La popolazione degli iscritti al dottorato di ricerca, dopo una crescita impetuosa tra la fine degli anni ’90 e il 2008, è declinata fino al 2015 per poi stabilizzarsi sulle 10mila unità l’anno. Solo il 28% resta in accademia, contro il 50% di altri paesi, dalla Francia alla Germania al Regno Unito.
Nonostante l’importanza dei dottori di ricerca nell’alimentare il trasferimento tecnologico e di conoscenza da università a imprese e società, dei loro destini occupazionali non si è ancora scritto tanto, a differenza del caso dei laureati, di cui molto sappiamo anche grazie a indagini come Almalaurea. Molto opportunamente l’Istat, a partire dal 2009-10, ha condotto tre edizioni di un’indagine censuaria volta a conoscere vari aspetti della condizione occupazionale dei dottori di ricerca. In un lavoro presentato di recente (nota 1), abbiamo armonizzato i microdati delle tre indagini (2009-10, 2014, 2018) relative a sei coorti di dottori comprese tra il 2004 e il 2014, intervistati a distanza di quattro o sei anni dal conseguimento del titolo. Ne esce un quadro utile per comprendere che cosa è successo nell’arco di decennio attraversato da crisi economica e riforma legislativa dell’università.
Come premessa, c’è da considerare che la popolazione degli iscritti al dottorato di ricerca, dopo una crescita impetuosa tra la fine degli anni ’90 e il 2008 (parallela a quella del numero di corsi), è declinata fino al 2015 per poi stabilizzarsi sulle 10mila unità/anno. Ma dove sono finiti quelli che hanno effettivamente concluso il percorso che porta al conseguimento del più alto titolo di studio rilasciato dalle istituzioni educative italiane (titolo peraltro sconosciuto alla maggior parte del vasto pubblico nonché a una certa quota di datori di lavoro)?
Tradizionalmente pensato come bacino di reclutamento per i futuri ricercatori e docenti universitari, in realtà il dottorato, complice la riduzione delle opportunità di collocamento in università e centri di ricerca pubblici, conduce molto più frequentemente a occupazioni al di fuori dell’accademia. Nel nostro lavoro abbiamo distinto tre possibili casistiche: oltre alle occupazioni tradizionalmente accademiche (post-doc e altre varie posizioni più o meno precarie in università e centri di ricerca pubblici), ci sono quelle nel settore business (imprese e studi professionali) e le occupazioni nel settore non profit in senso ampio (PA, sanità, ONG ecc.). I dati più recenti (2018) ci dicono che solo il 28% dei dottori restano in accademia, ma ‒ e questo ci sembra un dato preoccupante ‒ otto anni prima questa quota era il 36%; mentre in paesi come Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Svezia la quota è circa il 50%. I dottori che l’accademia italiana non trattiene si distribuiscono in parti all’incirca uguali tra business e impiego pubblico/non profit. In particolare, quest’ultima categoria è cresciuta di quasi sei punti percentuali nell’arco di tempo considerato. Del 30% di dottori che ha “scelto” una carriera nel business, circa un terzo (10% sul totale) fanno comunque un lavoro che almeno in parte prevede ricerca e sviluppo (si veda Tabella 1).
Oltre a queste variazioni piuttosto impressionanti ne troviamo un’altra, di entità minore, ma non meno rilevante: la sistematica sottorappresentazione del genere femminile nelle occupazioni di ricerca, sia accademica che di business, accompagnata da una sovrarappresentazione tra gli inoccupati. Il gap di genere nelle attività di ricerca che si attestava rispettivamente al 5% nella ricerca pubblica ed al 6,4% in quella privata, nel 2018 è aumentato al 6,5% ed al 7,9%. I dati non ci consentono di affermare se si tratti di un problema di discriminazione o di preferenze personali, tuttavia è un divario che persiste anche al netto della diversa composizione per genere delle discipline di dottorato, nonché di altri possibili fattori confondenti che nella nostra analisi abbiamo tenuto in conto. (nota 2)
Un altro dato che ci ha colpito, che conferma la corrente discussione sulla fuga dei cervelli, riguarda la mobilità all’estero. Nel corso del tempo è raddoppiata la percentuale di dottori, di nazionalità italiana, che vivono all’estero, passando dal 6% al 13%. Sotto l’aggregato troviamo però variazioni ancora più impressionanti se distinguiamo in base al tipo di occupazione. Scopriamo così l’effetto che la riduzione delle opportunità di ricerca pubblica ha avuto: la percentuale di quanti vivono all’estero, impegnati in post-doc o anche in posizioni accademiche più strutturate, è triplicata, salendo dall’8% al 25% (si veda Tabella 2). Anche in questo caso con un divario di genere cospicuo (29% vs. 21%), essendo le donne sottorappresentate tra quanti vivono all’estero facendo ricerca in università. Per quanto riguarda i professori e ricercatori di ruolo, che nel 2010 rappresentavano circa il 13% delle occupazioni, essi scendono al 3% nel 2018 a causa del blocco delle assunzioni nell’università e nei centri di ricerca pubblici. Guardando solo ai dottori con cittadinanza italiana, il 57% di questo misero 3% ha trovato lavoro di ruolo all’estero mentre nel 2010 solo il 5% lavorava fuori dall’Italia.
