Renzismo alla prova/Quello che Renzi ha in mente è un paese che si fa trainare dall’export senza una politica economica, industriale e di investimenti pubblici degna di questo nome
Questi mesi di renzismo nelle politiche economiche ci consegnano una strana miscela di populismo nuovista, (a parole) rapido e antiburocratico, senza intaccare la sostanza delle politiche di austerità di questi anni. I cambiamenti (per il momento) invocati da Renzi, anche in economia, si mettono in sintonia con il senso comune di un paese stanco dell’immobilismo, delle lentezze e dell’incapacità di decidere.
Se si guarda alla sostanza, nulla cambia rispetto al passato e le ricette sono sempre le stesse: precarizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica, riduzione degli investimenti pubblici, agevolazioni alle imprese.
Tutto scritto nel Def (Documento di Economia e Finanza) dell’aprile scorso. La grande baraonda intorno alla messa in discussione in Europa delle politiche di austerità si è risolta in un modestissimo risultato: «il migliore uso della flessibilità intrinseca al patto di stabilità». La montagna ha partorito un topolino. Quello che Renzi ha in mente è un paese che si fa trainare dall’export, una specie di Baviera con capitale Prato, una sorta di Hub per le piccole e medie imprese che competono sul mercato europeo e mondiale, rinunciando ad essere un paese che ha una politica economica, industriale e di investimenti pubblici degna di questo nome.
Poi c’è il resto, che attrae l’elettorato: l’elargizione populista (spacciata per redistribuzione) degli 80 euro (bene per chi li prende), lo sciabolismo antiburocratico della giungla della pubblica amministrazione, la crociata anticasta della (pochissime) auto blu dismesse, la sfida facile alle corporazioni già in ginocchio o la sforbiciata agli stipendi dei grand commiss. La girandola di annunci e micro-provvedimenti spiazza la politica e e fa decollare l’immaginario dell’opinione pubblica. Renzi qui colpisce efficacemente in superficie (con annunci e proclami), almeno tanto quanto non riesce ancora a intaccare quello che accade sotto la superficie. Copre con l’innovazione populista l’incapacità di rimettere in discussione le politiche di austerità e di ridare al paese una politica economica di impronta diversa. Infatti, in questi mesi non ci sono i segni di una politica fiscale redistributiva, non ci sono misure per il rilancio degli investimenti pubblici (i 3,7 miliardi annunciati per la messa in sicurezza delle scuole si sono ridotti a 122 milioni nel decreto Irpef), non c’è una politica di lavoro, che non sia quella dell’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro. Ricetta, tra l’altro, non nuova: e nonostante il progressivo allentamento delle regole e dei diritti del lavoro in questi anni non si sono creati più posti di lavoro, ma solo più disoccupazione e precariato.
Ma il nuovismo di superficie di Renzi potrebbe giungere presto al capolinea. In autunno ci sarà la resa dei conti, forse anche prima. All’inizio di agosto l’Istat ci fornirà i dati del Pil nel secondo trimestre. E saranno guai (si parla di una decrescita del Pil con il segno meno): la crescita dell’0,8% nel 2014 (previsto dal Def) è già dunque nel libro dei sogni. Questo significherà una manovra correttiva con la legge di stabilità, che dovrà prevedere anche gli stanziamenti per la stabilizzazione degli 80 euro nel 2015 (14 miliardi secondo Banca d’Italia, se si includono gli incapienti) e per le altre misure previste nella legge, come le missioni internazionali, la cassa in deroga, il cinque per mille, ecc (qualcosa come 6-7 miliardi di euro). Dove troverà tutti questi soldi? Lo stock del debito (135% sul Pil) è destinato a crescere inesorabilmente, come dicono tutti gli analisti: c’è chi parla come ha fatto Federico Fubini di una crescita inerziale del debito al 150% nel 2016. E proprio da questo aumento potrebbe arrivare lo stop dall’Europa -con la richiesta di apertura di procedura di infrazione- che porrebbe fine al sogno renziano. Allora, non basterebbero più i 17 miliardi di tagli nel 2015 (previsti dal piano della spending revie w di Cottarelli, comunque un piano «lacrime e sangue») e ci chiederebbero di intervenire ancora più duramente su pensioni, sanità e welfare. In questo caso non basteranno più tweet e power point. Servirebbero invece politiche veramente radicali e alternative all’austerità.