Kunling Zhang, un economista della Beijing Normal University, intervista Pompeo Della Posta, già professore di economia all’Università di Pisa. Il dialogo affronta i nodi dei rapporti tra Europa e Cina nella nuova fase di deglobalizzazione.
Kunling Zhang: La deglobalizzazione non è una novità di oggi. Alcuni sostengono che i suoi primi segnali possono essere fatti risalire alla crisi finanziaria globale del 2008/09, con la contrazione del commercio mondiale e l’escalation durante la pandemia COVID-19. In base alle tue osservazioni, quali sono i fatti, i modelli e le tendenze nello sviluppo della deglobalizzazione? E quali sono le sue motivazioni?
Pompeo Della Posta: “La crisi finanziaria globale che cominciò nel 2008 può essere considerata senz’altro come uno dei possibili spartiacque che hanno segnato l’inizio del declino del processo di globalizzazione economica e, naturalmente, la pandemia COVID-19 ha ulteriormente chiuso i mercati internazionali e limitato il commercio internazionale. La guerra fra Russia e Ucraina ha poi alimentato il senso di insicurezza in molti Paesi europei (ad esempio riguardo all’approvvigionamento delle fonti energetiche), contribuendo così a deteriorare ulteriormente il quadro della globalizzazione. La differenza con l’attuale fase di slowbalization (come alcuni osservatori, probabilmente ottimisti, preferiscono definirla, piuttosto che deglobalizzazione) è che mentre quegli eventi hanno ridotto (drasticamente, nel caso del COVID-19) la possibilità stessa di intraprendere il commercio internazionale, nella situazione attuale questo è il risultato di una scelta deliberata, operata da governi populisti, solitamente di destra. Questo dimostra chiaramente che la globalizzazione non è inevitabile, come invece diceva Margaret Thatcher proponendo il suo famoso acronimo “TINA” (There Is No Alternative). Questo ci porta alla seconda parte della tua domanda.
I fattori economici hanno certamente giocato un ruolo nel determinare il cambiamento di direzione del mondo. La crisi finanziaria globale ha reso evidente che le promesse fatte dai profeti della globalizzazione (ad esempio, la famosa ipotesi del “trickle down”, secondo la quale la globalizzazione avrebbe portato benefici sia a chi sta in alto sia a chi sta in basso nella scala sociale) non si sono concretizzate e che essa ha comportato anche gravi costi, deliberatamente sottostimati o del tutto ignorati e distribuiti in modo diseguale.
Un ulteriore elemento, tuttavia, ha a che fare con motivazioni geoeconomiche. C’è un Paese in ascesa, la Cina, che minaccia la posizione egemonica di quello in carica, e quest’ultimo cerca di evitare di essere superato dal primo, nel timore che il sorpasso avvenga non solo economicamente ma anche politicamente e militarmente. Naturalmente la guerra ucraina a cui facevo cenno all’inizio e il fatto che i media danno per scontato il sostegno implicito della Cina alla Russia in quel conflitto, favoriscono questa narrazione. I fatti, tuttavia, ci dicono che a differenza degli Stati Uniti, con le sue 750 basi militari disperse nel mondo, la Cina ha una sola base militare al di fuori del suo territorio (a Gibuti, dove anche molti altri Paesi hanno basi militari per ovvie ragioni di pattugliamento della più importante rotta petrolifera), o che la percentuale di spesa militare rispetto al PIL della Cina è dell’1,7%, a fronte di una percentuale del 3,4% degli Stati Uniti.
In altre parole, mi si perdoni la semplificazione, mi sembra che si possa concludere che la globalizzazione era accettata e la Cina non era percepita come una minaccia per l’Occidente finché esportava camicie, pantaloni e semplici prodotti ad alta intensità di lavoro e comprava da noi prodotti più sofisticati; ma non va bene ora, che il Regno di Mezzo è in grado di esportare nei nostri paesi veicoli elettrici, batterie e prodotti tecnologicamente avanzati. Per giustificare la propria posizione, tuttavia, gli Stati Uniti (e l’UE) invocano formalmente, nei confronti della Cina, la protezione dal rischio di una futura minaccia militare, non il protezionismo dalle sfide economiche portate da quel Paese”.
Qual è il ruolo degli Stati Uniti nel determinare la posizione dell’UE nei confronti della globalizzazione economica?