I dati delle indagini censuarie Istat seppur molto interessanti permettono solo di presentare una fotografia in un dato periodo senza poter analizzare come le scelte e le opportunità di carriera offerte dal sistema italiano ed estero possano influenzare la carriera futura dei ricercatori. In altre parole, è sempre un male che un dottore di ricerca voglia (o debba) andare per un periodo all’estero a fare un postdoc? Di per sé, trascorrere un periodo di tempo in un altro paese a fare ricerca non può che arricchire il ricercatore permettendogli di entrare in contatto con altri colleghi ed avere accesso a idee, strumentazioni e metodologie di ricerca differenti. Il problema si pone quando molti ricercatori, supportati durante la loro formazione con finanziamento pubblico, dopo un periodo all’estero non riescono a (o non vogliono) tornare in Italia per la penuria di posizioni academiche e di risorse per fare ricerca.
Al fine di esplorare il fenomeno della mobilità, in particolare nel periodo post dottorale, e di indagarne l’impatto sulla carriera accademica, abbiamo creato una banca dati che raccoglie le informazioni di tutti i dottori di ricerca italiani dal 1986 al 2006 e ne abbiamo seguito la carriera accademica in Italia fino al 2015 (nota 3). Non esiste una banca dati ufficiale che include i dottori italiani che hanno continuato la loro carriera all’estero (che sono un numero significativo e crescente), alcuni preliminari tentativi sono stati fatti per realizzare tale banca dati, ma non hanno una significatività statistica (la realizzazione di tale banca dati, almeno a livello europeo, sarebbe fondamentale per meglio comprendere le dinamiche di carriera e eventualmente sviluppare interventi di politica per facilitare il ritorno in patria). Per questo motivo i nostri studi sono limitati all’analisi degli esiti di carriera in Italia per i dottori che hanno effettuato un’esperienza lavorativa all’estero nel periodo post-dottorale.
Grazie all’affiliazione riportata nelle pubblicazioni scientifiche, abbiamo ricostruito la mobilità di un campione di 18 mila dottori di ricerca nel periodo post-dottorale. L’8% di essi ha passato almeno un periodo di due anni all’estero prima di rientrare in Italia per continuare la carriera in università. Applicando una tecnica di matching denominata coarsened exact matching abbiamo comparato i) il tempo necessario a entrare in accademia (come ricercatore universitario) e ii) il tempo necessario a essere promosso (a professore associato) per i dottori di ricerca con e senza esperienza di mobilità internazionale.
I risultati dell’analisi di sopravvivenza mostrano come l’esperienza di ricerca a livello internazionale rallenti l’ingresso in accademia in Italia in una posizione non temporanea, ma abbia un effetto positivo di lungo periodo sulla promozione. I ricercatori che hanno effettuato un post-doc all’estero, infatti, ci mettono più tempo ad ottenere un posto come ricercatore universitario, ma hanno una probabilità maggiore di essere promossi a professore associato e lo sono più velocemente. Questi effetti sono mitigati dal network di coautori con cui i dottori di ricerca intrattengono relazioni durante il periodo all’estero. I dottori che continuano a pubblicare insieme al loro “vecchio” nework di co-autori italiani rientrano più velocemente di quelli che invece espandono il loro network con nuove collaborazioni. Questi ultimi, tuttavia, saranno premiati allo step successivo, quello della promozione: chi ha instaurato nuove relazioni di co-pubblicazione, espandendo il proprio network scientifico nel periodo post-dottorale all’estero, ottiene il grado di professore associato più velocemente.
Questi risultati si riferiscono alle coorti di dottori comprese tra il 1987 ed il 2007, quindi in un periodo precedente alle indagini censuarie Istat, che hanno evidenziato un aumento radicale nella quota di dottori che si sono spostati all’estero, le conclusioni pertanto potrebbero non essere più valide oggi con una mobilità all’estero molto più significativa ed un’opportunità di lavoro universitario ulteriormente ridotta rispetto al periodo precedente.
Seppure l’analisi storica offra una visione parzialmente positiva di un periodo di permanenza all’estero (bisogna sempre tener conto che i nostri dati non ci permettono di arrivare a nessuna conclusione sui dottori che non sono rientrati in Italia per scelta o per impossibilità, e l’evidenza qualitativa ci dice che un largo numero di dottori sarebbe ben volentieri rientrato se ne avesse avuto la possibilità), i dati della indagine censuaria Istat più recente chiaramente indicano che la mobilità all’estero non è più una scelta finalizzata all’arricchimento conoscitivo ma è diventata una necessità per quei ricercatori, e in particolare per le ricercatrici, che comunque vogliono continuare a fare carriera di ricerca accademica, che negli ultimi dieci anni hanno trovato sempre meno possibilità in Italia.
NOTE:
1 Carriero, C. Coda Zabetta, M. Geuna A. & Tomatis, F. (2021). “Non-academic career of PhD holders in Italy”, presentato al workshop “Doctoral Education and the Private Sector: European Perspectives”, University of Kassel, May 4/5, 2021.
2 Età, presenza di figli, visiting all’estero durante il PhD, termine del PhD in corso, dottorato con borsa, residenza all’estero, cittadinanza italiana, soddisfazione per il PhD, distanza dal dottorato, regione.
3 Si veda Coda Zabetta, M. & Geuna, A. (2019). “International postdoctoral mobility and career effect in Italian academia – 1986-2015”, ISSI 2019 – Proceedings, pp. 2448–2459 e Coda Zabetta, M. & Geuna, A. (2020). “Italian Doctorate Holders and Academic Career. Progression in the Period 1986-2015”, Carlo Alberto Notebooks 629, Collegio Carlo Alberto.