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Delega fiscale, il disegno oltre la nebbia

Analizzando i rilievi tecnici – dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, di Bankitalia e del Mef – si delineano gli interessi che vengono privilegiati e i pericoli insiti nel disegno di riforma fiscale del governo Meloni. Una riforma che rischia di scardinare lo Stato sociale, prima di quelle che mireranno all’assetto istituzionale.

Grande è la confusione nel cielo della riforma fiscale prossima ventura e per di più le avvisaglie non promettono niente di buono. Il disegno di legge sulla delega fiscale più che un disegno è uno scarabocchio, tanto che oltre un terzo degli emendamenti al vaglio della commissione Finanze della Camera provengono dalla stessa maggioranza (210 su un totale di 639, di cui 50 di Fratelli d’Italia, 70 della Lega e 90 di Forza Italia). 

Una riforma fiscale era stata raccomandata dalla Commissione di Bruxelles come necessario accompagnamento al Pnrr, ma quella del governo Meloni si delinea, in quei pochi tratti accennati,  come una vera e propria controriforma, forse la peggiore e la più pericolosa tra quelle abbozzate finora, perché indirizzata come una testa d’ariete contro ciò che resta dello Stato sociale. 

Bruxelles l’aveva richiesta con il fine di aumentare l’equità del sistema, ridurne la frammentazione e arginare l’evasione proverbiale dell’Italia. Inoltre la riforma avrebbe dovuto – evidentemente – fornire una base imponibile più solida per dare corso agli obiettivi di modernizzazione del Paese insiti nel Pnrr ma andando oltre il Pnrr, cioè negli anni a venire, anche dopo il 2026, in modo da poter procedere ad assunzioni massicce di personale giovane e potenziare i servizi pubblici essenziali, entrambi obiettivi per cui sono necessari flussi di cassa stabili che il Pnrr non copre. 

Dunque una riforma strutturale e delicata per poter dare risposte a sfide complesse, non solo alla transizione energetica e alla digitalizzazione, un intervento normativo che avrebbe dovuto riassegnare, nientemeno, il ruolo dello Stato nei prossimi decenni, immaginando un futuro di medio termine che sarà presumibilmente segnato da una riduzione della base produttiva e da un invecchiamento della popolazione residente, a meno che non ci sia una diversa politica europea rispetto ai flussi migratori. In ballo, dunque, non c’è solo la sanità, la scuola, il welfare – quello che c’è e quello che ci dovrebbe essere -, ma anche le pensioni, la loro sostenibilità. Fin qui tutto abbastanza chiaro. 

Si dà il caso però che la destra mentre ha vinto a mani basse le elezioni promettendo ai ceti popolari un aumento dei servizi e delle prestazioni – ad esempio un abbattimento delle liste d’attesa ospedaliere ma anche scivoli pensionistici e interventi per favorire famiglia e natalità-, una volta andata al potere si sia messa ad agitare la bandiera opposta, quella della riduzione delle tasse, cioè dello Stato minimo di trumpiana più che di mussoliniana memoria. 

È poi nelle scelte concrete che emergono gli interessi che vengono davvero privilegiati. Volendo fare un check out della riforma fiscale all’esame del Parlamento è dunque fondamentale leggere ciò che ha scritto l’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb) nella memoria resa pubblica alla data del 25 maggio scorso. 

I tecnici fanno rilievi da tecnici, non di natura politica. E non hanno fatto sconti all’attuale esecutivo mettendo in rilievo numerose incongruenze e una sostanziale insostenibilità del percorso riformatore improntato a un tendenziale approdo di flat tax per tutti. Fanno notare che “i principi generali del disegno di legge di delega fiscale sono diretti alla riduzione del carico tributario” ma che ciò, se non si individuano altre fonti da tassare, può solo rischiare di aumentare l’indebitamento netto dello Stato e imputano inoltre al disegno di legge di non essere sostenibile nel medio-lungo termine in funzione dell’invecchiamento della popolazione italiana e dei bisogni crescenti di servizi pubblici. Soltanto l’abolizione dell’Irap – scrivono i tecnici al servizio del Parlamento – risulta avere indicata una compensazione. E spiegano come: si vuole eliminare questa tassa per le imprese individuali o legate ad associazioni categoriali e compensare questo mancato introito con una sovrimposta Ires, cioè tassando di più le imprese più grandi. Cioè quelle che già oggi evadono di meno, fanno maggiori investimenti e sono mediamente più proiettate verso l’export. 

Che la riforma fiscale meloniana sia fumosa nelle coperture, del resto, lo ha ricordato anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle sue ultime Considerazioni finali. Visco ha ricordato infatti che sarà indispensabile «l’identificazione di coperture strutturali adeguate e certe» per «ogni eventuale aumento di spesa o riduzione di entrata, anche nell’ambito di riforme già annunciate quali quella del fisco o dell’autonomia differenziata». 

Ma torniamo al dettaglio. 

Quanto alla tassazione sul lavoro, Giorgia Meloni ha ribadito nell’ultimo incontro con le delegazioni sindacali a Palazzo Chigi che intende “ridurre progressivamente le aliquote Irpef” e “ampliare sensibilmente lo scaglione più basso”. Il suo “chiarimento” è arrivato dopo la pubblicazione della memoria Upb ma ha fatto in tempo ad essere analizzato dai tecnici di Bankitalia prima del discorso di Visco. 

