Al di là della realtà e varietà dei paesi e delle loro élite, è evidente l’importanza assoluta del petrolio nel determinare le scelte delle grandi potenze, oltre ogni visione e opportunità politica
Negli ultimi anni la produzione e il consumo di petrolio e di gas sono profondamente mutati. Sono rimaste le grandi aziende produttrici; è rimasta l’importanza strategica del Medio oriente. Ma sono profondamente mutate le tecnologie; è cresciuto il peso del gas e del recupero secondario, o da giacimenti difficili; sono comparsi nuovi paesi produttori globali, come la Federazione russa o il Kazakhstan, che usano le grandi aziende ma non ne dipendono. Sono comparsi nuovi paesi consumatori e produttori globali, primo fra tutti la Cina. Malgrado la crisi, il consumo energetico mondiale (anche di idrocarburi), che è una quantità misurata, non una proiezione o una stima, ha continuato tendenzialmente a crescere, con un piccolo avvallamento nell’ormai lontano 2008. Perciò il prezzo del petrolio e del gas, con brusche e fondamentali riduzioni locali, come per il gas di scisto, è rimasto alto, rendendo alta la quantità di riserve recuperabili. Forse il petrolio, ad alto prezzo, è qui con noi per restare. Vale la pena di tentare una ricognizione, di seconda mano, del passato recente, dei mutamenti in atto, e dei problemi e delle instabilità che ne derivano.
Perché ci sono così pochi uomini dove c’è il petrolio
Almeno per i grandi giacimenti scoperti negli anni ’30, si potrebbe dire, esagerando, che negli Stati dove ci sono gli uomini non c’è il petrolio; in quelli dove c’è il petrolio non ci sono gli uomini. Non è stato del tutto vero per gli Stati Uniti; lo è stato spesso per il Medio oriente.
In parte, per i grandi paesi industriali, si tratta di geologia, come per il carbone. Si può sostenere che la geologia ha contribuito a determinare la rivoluzione industriale, l’economia, la società. E aggiungere che solo alcune società sono state in grado di utilizzare appieno la propria ricchezza mineraria. Non si può sostenere che sia stata la politica, il capitalismo, l’imperialismo, a mettere il carbone (poi il petrolio) sotto i piedi degli inglesi, dei tedeschi, degli americani, dei francesi e dei belgi.
Ma quando si passa dai paesi imperiali o ex-imperiali ai paesi dipendenti, i cui i confini sono stati tracciati con una riga sulla mappa per separare le sfere di influenza, in cui le famiglie o i gruppi dominanti sono stati scelti dalle grandi potenze, e da queste i governi sono stati, all’occorrenza, rovesciati, le rivoluzioni represse, la catena causale si rovescia. Sono state le grandi potenze a disegnare i confini per conquistare e mantenere le risorse minerarie; sono state loro a creare le hydrocarbon societies (come le chiama John Davis), società della rendita, che dipendono per il 90% dagli idrocarburi per il Pil, in cui tutta la ricchezza nazionale affluisce direttamente ai gruppi dominanti, come royalties o profitti, mentre le concessioni sui campi prima, e la maggior parte dei profitti poi, vanno alle grandi aziende internazionali; e in cui i lavoratori sono immigrati privi dei diritti politici, talora anche dei diritti civili. Il petrolio non è stata la sola determinante, ovviamente. I giacimenti maggiori, come Ghawar, il maggior campo del mondo, scoperto nel ’38 in Arabia Saudita, sono noti da prima della seconda guerra mondiale; ma non da prima che Allenby e la rivolta araba conquistassero Damasco, nel ’18. Le differenze interne alle singole aree dell’impero ottomano, le sfere di influenza inglese e francese, le tensioni tra confessioni religiose e gruppi etnici, inclusa la creazione del “focolare ebraico”, e poi il riconoscimento dello Stato di Israele, sono le cause evidenti di alcuni confini e di alcune guerre. Ma non si capisce l’Arabia saudita, non si spiegano gli Emirati arabi uniti, il Kuwait, Bahrein, il Qatar, i conflitti interni all’Iran e all’Iraq, senza tener conto del petrolio, della entità e della collocazione dei campi di petrolio. È il petrolio, l’immigrazione dei lavoratori per l’estrazione e la raffinazione del petrolio, che ha fatto di Kirkuk, vicina ad alcuni dei campi più importanti in Irak, una città curda, da turca ed ebraica che era, e che ha poi reso esplosivo il conflitto tra arabi sunniti al potere e curdi. Fino alle stragi col gas di Saddam e alla sostituzione violenta di arabi importati ai curdi; ritornati poi dopo la prima guerra del Golfo. È stata la nazionalizzazione del petrolio che ha indotto i britannici a rovesciare Mossadegh, negli anni ’50, ed aperto la strada alla dittatura di Reza Pahlavi, alla rivolta degli Ayatollah, alla guerra Iraq-Iran, sostenuta dagli Stati uniti.
