Il peggiorare del rapporto tra debito pubblico e Pil dipende più dalla bassa crescita che dai saldi di spesa. Serve un quadro europeo per la gestione del debito che eviti attacchi speculativi e lasci spazio a politiche espansive.
Sembra esistere un grande consenso sulla necessità di procedere ad una profonda revisione delle regole europee di bilancio, ancora in vigore anche se temporaneamente sospese. Richiamando i termini essenziali, le regole europee prevedono che l’obiettivo di un rapporto fra debito pubblico e prodotto interno, posto al 60%, debba e possa essere raggiunto limitando l’indebitamento annuale al 3%, perseguendo il pareggio del bilancio strutturale (stimato sulla base del prodotto potenziale al netto del ciclo di ogni paese) e vincolando la crescita della spesa pubblica, opportunamente definita, alla crescita del prodotto potenziale.
La pandemia ha reso inapplicabili, al di là di quanto già non lo fossero, queste regole: nel 2020, due anni fa, 10 paesi registravano disavanzi superiori al 3% e 14 superavano la soglia canonica del rapporto debito prodotto. In questo quadro, anche per effetto di una forte caduta dei livelli di attività in tutti i paesi, è stata attivata la clausola generale di salvaguardia, che ha consentito la sospensione dei vincoli di bilancio pubblico nel 2021. La sospensione è stata prorogata per il 2022, anche se sono rimaste in vigore le procedure per la valutazione dei disavanzi successivi. Il problema dell’adozione di nuove regole o del ripristino di quelle vecchie si pone dunque per il 2023.
Il sistema di regole vigenti è giudicato eccessivamente complesso, per il progressivo accumularsi di norme e di eccezioni, e poco trasparente, per il ricorso a stime di grandezze non osservabili e difficilmente quantificabili come il prodotto potenziale. Ne derivano, come da tempo sottolineato, elementi di arbitrarietà nei processi decisionali dell’Unione.
Data la valutazione critica ampiamente condivisa delle regole esistenti, sono state formulate proposte di riforma che si differenziano per il grado d’innovazione rispetto al sistema attualmente in vigore (per una sintesi delle varie proposte si veda Memoria della Banca d’Italia, Indagine conoscitiva sulla Conferenza sul futuro dell’Europa, Commissioni congiunte 3^ e 14^ del Senato, e III e XIV della Camera dei Deputati, 7 dicembre 2021). Alcune proposte prevedono l’innalzamento del rapporto ‘obiettivo’ tra debito e prodotto al 100%, continuando ad attribuire, qualunque sia la soglia ammessa, un ruolo centrale al criterio della sostenibilità del debito. Questo concetto può essere diversamente interpretato, dall’assenza di pericolo di una crescita esplosiva del debito, date le variabili macroeconomiche del paese, all’impossibilità di rifinanziamento del debito in scadenza. Alcune proposte vorrebbero definire obiettivi di riduzione parziale del debito, verificabili e riformulabili a scadenza periodica, ad esempio, ogni cinque o dieci anni.
In generale, si richiede che lo strumento operativo per il raggiungimento degli obiettivi di debito sia una regola di evoluzione della spesa, distinguendo fra spese correnti (con ulteriori distinzioni al loro interno) e spese in conto capitale, che per definizione dovrebbero garantire nel prosieguo del tempo più elevati tassi di crescita.
Infine, alcune proposte prevedono la costituzione di un’Agenzia europea che dovrebbe assicurare una gestione ordinata del debito pubblico, mantenendosi comunque lontani dalla mutualizzazione del debito. In particolare, a questa Agenzia dovrebbe essere affidata, nell’ipotesi minimale, la gestione del maggiore debito provocato dalla pandemia. I singoli Stati sarebbero obbligati a versare gli interessi dovuti sul debito trasferito, che sarebbe comunque rinnovato alla scadenza. In altra ipotesi, più radicale, all’Agenzia dovrebbe essere progressivamente trasferito tutto il debito progressivamente giunto a scadenza. Ogni Stato dovrebbe poi corrispondere sul debito originato al suo interno un tasso d’interesse commisurato al rischio specifico, sulla base di criteri non del tutto incontrovertibili. Con queste proposte si vorrebbero circoscrivere gli effetti di fenomeni speculativi che tendono a colpire asimmetricamente gli Stati dell’Unione, spesso prescindendo da ogni giustificazione economica.