“La pressione che gli Stati Uniti esercitano sull’UE è evidente. Nel 2019 il governo italiano giallo-verde aveva firmato un protocollo d’intesa con la Cina, accettando di far parte della cosiddetta Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI). Le elezioni del 2022, però, hanno portato in Italia alla formazione di un governo di destra-centro che, tra le prime misure adottate, ha deciso di non rinnovare il protocollo d’intesa, con evidenze aneddotiche che indicano come tale decisione sia stata motivata anche da un’esplicita richiesta del governo statunitense, volta a eliminare l’anomalia dell’Italia come unico Paese appartenente sia al G-7, incentrato sugli Stati Uniti, sia alla BRI, basata sulla Cina.
Un’influenza simile viene esercitata dagli Stati Uniti sulla posizione che l’UE dovrebbe assumere nei confronti della Cina, ma anche di altri Paesi, rei di non seguire le indicazioni di politica internazionale statunitensi (si veda il caso dei dazi recentemente imposti alle importazioni americane di prodotti provenienti dall’India o dal Brasile). Ancora una volta, la ragione che gli Stati Uniti forniscono all’UE per seguire i loro suggerimenti è la “protezione”, in particolare dalla minaccia russa: infatti, i Paesi dell’UE fanno ancora affidamento sulla protezione fornita loro dalla NATO, un’organizzazione la cui forza militare è dovuta ai cospicui investimenti che gli Stati Uniti hanno effettuato nel tempo e continuano ad effettuare (e per i quali Trump pretende ora di essere ripagato dai suoi protetti). È inevitabile che tutto ciò condizioni anche le prospettive future della globalizzazione economica.
Quello che non è chiaro, però, a mio avviso, è quanto siano realmente giustificate le minacce che incomberebbero sull’UE. Gli armamenti che i Paesi dell’UE complessivamente possiedono, infatti, sono già oggi più del doppio di quelli della Russia, ma anziché pensare ad un coordinamento intra-europeo, ogni Paese si sta impegnando individualmente in un aumento delle spese militari, con la Germania che è la più attiva in questo campo, verosimilmente anche per attenuare le difficoltà che le sue esportazioni (ad esempio quelle di autovetture verso la Cina) stanno attraversando.
Non dovremmo poi ignorare che la stessa NATO, con la sua espansione ad est dopo la caduta del Muro di Berlino – espansione che Gorbachev aveva ottenuto assicurazione che non sarebbe mai avvenuta – possa essere a sua volta stata percepita come una minaccia dalla Russia (sì, spesso commettiamo l’errore di pensare che siamo gli unici ad avere il diritto di sentirci minacciati, mentre gli altri dovrebbero sentirsi automaticamente rassicurati dalla nostra indubbia buona fede).
Detto questo, trovo inaccettabile la reazione russa, non solo perché ogni guerra può e deve essere evitata con la diplomazia, ma anche per l’assoluta indifferenza che mostra rispetto all’enorme tributo di vite umane imposto ad entrambe le parti, come se la tragica esperienza delle precedenti guerre in Europa fosse passata invano”.
Non credi che l’Unione Europea non avrà mai veramente nulla da dire a livello mondiale se continuerà ad essere così frammentata, cioè se non andrà avanti nel processo di integrazione politica?
“Credo certamente che l’UE abbia le potenzialità per svolgere un ruolo positivamente significativo e stabilizzante a livello mondiale. Per farlo, però, occorre superare gli ostacoli che limitano lo sfruttamento di tale potenziale. Non dovrebbe essere troppo difficile capire che solo unendo le forze potremmo far sentire la nostra voce in tutto il mondo. Consideriamo che nel 2050 (ce lo ricorda l’ex-governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco in un suo recente scritto) la popolazione dell’UE sarà appena il 4% di quella mondiale: quale sarà la frazione della popolazione mondiale di ogni singolo Paese europeo? Cosa può sperare di ottenere ognuno di loro correndo da solo?
Questo, però, è un problema che abbiamo affrontato, purtroppo senza successo, fin dall’inizio del processo di integrazione (iniziato nel pieno della Guerra Fredda, ma anche per evitare che si ripetessero gli orrori della Seconda Guerra Mondiale). In questi quasi 70 anni di storia non siamo mai riusciti a fare i passi necessari per costruire una federazione di Stati, seguendo l’esempio di quello che hanno fatto invece gli Stati Uniti. Naturalmente, non possiamo paragonare gli Stati americani a quelli dell’UE, i quali differiscono tra loro per lingua, storia, legislazione e tradizioni in un modo che non ha nulla a che vedere con i primi. Questo, però, non dovrebbe impedirci di comprendere che al di là della percezione, giusta o sbagliata che sia, della minaccia militare cui siamo soggetti, mille altre ragioni dovrebbero indurci a unire le forze”.