Non è il caso di tentare un Bignami di terza mano della storia del Medio oriente. Si possono invece citare, proprio perché non sono scritti d’occasione, centrati sul petrolio, sulla sua importanza, sulla sua crisi o fine, ma parlano degli uomini oltre che del petrolio, tra i molti altri, due libri:
Hanna Batatu, The Old Social Classes and the Revolutionary Movements of Iraq. A Study of Iraq,s Old Landed Classes and of its Communists, Ba’thists and Free Officers (reperibile anche in rete; ma è un librone: meglio procurarselo di carta) e Chrystopher de Bellaigue, Patriot of Persia: Muhammad Mossadegh and a tragic Anglo-American Coup. L’autore del secondo volume è sì britannico, nato a Londra nel ’71, laureato a Cambridge, ma conosce bene l’Iran, ha una moglie persiana, legge e parla il farsi, e osserva giustamente della abbondante letteratura in inglese su Mossadegh che fare un libro su quel colpo di stato solo su fonti britanniche è come fare un libro su Pearl Harbour solo su fonti giapponesi. Dai due libri si riscopre la importanza degli uomini, delle loro idee, delle loro migrazioni, associazioni, divisioni, violenze; la importanza del clero, della aristocrazia sciita, delle famiglie importanti da mezzo millennio; della corruzione di alcuni; degli studi, della virtù, dei limiti, di altri – come Mossadegh, che aveva nazionalizzato la Anglo-Iranian Oil Company trasformandola in National Iranian Oil Company. Al di sopra della realtà e varietà dei paesi e delle loro élite, è evidente però la importanza assoluta del petrolio nel determinare le scelte delle grandi potenze, oltre ogni visione e opportunità politica. I paesi veri, con una società e una storia, non un confine tracciato intorno a un giacimento, sono stati trattati come strame per raggiungere l’obbiettivo immediato ed arraffare il bottino.
Mezzo secolo fa, quando stavo prendendo un master in Petroleum Engeneering a Austin, Texas, alle dipendenza dell’Eni, nel ’62 – l’anno del blocco di Cuba, l’anno in cui fu ammazzato Enrico Mattei, forse con la stessa logica elementare della deposizione di Mossadegh – l’alto funzionario, della Cia, che insegnava American Government ai graduate students stranieri, ogni tanto si assentava per una decina di giorni e, di ritorno, raccontava di essere stato nello Yemen, perché era in corso una guerriglia, sostenuta dall’Egitto (di Nasser) per impadronirsi del paese e mettere piede nella Penisola arabica, e bisognava contenerla. Non era bene che, piano piano, gli Stati potenzialmente autonomi, popolosi e potenti si avvicinassero al petrolio. La guerriglia si concluse con la divisione dello Yemen in due, uno rosso e uno bianco.