Le proposte finora presentate si collocano nel quadro normativo esistente, seppur con correttivi anche significativi. Una proposta alternativa postula al contrario il superamento delle regole precedenti, e l’adozione di standard di gestione della finanza pubblica compatibili con un’evoluzione ordinata, o sostenibile, del debito pubblico nel medio periodo (Blanchard, O. et al, Redisigning EU Fiscal Rules: From Rules to Standards, PIIE Peterson Institute for International Economics, Working Papers, February 2021). Gli standard sono prescrizioni qualitative finalizzate al mantenimento di condizioni di sostenibilità del debito, formulate ex ante e oggetto di valutazione in termini del loro soddisfacimento ex post.
Conviene ricordare che si possono riscontrare numerosi esempi di regole proposte o introdotte al fine di vincolare il comportamento di governi e parlamenti. Da quella storica di Wicksell che richiedeva l’unanimità delle deliberazioni, una volta assicurata la giustizia distributiva, alla sempre utilizzata distinzione fra parte corrente del bilancio (da mantenere in equilibrio) e parte in conto capitale (per la quale l’indebitamento era ammesso nell’assunto gratificante che il maggior reddito nazionale che ne sarebbe conseguito avrebbe consentito il rimborso del debito).
Qui vorrei ricordare una regola introdotta nel 1985 negli Stati Uniti. In quell’anno fu varata la legge Gramm-Rudman-Hollings che prevedeva di prefissare il disavanzo ammesso in ogni esercizio fino al raggiungimento dell’equilibrio di bilancio; in caso di mancato rispetto del sentiero di riequilibrio era prevista una riduzione automatica di alcune categorie di spesa. Sempre manipolata nella sua applicazione, dopo alcuni anni la legge cadde nel dimenticatoio, anche perché la forte crescita dell’economia americana portò il bilancio federale in avanzo della seconda parte degli anni ‘90 del secolo scorso. Negli anni successivi, per effetto anche delle diverse crisi che colpirono l’economia americana, il bilancio tornò in disavanzo: nessuno pensò, tuttavia, di ritornare alle disposizioni della Gramm. Si seguirono, almeno fino al 2016, standard di ragionevolezza.
Una valutazione critica del significato e della portata delle regole più o meno rigide di finanza pubblica può essere fatta facendo riferimento alle tematiche proprie della finanza funzionale keynesiana: il saldo di bilancio, oltre che discendere da scelte discrezionali di governi e parlamenti, dipende in molte circostanze dal più generale andamento macroeconomico. Il punto è stato perfettamente inquadrato da Marcello De Cecco, in una delle sue numerose illuminazioni, con riferimento alla dinamica del rapporto tra debito e prodotto del nostro paese a partire dai decenni post unitari: “Ci sono alcune deformazioni professionali: quelle degli economisti internazionali che pensano che il cane muova la coda e quella degli economisti nazionali e degli storici economici che pensano che la coda muova il cane” (Ente Einaudi, Il disavanzo pubblico in Italia, vol.II, Bologna 1992, p.143). Anche se gli economisti che privilegiano la coda sono ampiamente rappresentati negli organi dell’Unione europea e in molti Stati che ne fanno parte, può darsi che in alcuni casi la coda possa muoversi autonomamente per sconsiderate scelte di bilancio (come è accaduto a mio giudizio in Italia nel 1979-80, quando si volevano evitare gli effetti recessivi della seconda crisi petrolifera isolando il nostro paese dal resto del mondo). Ma, in generale, l’esperienza storica dimostra che è il cane a muoversi, cioè è l’andamento macroeconomico a determinare l’evoluzione dei conti pubblici e del rapporto tra debito e prodotto, ormai assunto a riferimento fondamentale della valutazione della situazione economica di un paese.
