La nuova Commissione europea del democristiano lussemburghese Jean-Claude Juncker si presenta con una formazione schierata a destra. E nonostante il francese Pierre Moscovici all’economia, con un presumibile continuismo rispetto alle attuali politiche macroeconomiche
È la pena del contrappasso per Pierre Moscovici, ex ministro delle Finanze francese nominato commissario agli Affari economici e finanziari. Compiacente con la City, a cui è stato affidato il controllo dei Servizi finanziari (al britannico euroscettico Jonathan Hill) e con la lobby del petrolio (il Clima è andato allo spagnolo Miguel Arias Canete, che ha nel suo portafoglio privato investimenti in compagnie petrolifere), il democristiano Jean-Claude Juncker ha messo alla gogna Moscovici, che dovrà sorvegliare e punire la Francia, da lui stessa lasciata con un irrisolto deficit di bilancio.
Per impedirgli di avere troppe esitazioni, Moscovici è stato circondato da falchi difensori dell’ortodossia, dal finlandese Jyrki Katanien, potente vicepresidente alla testa del cluster economico con la sorveglianza della «crescita», al lettone Valdis Dombrovskis, altro vice-presidente con la supervisione dell’euro, schieramento liberista completato dal trio Elzbieta Bienkowska (Mercato interno), Cecilia Malmström (Commercio) e Margrethe Vestager (Concorrenza), a cui si aggiunge l’occhio del tedesco Günther Oettinger, altro esponente del centrodestra, all’Economia digitale.
Appena nominato, Moscovici si è precipitato ad affermare che «le regole vanno rispettate». Contemporaneamente, a Parigi, il ministro delle Finanze, Michel Sapin, faceva sapere che la Francia non avrebbe di nuovo rispettato l’impegno del rientro del debito al 3%, malgrado i due anni in più di tempo che le erano stati concessi da Bruxelles. A causa dell’inflazione troppo bassa e della crescita zero, il deficit sarà del 4,4% quest’anno (in crescita rispetto al 2013) e ancora del 4,3% nel 2015, con l’obiettivo di scendere al 3% nel 2017, data al di là di ogni possibile previsione. Parigi si giustifica con le «circostanze eccezionali» della crisi che perdura. Ma il governo Valls, in grandi difficoltà di fronte all’esame del voto di fiducia di martedì prossimo [16 settembre, ndr], con la maggioranza sempre più spaccata, non cambia obiettivi: il calo di 40 miliardi nei contributi delle imprese (un «regalo senza contropartite» per gli oppositori) sarà mantenuto, così come il taglio di 50 miliardi nella spesa pubblica in tre anni, a cominciare dai 21 miliardi del 2015. Di fronte alle derive del deficit pubblico, la destra urla al «rischio Argentina» per la Francia, accusa il governo di imperizia. Il Pcf afferma, al contrario: «Hollande capitola» di fronte ai diktat di Merkel. L’ex ministro Arnaud Montebourg, con la fronda socialista, afferma: «i francesi hanno votato per la sinistra e si ritrovano a subire la politica della destra tedesca».
Hollande aveva scelto la politica dei piccoli passi, evitando lo scontro frontale con la Germania. Questa strada è fallita e adesso la Francia rischia sanzioni per deficit eccessivo. Ma Michel Sapin pensa di avere ancora una freccia al suo arco. Oggi all’Eurogruppo a Milano (i 18 dell’euro), assieme al tedesco Wolgang Schäuble, il ministro presenta un progetto per stimolare la crescita. L’ancora di salvataggio sarà la Bei, la Banca europea di investimento nata con il Trattato di Roma del ’57, ma sottoutilizzata, benché le agenzie di rating la premino con le 3A. L’Ue manca di investimenti: nel 2013 erano ancora complessivamente il 15% in meno rispetto all’inizio della crisi nel 2008. La Bei dovrebbe venire spinta ad investire in progetti più rischiosi, a partire dalla ricapitalizzazione di 10 miliardi avvenuta nel 2012, che le permette un «effetto leva» di 60 miliardi. A questa somma potrebbe aggiungersi un nuovo fondo, garantito dagli stati, che dovrebbe permettere di attirare investimenti privati. E’ da qui che dovrebbero venire i famosi 300 miliardi promessi da Juncker, per finanziare dei projet bonds nei settori promettenti dell’energia, delle telecom, dei trasporti (per le infrastrutture la Commissione ha stanziato 26 miliardi per il periodo 2014-2020, 11,9 già sbloccati). Sono piccoli segnali, qualcosa di muove sul fronte dello stimolo, dopo le prese di posizione della Bce. Ma il fondo resta lo stesso: i cittadini pagano il prezzo del rigore, non solo in Grecia ma anche in Francia la povertà cresce, mentre le élites non vogliono vedere cosa succede. Come ha recentemente affermato la presidente dell’Fmi, Christine Lagarde, nella zona euro «non c’è austerità», poiché la consolidazione finanziaria si limita allo 0,3% del pil. E l’unico ostacolo per la vulgata dell’ortodossia resta la regolamentazione del lavoro, che per Lagarde ormai «bisogna prendere di punta» dove resiste ancora.