Per dare un’idea della composizione sociale degli Stati giacimento, oltre alla storia, è utile la percentuale di immigrati stranieri. Basti pensare che degli Stati del Gulf Cooperating Committee solo Oman e Arabia Saudita hanno una percentuale di immigrati minore della metà della popolazione residente – e che tale percentuale negli Emirati Arabi Uniti supera l’80%; nel Qatar il 70%. Si tratta di paesi costituiti da famiglie regnanti numerose, onnipotenti, proprietarie dello Stato e delle rendite, da un gruppo modesto di cittadini che vivono di rendita e di impieghi pubblici e da una maggioranza di residenti non cittadini che fanno tutti i lavori tecnici, di manovalanza e di servizio. La percentuale degli stranieri sale ben oltre il 90% se ci si riferisce ai lavoratori.
Non tutti i paesi del Gcc sono produttori di petrolio. Gli Emirati sono in effetti una specie di Nevada dell’area. Dubai è una specie di Las Vegas, con il gioco d’azzardo, gli alberghi spettacolari, la prostituzione – importata anche quella – il turismo internazionale dagli altri paesi dell’area, dal Medio oriente e dal Mondo; i criminali a riposo (come Matacena) e, si immagina, qualcuno in piena attività.
Regge l’equilibrio sociale, oltre alla distribuzione della rendita, un monopolio della forza in mano alle famiglie regnanti (che usano la rendita per sostenerlo) e alle compagnie internazionali. Gli Stati Uniti forniscono i sistemi d’arma, la copertura dei satelliti e dei droni, e il comando, mentre i militari sono locali o mercenari – contractors – di varia provenienza. Non si tratta di equilibri stabili, né di situazioni politiche uniformi. Le famiglie regnanti non sempre condividono la confessione religiosa della maggioranza dei sudditi: è noto che il gruppo dominante della Siria, la famiglia Assad, è alawita, che la famiglia regnante saudita, che governa sulla Mecca e Medina, è wahabita, quella del Qatar è ibadita, che le appartenenze spiegano, o giustificano, alleanze: il sostegno di Al Jazeera, la televisione del Qatar, alla primavera araba, il sostegno dei sauditi al golpe militare in Egitto (hanno promesso un bel gruzzolo di miliardi di dollari, un multiplo degli Stati uniti) e ai salafiti che li appoggiano. Specificamente legate al petrolio sono le controversie sulla collocazione amministrativa di Kirkuk, in Irak o nel Kurdistan, e la connessione del suo campo agli oleodotti turchi.
La Federazione russa, l’Asia centrale
Negli ultimi venti anni l’importanza dei paesi membri dell’Opec, (Organization of Petroleum Exporting Countries), il cartello dei paesi esportatori di petrolio, è diminuita per l’ingresso sul mercato dei paesi della ex-Unione sovietica, per la scoperta di nuovi giacimenti e, soprattutto, per l’espansione delle costose tecniche di recupero secondario, e il conseguente ritorno all’autonomia degli Stati Uniti. È anche cambiata l’importanza relativa dei paesi dell’Opec, che si è modificato al suo interno. L’Opec, nato nel 1960 per rafforzare i paesi esportatori nei confronti delle aziende internazionali, comprendeva inizialmente Iran, Irak, Kuwait, Arabia saudita, Venezuela (governata allora da Romulo Betancourt). Nel ’61 aderì il Qatar; nel ’62 la Libia, governata ancora dai Senussi; nel ’69 aderì l’Algeria; nel ’71 la Nigeria; nel ’73 l’Equador; nel 2007 l’Angola. Se si tengono presenti i cambiamenti di governo, le rivoluzioni, le guerre civili e le precarie paci, si capisce che il quadro è mutevole. La Russia e l’Asia centrale sono però una discontinuità maggiore. Non provengono dal terzo mondo ma dal secondo. La Federazione russa è il primo produttore di gas e uno dei più importanti produttori di petrolio, ma è anche la seconda o la terza potenza militare del mondo. Il Kazakhstan, oltre ad essere un esempio vivente di disastro ecologico per sfruttamento eccessivo dell’acqua per irrigare il cotone, con la conseguente scomparsa, o meglio la riduzione a due grosse pozze, del mare di Aral, è anche il posto dove sono stati trovati alcuni dei rarissimi giacimenti giganti nuovi, di petrolio (Kashagan, Tangiz) e di gas (Karachaganak). A Kashagan l’Eni rappresenta il 17% della società di gestione; a Karachaganak un terzo. Ed è presente anche in Nigeria. Sulle risorse energetiche e commerciali dei nuovi paesi produttori e consumatori, sulla loro situazione sociale, si trovano facilmente studi di agenzie internazionali e università (l’Aie, l’Oxford Institute for Energy Studies), oltre alle ovvie statistiche demografiche ed economiche. Né la Russia né il Kazkhstan, come del resto la Nigeria e il Venezuela, importano manovali, come fanno in Medio Oriente. Hanno invece bisogno di tecnologie ed esperienza. Perciò affidano lo sfruttamento dei giacimenti, soprattutto di quelli difficili, ad aziende internazionali, che assumono i loro tecnici sul mercato internazionale.