Come valuti la fattibilità e i limiti della cosiddetta autonomia strategica aperta dell’UE? Quali sono i principali vincoli interni (come i diversi interessi degli Stati membri) e le pressioni esterne da affrontare nel processo di perseguimento di una “autonomia strategica aperta”?
“L’espressione “autonomia strategica aperta” rappresenta un ossimoro, almeno apparente, con cui l’UE vuole affermare la propria autonomia strategica, pur non rinunciando all’apertura della propria economia. In altre parole, l’UE sta riconoscendo che la posizione di apertura totale al mercato e rinuncia a qualunque forma di intervento pubblico nell’economia che aveva perseguito in passato ha fortemente limitato la sua capacità di tenere il passo con i numerosi progressi tecnologici che altri grandi Paesi sono stati in grado di perseguire: gli Stati Uniti, grazie ai grandi afflussi di capitale convogliati dal mondo intero verso la Silicon Valley, che hanno fornito i finanziamenti necessari alle numerose start-up high-tech e la Cina, grazie all’azione combinata di attori privati, imprese statali e sussidi pubblici.
Giudico positivamente, quindi, questo cambio di paradigma. Va ricordato, però, che ciò che l’UE aveva fatto finora in nome del libero mercato e dell’assenza di interventi statali era stato monitorare ogni minima deviazione da questi principi in ogni Paese membro, scoraggiando al contempo la cooperazione trans-europea. Sia Enrico Letta (con le sue suggestive proposte sulla quinta libertà – quella del libero movimento della ricerca, conoscenza, innovazione ed educazione – e del 28° Stato virtuale, che affiancandosi ai regimi giuridici dei 27 Stati e potendo essere invocato al posto di questi permetterebbe di superare gli ostacoli burocratici che limitano la cooperazione fra imprese a livello europeo) sia Mario Draghi (con la sua enfasi su produttività e competitività) stanno incoraggiando un cambiamento di prospettiva circa la necessità di uno sforzo cooperativo fra i Paesi appartenenti all’UE.
Per comprendere l’anomalia europea, del resto, basti pensare a quanto ha osservato Enrico Letta sullo stato delle ferrovie, dove i treni ad alta velocità sono in funzione solo all’interno di ciascun Paese, ma non fra un Paese e l’altro dell’UE.
Va però anche ricordato che il progetto Airbus è stato avviato e condotto a termine da quattro Stati (purtroppo non c’è l’Italia fra questi) contro la volontà dell’UE. L’attuale Boeing, l’UE e l’OMC avrebbero preferito preservare il monopolio aereo mondiale dell’azienda americana, piuttosto che violare la sacra prescrizione di non concedere sussidi governativi e mantenere mercati liberi da ogni interferenza pubblica. Come dicevo, sono quindi molto contento che abbiano cambiato posizione. Sarebbe giusto, tuttavia, riconoscere esplicitamente questo cambiamento di direzione, anche se ciò significa rinnegare esplicitamente la teoria economica neoliberista che è stata seguita finora, cosa che invece non sembrano intenzionati a fare.
Allo stesso tempo, vedo con favore il desiderio di bilanciare la necessità finalmente riconosciuta di una “autonomia strategica” con la necessità di preservare un certo grado di apertura economica. Naturalmente, come già suggerito dalla tua domanda, non sarà un esercizio facile, poiché gli interessi economici dei diversi Paesi europei spingeranno in una direzione o nell’altra, ma è certamente qualcosa che vale la pena di sperimentare. Un tale compromesso tra due esigenze opposte – preservare l’autonomia di una determinata area nell’interesse dei cittadini che vi abitano e non rinunciare ai benefici derivanti dal mantenimento di un certo grado di apertura delle economie – potrebbe persino fornire la direzione per una nuova Globalizzazione 2.0”.
Con le molteplici iniziative internazionali proposte, tra cui la Nuova Via della Seta (2013), l’Iniziativa per lo Sviluppo Globale (2021), l’Iniziativa per la Sicurezza Globale (2022), l’Iniziativa per la Civilizzazione Globale (2023) e l’Iniziativa per la Governance Globale (2025), la Cina è attualmente una delle importanti forze trainanti della globalizzazione. Come vedi l’impatto degli sforzi della Cina sulla globalizzazione? Come reagisce l’UE alle iniziative globali della Cina?
