazionali.
Per di più, Paesi alleati e amici degli Stati Uniti a volte sollecitano la permanenza di questo ombrello difensivo nei confronti di eventuali avversari (Russia e Cina in primis), contribuendo a mantenere lo status quo di quest’arma di distruzione di massa.
C’è un però. Da molti anni diversi Stati si sono dichiarati NWFZ (Nuclear Weapon Free Zones), cioè zone libere da armi nucleari, esplicitando la loro decisione di non avere tali armi, non ospitarle e di non farle transitare sul loro territorio. Parallelamente, la società civile a livello internazionale ha avviato una campagna contro di esse, basandosi anche su un documento della Croce rossa internazionale e della Mezzaluna rossa internazionale, che ha messo in evidenza come un conflitto nucleare non avrebbe prodotto né vinti né vincitori, ma solo una catastrofe umanitaria.
Le zone libere da armi nucleari
Tale mobilitazione è culminata nel 2017 con l’approvazione del TPNW ( Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons) da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a cui non hanno però partecipato i Paesi armati nuclearmente e i loro alleati.
Il TPNW è entrato in vigore il 22 gennaio scorso, avendo superato la soglia delle 50 ratifiche. Cosa ha di differente rispetto al TNP? Esso esige non solo un impegno immediato nella distruzione degli arsenali, ma anche a non ospitarle, a non minacciarne l’uso, a non richiederne la protezione.
Insomma, non rinvia ad un tempo indeterminato il disarmo nucleare, ma lo vuole subito, visto che il TNP non è riuscito dopo oltre mezzo secolo ad eliminare la minaccia dell’autodistruzione della nostra civiltà.
I Paesi armati nuclearmente e i loro alleati si erano rifiutati precedentemente di partecipare persino alle discussioni sul TPNW. Per di più gli Stati Uniti dalla guerra fredda hanno distribuito diverse decine di queste bombe (del tipo B61) sul territorio di Paesi amici, nel caso di un’eventuale conflitto nucleare in Europa.
E’ di pochi giorni fa la notizia proveniente proprio da Hans Kristensen, uno dei maggiori esperti al livello internazionale del settore, che le bombe B61 sono ulteriormente diminuite di numero (da 150 a 100), ma comunque continuano ad essere dislocate sul Vecchio continente. Si stima che esse siano presenti in cinque Paesi in sei basi: Belgio (Kleine Brogel, 15 bombe). Germania (Büchel, 15 bombe), Italia (Aviano, 20 bombe; Ghedi, 15 bombe), Olanda (Volkel, 15 bombe), Turchia (Incirlik, 20 bombe).
Insomma anche l’Italia, che ha ratificato il TNP, ha sul suo territorio armi nucleari. Si è detto che quelle presenti nella base di Ghedi sono a doppia chiave (statunitense e italiana), mentre quelle di Aviano sono totalmente gestite dagli USA.
L’Osservatorio Milex ha calcolato che i costi direttamente riconducibili alla presenza di testate nucleari sul suolo italiano sono tra i 20 e i 100 milioni di euro l’anno, a cui vanno aggiunti i costi per gli F35 attrezzati per le missioni nucleari e che stiamo acquistando sempre dagli USA (altri 10 miliardi di euro stimati per l’acquisto e la manutenzione per il prossimo trentennio).
In realtà è impensabile ipotizzare che il nostro paese possa utilizzare le B61 autonomamente senza il beneplacito di Washington. Per di più, questa presenza di armi nucleari qui da noi ha fatto sì che anche l’Italia si sia rifiutata di aderire al TPNW. Per questo la Rete italiana Pace e Disarmo, il network dei pacifisti, ha avviato la campagna “Italia ripensaci”, che intende sensibilizzare in merito il governo e le forze politiche. Tra l’altro, questa dislocazione di armi nucleari in Italia non è un obbligo NATO, ma deriva da un accordo bilaterale tra Roma e Washington. Altri Paesi NATO che prima avevano queste bombe ora non le hanno più e non è entrata in crisi l’Alleanza, né la loro diminuzione quantitativa ne ha inficiato la sicurezza. Per di più, nell’ambito di un’ipotetica guerra, un attacco nucleare sarebbe più facile e rapido con missili, magari lanciati da sottomarini vicini al territorio russo, piuttosto che aviotrasportati.
Purtroppo in Italia un dibattito serio e approfondito su questo tema non è stato mai affrontato dalle varie forze politiche che si sono succedute negli anni al governo, unanimemente mute su di esso.
La campagna “Italia ripensaci” invece vuole che l’opinione pubblica sia adeguatamente informata (dato il silenzio dei maggiori mass media) e che i nostri rappresentanti assumano responsabilmente le loro decisioni di fronte ai loro elettori.