Ho trovato molto interessanti Shamil Midkhatovich Yenikeyeff, Kazakhstan’s Gas: Export Markets and Export Routes, 2008 e Fan Gao, Will There Be a Shale Gas Revolution in China by 2020?, 2012. Sono analisi ricche di dati, in cui da un lato si confermano le dimensioni delle riserve e le potenzialità; dall’altro si elencano i ritardi e le mancanze di infrastrutture adeguate. Nel secondo il motivo vero del punto interrogativo è la data, perché la rapidità del boom americano è derivato dalla enorme capacità estrattiva e dalla presenza di oleodotti inutilizzati. Ancora più interessante mi è sembrato Leon Aron, The political economy of Russian oil and gas, American Enterprise Institute, 29 maggio 2013. Aron sottolinea la grande importanza e la grande fragilità della Russia. Per una scelta esplicita di Putin l’importanza delle materie prime nell’economia russa è molto cresciuta. Il peso delle materie prime nelle esportazioni è passato in un quindicennio dal 50 al 70%, per metà prodotti petroliferi. Aron cita Alexei Kudrin, già Ministro delle finanze e Vice Primo Ministro, secondo cui la Russia, l’anno scorso, aveva bisogno del petrolio a 117 $/barile per il pareggio di bilancio. Perciò, nella crisi, quando il prezzo è sceso a 34 $/barile, ha avuto una caduta del Pil dell’8%, la maggiore tra i paesi del G20. Ne ha risentito persino il complesso militare industriale, che resta il settore privilegiato. I 215 miliardi di dollari che la Russia incassa dalle vendita degli idrocarburi servono a “mantenere la lealtà dei due gruppi indispensabili alla sopravvivenza del regime: i poveri e le élite”. Ma il, noto, crollo, del sistema sanitario e quello, probabile, del sistema pensionistico, secondo Aron, rendono obbligatorio il vero e proprio salasso fiscale sulle compagnie russe e rendono la situazione instabile, pericolosa per il mondo intero.
Il lettore italiano non può fare a meno di notare qualche somiglianza tra le privatizzazioni in Russia e quelle in Italia. Le differenze, importanti, sono soprattutto sociali. L’Italia non ha 11 anni di differenza tra la vita media delle donne e quella degli uomini, come la Russia e il Kazakhstan. Ha una immigrazione che compensa la bassa natalità, ha il sistema sanitario pubblico che ancora funziona e il sistema pensionistico in equilibrio. I governi però fingono che non sia vero; tagliano dove non si dovrebbe; e, insistendo molto sul Fuehrerprinzip e le vessazioni del lavoro e dei migranti, possono riuscire davvero a somigliare a Nursultan Nazarbayev, a cui fanno segnalati favori, e all’amico Putin, senza averne la forza militare.
Sulle situazioni sociali c’è molto da aggiungere e ho trattato l’argomento in un precedente articolo: www.sbilanciamoci.info/Settori-ad-alto-rischio-lavorare-nel-petrolio-20171
In un successivo articolo mi propongo di trovare l’annoso tema delle riserve di petrolio e gas disponibile