“Le iniziative che citi meritano, a mio avviso, assoluto rispetto. Il solo fatto che la Cina continui a ripetere di puntare alla costruzione di “una comunità con un futuro condiviso per l’umanità” (in contrapposizione all’approccio Make-America-Great-Again, MAGA, o America First, adottato dagli Stati Uniti) è indicativo del fatto che la Cina immagini un mondo multilaterale in cui si tenga conto degli interessi di tutti i Paesi. Spesso si dimentica, ad esempio, che le tanto criticate infrastrutture che la Cina sta fornendo con la BRI sono necessarie ai Paesi che le ricevono, come certificano le rispettive banche regionali in Africa, America Latina e Asia. Il problema, tuttavia, resta la percezione che gli altri attori hanno di queste iniziative. Se il loro pregiudizio è negativo, qualunque sia la ragione che giustifica tale presunzione, allora queste iniziative non troveranno un ambiente accogliente, e questo è molto probabilmente il caso dei Paesi sviluppati nei confronti di tutto quello che è cinese, come se davvero il mondo potesse essere diviso in bianco e nero, buoni e cattivi.
Naturalmente, questo non significa che la Cina sia isolata nel mondo. È un fatto che la BRI, ad esempio, veda l’adesione di più di 150 Paesi sui 194 appartenenti alle Nazioni Unite, per cui l’impatto della Cina sulla globalizzazione economica rimane certamente significativo. Dopo tutto, è vero che la Cina ha bisogno del resto del mondo come destinazione per la propria produzione, ma ha anche bisogno del resto del mondo per le importazioni di petrolio, materie prime, prodotti agricoli e tecnologia necessari alla sopravvivenza della propria gente. Quelle importazioni (ad esempio l’80% del petrolio che si consuma in Cina), così come le esportazioni, in gran parte devono passare dall’imbuto dello Stretto di Malacca, presidiato da Singapore e dalle navi militari americane che lì sono di casa, un aspetto questo che da solo serve a capire la ratio di gran parte delle politiche internazionali seguite dalla Cina e noto come il “dilemma di Malacca” (ma i giornalisti dei media più diffusi, nei dotti articoli monocorde che scrivono su quel Paese, raramente ce lo ricordano, a conferma del fatto che facciamo una gran fatica a considerare il punto di vista e le ragioni degli altri).
Sia quel che sia, è un fatto che l’UE continua a percepire la Cina come un rivale sistemico, ed è anche per questo motivo, ad esempio, che nei programmi di ricerca dell’UE non sono ammessi finanziamenti per la collaborazione scientifica con la Cina nell’innovazione tecnologica. La differenza tra USA e UE nel rapporto con la Cina emerge anche nella terminologia utilizzata: “rivale” è il termine usato dall’UE per riferirsi a quest’ultima, rispetto alla quale sta attuando politiche di de-risking, mentre “avversario” -per fortuna non ancora “nemico”- è la definizione che ne danno gli Stati Uniti, che conseguentemente mirano ad un vero e proprio “disaccoppiamento” dalla Cina.
I diversi sistemi politici si riflettono inevitabilmente nelle alleanze scelte dall’UE, e nelle percezioni (alimentate spesso in maniera acritica dai media) dei suoi cittadini”.
Il processo di globalizzazione emerso dopo il 1980 e che ha iniziato la sua inversione di tendenza dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009 era in gran parte basato sulla teoria del vantaggio comparato e della massimizzazione dei profitti delle imprese multinazionali. Ma nell’attuale contesto di deglobalizzazione, sembra che la cooperazione internazionale sia sempre più influenzata dalla politica e dalle ideologie. Ritieni che sia necessario un nuovo quadro teorico per la globalizzazione? Se sì, rispetto alla base teorica tradizionale, cosa è cambiato o dovrebbe essere rivisto?
“Il paradigma attuale sembra basarsi sull’idea che gli Stati Uniti e l’UE stiano proteggendo i rispettivi Paesi da qualche minaccia esterna alla loro sicurezza, e non introducendo delle semplici e, dal mio punto di vista, anche comprensibili misure protezionistiche. Questo è un punto molto importante, perché suggerisce che il cambiamento di politiche avvenuto negli ultimi anni, che ha portato ad esempio all’adozione di una “nuova politica industriale” nell’UE, non è il risultato di una revisione dell’approccio teorico seguito in passato nella gestione dell’economia: quell’approccio teorico, purtroppo, mantiene la sua validità nonostante il fallimento che ha mostrato. Questo è il motivo per cui le nuove misure che sono state adottate non sono esplicitamente riconosciute come misure “protezionistiche” (il protezionismo implicherebbe la negazione della validità e delle prescrizioni derivanti dall’approccio neoliberale), ma piuttosto “protettive”.
