Poter allentare i vincoli di bilancio europei adesso sembra un sogno ad occhi aperti. Ma un nuovo keynesismo potrebbe risultare inutile per l’Italia, in assenza di politiche dell’offerta che rafforzino l’industria nazionale
“Supponiamo”, come dice l’economista. Supponiamo di svegliarci domani e di trovare che un sogno è diventato realtà. Sono stati allentati i vincoli di bilancio a livello europeo: i rapporti deficit/Pil e debito/Pil sono stati elevati e/o i tempi di riequilibrio imposti a ciascun paese sono stati allungati. Inoltre alla Bce è stato attribuito il ruolo di Banca europea a tutti gli effetti. Supponiamo inoltre che un altro sogno si sia avverato: un coordinamento tra i governi di tutti i partner europei per politiche fiscali espansive. Avevamo imparato che per un singolo paese come l’Italia non era possibile adottare una politica fiscale espansiva senza coordinamento a livello europeo. Dunque finalmente ci siamo, dopo tante sofferenze per certe classi di cittadini! Io sostengo invece che anche questo scenario di sogni avverati rappresenterebbe un keynesismo alquanto ingannevole per l’economia italiana (e per quella di altri paesi europei) in assenza di politiche collaterali.
La mia tesi è la seguente. In presenza di disoccupazione e di un’economia che è globale in virtù di liberi movimenti di capitale, eventuali politiche espansive dal lato della domanda devono essere sorrette da politiche industriali nazionali dal lato dell’offerta. Ciò potrà apparire un’eresia dal punto di vista di un keynesismo naive in quanto esso vi scorge un apparente cedimento ad una supply economics, ma argomenteremo che così deve essere per un paese come l’Italia che non può o non vuole opporsi alla mobilità dei capitali. Ho sviluppato altrove la base teorica di tale tesi (Parrinello, 2009a, Parrinello 2009b) reagendo ad una critica rivolta da Paul Krugman (1996) al concetto di competitività nazionale. Qui mi limito a ribadire due principi teorici tratti da quelle argomentazioni e ad applicarli al caso europeo.
1) In regime di mercati globali e in presenza di disoccupazione (entrambe le condizioni devono essere verificate) i vantaggi assoluti prevalgono sui vantaggi comparati negli scambi internazionali. La differente competitività fra nazioni, misurata ad esempio da differenze fra costi del lavoro per unità di prodotto in luoghi diversi e da corrispondenti differenze fra saggi di rendimento (profitto) sul capitale investito nelle diverse aree, diventa il regolatore della distribuzione delle attività economiche e spiazza il ruolo dei costi comparati nel determinare la divisione internazionale del lavoro.
2) Un sostegno nazionale alla domanda (ad esempio attraverso investimenti pubblici) è sostegno alla domanda effettiva dell’economia globale. Come si distribuisce tale domanda e la capacità produttiva fra le nazioni diventa allora cruciale ai fini di una politica per l’occupazione nazionale. I fattori illustrati al punto 1) determinano appunto come si localizza o si delocalizza la maggior produzione indotta da quella maggiore domanda.
Tornando da quei due principi generali alle vicende europee, proviamo a semplificare e ad isolare l’Europa dal resto del mondo. Evidentemente un sostegno alla domanda tramite una politica fiscale espansiva promossa dal governo Italiano, sebbene in linea per assunto con analoghe politiche a livello europeo, è pur sempre un sostegno alla domanda dell’economia europea. In che misura esso si traduca in sostegno alla domanda di prodotti italiani e quindi di occupazione nazionale, dipende dalla competitività nazionale vis a vis quella degli altri stati membri. Ciò vale sia nel breve periodo (la distribuzione della domanda fra le produzioni nazionali, con capacità produttive date) sia nel lungo periodo (la distribuzione della capacità produttiva fra aree europee tramite investimenti e disinvestimenti di capitale produttivo). La competitività comparata a livello europeo dovrà essere analizzata per settori (ad esempio procedendo ad una disaggregazione della recente analisi di Collignon 2013), essendo però consapevoli di un fatto: non vale più la garanzia che almeno qualche settore dell’economia italiana dovrà essere competitivo grazie al principio dei costi comparati. La competitività va invece mantenuta, creata e ricreata continuamente e qui diventa essenziale una politica industriale che favorisca (ad esempio con programmi di ricerca e sviluppo innovativo) alcuni settori mirati invece di interventi a pioggia. Possiamo “misurare” la competitività in termini di costo del lavoro per unità di prodotto, ma evitando di attribuire al “lavoro” arbitrari nessi di causalità che coinvolgono altri fattori della produzione, e sapendo che alla fine il risultato da perseguire deve essere una maggiore competitività in termini di saggi di rendimento sui capitali (internazionali) investiti in certi settori dell’economia italiana. L’alternativa, di solito esclusa a priori come quella di una uscita dall’euro, consisterebbe in restrizioni ai movimenti di capitale da e verso l’economia italiana. Pare che tertium non datur per l’economia Italiana, ma entrambe le alternative contemplate richiederebbero uno Stato coeso.
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Stefan Collignon: “How To Measure Competitiveness”, in Social Europe Report, Towards a European Growth Strategy, February 2013
Paul Krugman 1996, “Competitiveness: a Dangerous Obsession”, Foreign Affairs, March/April 1994, Vol.73, n.2, 28-44. Pop Internationalism, M.I.T. Press 1996
Sergio Parrinello, 2009a, “The notion of national competitiveness in a global economy”, in Economic Theory and Economic Thought: essays in honour of Ian Steedman, edts. J. Vint. J,S. Metcalfe, H.D. Kurz, N. Salvadori, P. Samuelson; Routledge Publ.
Sergio Parrinello, 2009 b: Un’infondata portata attribuita alla teoria ricardiana dei vantaggi comparati: un punto di vista post-keynesiano. MPRA_paper_31473.pdf . Presentato alla Conferenza “Gli Economisti Postkeynesiani di Cambridge e l’Italia”, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 11-12 marzo 2009