La riforma sanitaria approvata dal Congresso aumenta l’assistenza ai più poveri tassando di più i ricchi. E’ in questa inversione di tendenza la vera fine del reaganismo. Ma i compromessi fatti sulla riforma ne lasciano incerti gli effetti economici: le compagnie aumentano i premi, a danno del ceto medio. Che potrebbe vendicarsi nelle urne a […]
Nelle intenzioni, la riforma sanitaria che Obama ha firmato martedì è il maggiore attacco del governo federale alla disuguaglianza economica dal 1980 ad oggi. In questi 30 anni, non solo le forze di mercato si sono mosse in direzione di disuguaglianze crescenti ma l’elezione di Ronald Reagan nel 1980 ha aperto una fase in cui la politica dei governi americani assecondava attivamente questo trend diminuendo progressivamente le imposte dei ricchi.
Per la maggior parte degli ultimi tre decenni, le aliquote fiscali per i ricchi sono state in calo, mentre il loro reddito al lordo delle imposte è stato in rapido aumento. Il reddito reale dello 0,1% dei contribuenti più ricchi è cresciuto di più di 300% dal 1980 ad oggi. Quello dell’1% dei contribuenti più ricchi, oggi circa 300.000 dollari annui, è approssimativamente raddoppiato in termini reali. La legge sulla sanità va nella direzione opposta e questo ci aiuta a capire perché Obama, sia pure in ritardo di quasi un anno, ha deciso di investire tutto il suo capitale politico per farla approvare, sia pure nella versione distorta e ridotta votata dal senato.
La legge firmata martedi non ha eguali nella legislazione federale dopo il varo di Medicare (l’assistenza sanitaria per gli anziani) nel 1965. Ha lo scopo di aiutare milioni di cittadini a procurarsi cure mediche dopo aver perso un lavoro o quando si ammalano senza avere un’assicurazione privata. Dovrebbe farlo, in una certa misura, tassando i ricchi.
Una grossa fetta del denaro per pagare il conto viene infatti dall’aumento delle imposte sui salari per le famiglie con più di 250.000 dollari annui (la cosiddetta payroll tax oggi è regressiva). In media, le famiglie con più di 1 milione di dollari all’anno di reddito doverebbero pagare 46.000 dollari di tasse in più in più nel 2013. Non solo: la legge dovrebbe tagliare i sussidi Medicare per le assicurazioni private, a scapito dei loro profitti. I benefici vanno alle famiglie che guadagnano meno di 88.200 dollari l’anno: quelle che oggi non hanno un’assicurazione sanitaria potranno ricevere aiuti per sottoscriverne una oppure aderire a Medicaid.
Come si sa, dalla fine degli anni 1970 in poi, la percentuale di americani con un’assicurazione sanitaria si è ridotta, quindi il divario tra il benessere dei malati e dei sani è cresciuto praticamente a ogni livello di distribuzione del reddito. La riforma sanitaria si propone di invertire la tendenza, con l’obiettivo di coprire, entro il 2019, il 95 per cento dei cittadini rispetto all’85 per cento di oggi e al 90 per cento circa di fine anni ‘70.
Buone intenzioni, effetti molto incerti. Il problema già emerso in queste settimane è il fatto che, avendo rinunciato a ogni opzione pubblica per limitarsi a regolamentare il mercato delle assicurazioni private e a sovvenzionare chi non può permettersele, la reazione delle compagnie è prevedibile: aumentano i premi. Questo significa che le famiglie di classe media, nel breve periodo, vedranno peggiorare la loro situazione perché non hanno diritto ai sussidi e devono, nello stesso tempo, pagare di più.
E’ perfettamente possibile che la reazione contro questa situazione provochi la perdita della maggioranza alla Camera per i democratici nelle elezioni del prossimo novembre. Forse lo spirito del disegno di legge sarà compreso e diventerà un grande successo, ma i democratici partono con due gravi handicap nelle elezioni di midterm del 2 novembre.
Il primo è che i ranghi dei deputati e dei senatori democratici sono stati un po’ fortunosamente gonfiati dalle circostanze particolari dell elezioni del 2006 e del 2008. Nel 2006 la crisi dell’era Bush era stata drammaticamente enfatizzata dall’incompetenza del governo federale nel far fronte all’uragano Katrina che aveva distrutto New Orleans. Nel 2008, c’è stata una vastissima mobilitazione giovanile che aveva le sue origini nell’opposizione alla guerra in Iraq e che ha prodotto non solo la vittoria di Obama ma anche il prevalere dei candidati democratici in circoscrizioni dove avrebbero dovuto perdere.
Per esempio, Al Franken, un equivalente americano di Beppe Grillo (sia pure in versione moderata) è stato eletto senatore del Minnesota con uno scarto di 125 voti su parecchi milioni, battendo il repubblicano uscente, ampiamente favorito. Alla Camera, i candidati democratici hanno vinto in ben 26 circoscrizioni dove John McCain aveva avuto, quello stesso giorno, la maggioranza. Questo significa che esistono una quarantina di deputati democratici (i 26 di cui sopra, più 14 in circoscrizioni dove Obama e McCain erano divisi da una manciata di voti) che rappresentano elettori repubblicani e indipendenti oggi ferocemente ostili a Obama, alla sua “nazionalizzazione” della sanità e ai suoi progetti “socialisti”.
Di questi 40 deputati, 34 hanno votato contro la riforma, che infatti è passata con la risicata maggioranza di 219 a 212, benché sulla carta i democratici alla Camera siano 253 (più 4 deceduti o dimissionari). Nelle prossime elezioni, quindi, il numero magico è 39 (come nei “Trentanove gradini”, il film del 1935 di Alfred Hitchcock). Se i democratici perderanno 40 seggi rispetto ai 257 che avevano dopo le elezioni del 2008 se ne andrà la maggioranza, perché resteranno in 217 contro 218 repubblicani. Se, invece, le perdite saranno limitate a 39 seggi la maggioranza, risicatissima, rimarrà al partito democratico.
Mancano vari mesi alle elezioni di novembre e, nella politica americana, si tratta di un’eternità. Molto dipende da cosa Obama deciderà di fare, a quali riforme darà la priorità. E’ bene sapere, però, che le sorti della riforma sanitaria non sono affatto definitive e che, in novembre, risultati locali e imprevisti, come la perdita per 30 voti di un seggio in Oklahoma o in North Dakota, potrebbero rovesciare le votazioni di domenica e la firma presidenziale di martedi. La suspense durerà almeno fino all’alba del 3 novembre prossimo.