In effetti, la teoria ortodossa del commercio ammette l’imposizione di misure restrittive sul commercio internazionale quando è a rischio la sicurezza di un Paese: non compreremmo armi difensive, né semplicemente stivali per le nostre truppe da un’azienda straniera che gode di un vantaggio comparato rispetto alle aziende nazionali (producendo quindi stivali di migliore qualità a parità di prezzo o viceversa), dato che così facendo metteremmo a rischio la sicurezza del nostro Paese. Quindi, lasciamelo dire ancora una volta, giustificare l’imposizione di misure restrittive con la necessità di proteggersi da qualche minaccia esterna, o con motivazioni di politica internazionale, come sta facendo Trump (basti pensare ai dazi imposti a Brasile e India a cui già avevo fatto riferimento), implica che il quadro teorico che utilizziamo come riferimento economico mantenga la sua validità. Ed è questo ciò che contesto. Diversi economisti (tra cui Dani Rodrik, Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs, per citare solo i più famosi) hanno criticato aspramente l’approccio neoliberista adottato dalla globalizzazione in passato. Essi si sono schierati contro le presunte virtù autoequilibranti di mercati ritenuti efficienti per definizione e a favore di un intervento pubblico, quando necessario per mitigarne i problemi. Quindi, di fronte al fallimento della globalizzazione economica, troverei più giusto riconoscere esplicitamente i fallimenti e i difetti dell’approccio adottato in passato, quello che veniva definito il “Washington consensus”, che implicava, per semplificare, politiche fiscali e monetarie restrittive e liberi mercati, sotto l’assunto che “qualsiasi mercato libero è da preferire a qualsiasi intervento statale”, come mi fu detto anni fa, ad un incontro pubblico, da un noto economista ultra-liberista purtroppo oggi scomparso”.
Come dovrebbero collaborare tutte le parti per evitare una situazione di “perdita” collettiva e guidare la globalizzazione verso una direzione più inclusiva e vantaggiosa?
“Credo che i Paesi debbano rimanere aperti agli scambi reciproci, a condizione che si presti la necessaria attenzione e cura ai perdenti della globalizzazione. Questi ultimi hanno determinato con il loro voto il cambiamento di direzione che i Paesi sviluppati – in primis gli Stati Uniti, ma anche il Regno Unito (si pensi alla Brexit) e i Paesi appartenenti all’UE – hanno preso e stanno prendendo.
Uno sguardo più attento ai dati relativi agli Stati Uniti, tuttavia, mostra qualcosa di piuttosto sorprendente: sia il suo PIL totale, sia il suo PIL pro capite (sia in termini nominali che in termini di parità di potere d’acquisto, cioè corretto per il livello interno dei prezzi), hanno continuato a crescere nel tempo più dell’aumento registrato dall’UE e dal resto del mondo. Non si può quindi affermare che la globalizzazione abbia causato una perdita agli Stati Uniti, come invece continua a sostenere Donald Trump.
Osservando il coefficiente di Gini, un indicatore della disuguaglianza economica, si nota che gli Stati Uniti continuano ad avere il valore di gran lunga maggiore, il che implica una disuguaglianza economica molto più alta di quella degli altri Paesi sviluppati. Questo significa che il problema non è nel processo di globalizzazione economica in sé, visto che è stato in grado di aumentare il reddito degli Stati Uniti e di molti altri Paesi. Tra questi vi è ovviamente anche la Cina, che negli ultimi 40 anni, grazie anche alle politiche che ha seguito, è stata in grado di far uscire dalla povertà estrema circa 800 milioni di persone, praticamente la somma della popolazione intera degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, un risultato ben migliore di quello che India o Brasile – dove ancora una significativa parte della popolazione continua a vivere in bidonville e favelas – sono stati capaci di ottenere.