Secondo gli economisti di Palazzo Koch si tratta di un piccolo beneficio per un grande esborso, visto l’alto numero dei beneficiari di questo allargamento dello scaglione intermedio. Se la soglia del primo scaglione salisse, ad esempio, da 15 a 20 mila euro, i 5,4 milioni di contribuenti che ne fanno parte avrebbero un guadagno dal taglio dell’aliquota (dal 25 al 23%) di appena 37 euro in media all’anno, cioè 3 euro al mese. Quelli che hanno un reddito da lavoro sopra i 20 mila euro annui avrebbero 100 euro in più e si tratta di altri 19 milioni di contribuenti. Costo per lo Stato di questa operazione: oltre 2 miliardi.

Sempre sulla tassazione dei redditi da lavoro l’Upb, dal canto suo, chiarisce che delle attuali 4 aliquote Irpef rimaste (fino a 15 mila euro l’anno tassazione al 23%, dai 15 ai 28 mila euro al 25%, dal 28 ai 50 mila al 35% e oltre i 50 mila tutti al 43%), il secondo scaglione, quello della maggior parte dei lavoratori dipendenti, sopperisce al 60 per cento dell’intero gettito fiscale e invece è rappresentato soltanto dal 14 per cento dei contribuenti. Il che significa che i lavoratori dipendenti reggono sulle proprie spalle quasi interamente il peso dell’erario, pagando anche per chi non paga. Ma vuol dire anche che un piccolo sgravio per loro, sostanzialmente insignificante per il bilancio familiare di ciascuno, può avere un impatto devastante per le finanze pubbliche, con riflessi pesanti in termini di prestazioni mancanti per loro stessi, contribuenti onesti.

Passando anche gradualmente, come chiede Confindustria, a un sistema che appiattisce la tassazione verso un’aliquota unica – la “flat tax incrementale” che fa da bandiera alla riforma targata Meloni – l’effetto calcolato dall’Ufficio parlamentare di Bilancio sarà quello di “penalizzare i soggetti con redditi medi e favorire quelli con redditi elevati”, già appiattiti nella lunga coda dello scaglione finale. Ci sarà pertanto una “ulteriore compressione della progressività dell’imposta”. E incrementando bonus e detrazioni in un sistema già frammentassimo, ci sarà una ancora minore equità orizzontale. Il che significa che non tutti quelli che hanno una medesima situazione reddituale, hanno lo stesso carico fiscale, magari soltanto per uno sgravio che ad altri non è riconosciuto come far parte di una banda musicale.

Nella memoria dell’Upb si fa presente poi che il progetto di riforma favorirà i redditi agrari mentre per quanto riguarda il patrimonio immobiliare e la tassazione sulla finanza tutto rimane immutato, mummificato, si potrebbe dire. Con il netto diniego a procedere a una riforma del catasto che ci chiede l’Europa, verranno agevolati i fabbricati più antichi nei centri storici. 

Infine c’è l’Iva, una tassa che secondo i tecnici del Mef produce 25,2 miliardi di gettito annuo, che però soltanto pochi anni fa, nel 2015, ne produceva 39,9 di miliardi. La propensione all’evasione fiscale, spiegano i tecnici del ministero di Giorgetti, tra i lavoratori autonomi soggetti al pagamento dell’Iva, commercianti inclusi, raggiungendo il 69,7 per cento, la più alta. Ma per la presidente del Consiglio Meloni “la lotta all’evasione contro i commercianti spesso si configura come pizzo di Stato”. 

Si deve considerare che l’evasione fiscale in base ai dati dell’Agenzia delle Entrate “sfoga” ogni anno all’incirca 90 miliardi, qualcosa come due, tre, anche quattro manovre di bilancio. C’è chi considera l’evasione fiscale “una tassa occulta per tutti quelli che pagano le tasse”. Ma evidentemente non c’è nessuno del governo che lo pensa. 

Il quadro ora è chiaro, sia per quanto riguarda gli interessi che l’esecutivo Meloni intende tutelare, anzi privilegiare, sia per chi invece ha tutto da perdere dalla riforma. Il testo della delega fiscale, visti i tanti emendamenti, potrà subire modifiche ma il governo e la sua ampia maggioranza sono determinati a farlo passare a luglio in entrambi i rami del Parlamento perché veda la luce entro l’anno. 

Restano da ricordare le parole di Vincenzo Visco, autore della riforma fiscale del 1998, riguardo al taglio del cuneo fiscale, unico ristoro che la premier offre ai sindacati per i bassi salari erosi dal carovita, per le disuguaglianze crescenti e per i tagli del welfare, presenti e futuri. Dice Visco: “Tutti i contributi – inteso previdenziali e fiscali ndr – sono da considerare salario differito ed è quindi sbagliato cercare di aumentare i salari così”. Tradotto in altre parole: se anche i lavoratori pagando meno tasse avranno qualche soldo in più nel borsellino, dovranno poi sborsare molti denari per avere prestazioni private di servizi un tempo pubblici. Sta già avvenendo nella sanità, ma c’è ancora molto welfare da privatizzare, a cominciare dalle pensioni. Ma questo non è il contrario di ciò che le forze di maggioranza avevano promesso in campagna elettorale?