Il problema sta verosimilmente nell’alto livello di disuguaglianza, derivante dalla mancanza di sufficienti politiche redistributive. Questo gioca certamente un ruolo quando i cittadini statunitensi sono alla ricerca di assistenza sanitaria, che negli Stati Uniti richiede il più alto pagamento out-of-pocket (di tasca propria) rispetto a tutti gli altri Paesi, per non parlare del ruolo delle infrastrutture che facilitano le esigenze di trasporto dei cittadini: solo per fornire un esempio, negli Stati Uniti sono presenti solo tre stazioni ferroviarie ad alta velocità, contro le non meno di 500 stazioni ferroviarie che in Cina sono dedicate esclusivamente all’alta velocità con treni di tipo G che viaggiano a 350-400 kmh e 600 stazioni per treni di tipo D che viaggiano ad una media di 250 Kmh, e con circa 50.000 km di ferrovia ad alta velocità, un numero maggiore del resto del mondo. I dati mostrano, ad esempio, che – in linea con i risultati di Branko Milanovic e della sua famosa “curva dell’elefante” – in Cina è emersa una classe media che ha ridotto il coefficiente di Gini, ossia ha ridotto la disuguaglianza all’interno del Paese.
Nell’affrontare le questioni legate alla globalizzazione, quindi, dobbiamo stare attenti a non “abbaiare all’albero sbagliato”, come direbbero i britannici, incolpando esclusivamente la globalizzazione economica, quando il colpevole principale è la fiducia cieca nel mercato e la mancanza di politiche redistributive che avrebbero invece dovuto accompagnarla: la globalizzazione economica non può essere lasciata operare da sola, come invocano da tempo Dani Rodrik, Joseph Stiglitz e molti altri autori.
Sarebbe quindi necessaria una nuova versione della globalizzazione economica, una Globalizzazione 2.0, che io definirei “globalizzazione illuminata”, caratterizzata dall’inclusività sia interna ai Paesi che esterna, cioè fra Paesi (la mia idea di “globalizzazione illuminata” deriva direttamente da quella di “protezionismo illuminato” che in tempi non sospetti avanzava il compianto Vittorangelo Orati, un economista italiano ingiustamente poco valorizzato). I perdenti della globalizzazione all’interno dei Paesi sono coloro che perdono il lavoro a causa della globalizzazione e non devono essere lasciati soli. Allo stesso tempo, i Paesi non dovrebbero abbandonare interi settori produttivi e affidarsi esclusivamente alle importazioni dall’estero per soddisfare i propri bisogni interni. Dopo tutto, questo è ciò che è accaduto nel processo di integrazione nell’UE, in cui la concorrenza si è basata sulla differenziazione dei prodotti piuttosto che sul principio dei vantaggi comparati, in modo che i consumatori decidano di acquistare i prodotti che trovano più attraenti, senza sacrificare interi settori produttivi, come è il caso invece quando la globalizzazione segue il principio dei vantaggi comparati e la specializzazione produttiva che ne consegue.
Naturalmente, argomentare a favore della protezione dei perdenti della globalizzazione potrebbe lasciare spazio a dubbi e critiche. Ci si può chiedere, ad esempio, perché i perdenti della globalizzazione siano compensati mentre i perdenti a causa dei cambiamenti tecnologici non lo sono. Ad esempio: perché le edicole per la vendita dei giornali non sono state sostenute quando l’informazione è passata online e i loro clienti hanno smesso di comprare quotidiani e riviste? Una possibile soluzione potrebbe essere quella di garantire un reddito di base a tutti i cittadini (naturalmente, i dettagli dovrebbero essere definiti accuratamente per evitare di fornire incentivi sbagliati alle persone), ma forse il ritorno ad una vera progressività della tassazione del reddito – mi riferisco in particolare agli Stati Uniti – è la prima e vera misura politica che viene in mente per ripristinare un grado accettabile di redistribuzione effettiva e per poter dare così almeno dei servizi pubblici efficienti a lavoratori in gran parte terziarizzati (cioè operanti nel settore dei servizi, anche questa una conseguenza che ha a che fare in gran parte con la tecnologia oltre che con la globalizzazione), i cui salari sono in molti casi ben inferiori a quelli che si ottenevano da occupazioni di tipo industriale.
Un’ulteriore dimensione dell’inclusività, quella esterna, tuttavia, relativa alle relazioni tra i Paesi, dovrebbe essere perseguita. La precedente ondata di globalizzazione economica, che aveva escluso i Paesi dell’Africa e dell’Asia centrale, ad esempio, non era inclusiva nemmeno dal punto di vista esterno. Uno dei meriti della BRI cinese, è proprio quello di chiamare in causa molti dei Paesi che erano stati lasciati fuori, cosa che mi fa piacere vedere che l’UE, con il suo programma Global Gateway e i Paesi aderenti al G-7, con la Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII) stanno, almeno in parte, cercando di emulare”.