Esaminiamo a questo punto come hanno funzionato nel nuovo secolo le regole europee, che si vorrebbero riformulare, nei quattro maggiori paesi europei (Francia, Germania, Italia e Spagna). Il rapporto tra debito e prodotto si è mantenuto di poco al disopra del 60% in Germania a partire dal 2003 e fino al 2020, salvo un temporaneo incremento per effetto della crisi finanziaria del 2008. La pandemia ha a sua volta determinato un incremento del rapporto dal 59% nel 2019 al 69% nel 2020.
Ben diverso è stato l’andamento negli altri paesi. La Francia, sempre a partire dal 2003, ha registrato un incremento di 51 punti percentuali, da 64 a 115. La Spagna, colpita con particolare violenza dalla crisi del 2008, ha visto aumentare il rapporto debito prodotto di 72 punti percentuali, da 48 a 120. L’Italia, che partiva nel 2003 da un livello del rapporto superiore al 100%, nel 2020 ha raggiunto il livello di 155% con un incremento rispetto all’anno base di 50 punti, 19 dei quali riconducibili agli effetti della pandemia.
Ci possiamo chiedere se l’evoluzione del rapporto tra debito e prodotto per tre dei quattro paesi considerati, pur prescindendo dalle conseguenze della pandemia, debba essere attribuita al mancato rispetto delle regole operative riguardanti indebitamento annuale e dinamica della spesa, in particolare, corrente. Considerando in primo luogo la regola del 3%, pur con uno sforamento di un punto in media negli anni 2009-2011, l’indebitamento netto dell’Italia è stato fino al 2019 al di sotto del 3%; nel 2019 è stato conseguito il disavanzo minimo degli ultimi 50 anni, l’1,9% del Pil. Questo contenimento dell’indebitamento netto è stato consentito da saldi primari – entrate correnti meno spese correnti, escludendo gli interessi pagati sul debito – sistematicamente positivi (l’unica eccezione risale al 2009).
Gli squilibri misurati da questi indicatori sono stati sistematicamente superiori in Francia e Spagna che hanno ripetutamente superato il tetto del 3% con saldi primari negativi. Si distingue la situazione della finanza pubblica tedesca, che nel 2019 registrava un surplus nei conti pubblici, con un avanzo primario superiore di meno di un punto a quello dell’Italia (tutti i dati sono tratti da Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione europea, dicembre 2021).
La seconda regola operativa riguarda l’evoluzione della spesa pubblica, molto spesso limitata alla parte corrente, al netto dell’incremento di entrate non temporanee e degli interessi sul debito pubblico. In Italia l’aumento delle spese correnti al netto degli interessi è stato pari, sempre nell’intervallo 2003-2019, a 4 punti percentuali di Pil, cui ha corrisposto un aumento della pressione fiscale di 2,6. In Spagna l’aumento netto è stato pari a 4,9 e in Francia di 0,6. L’eccezione è naturalmente costituito dalla Germania che ha diminuito la spesa corrente di 0,9 e aumentato la pressione fiscale di 1,4 con risultati comunque limitati in termini di riduzione del rapporto.
Non sembra che gli esiti, se guardiamo all’andamento del rapporto tra debito e prodotto, abbiano corrisposto alle aspettative riconducibili alle regole adottate. Soprattutto, come da altri osservato, non sembra che esista una correlazione stretta fra i saldi del bilancio, comunque definiti, e l’evoluzione del debito. Con riferimento all’Italia, il rispetto sostanziale delle regole di bilancio europee è stato associato ad un incremento di circa 50 punti o, se si escludono gli effetti delle due crisi di questo secolo, di circa 20 punti. Altri fattori hanno certamente operato o, riprendendo l’indicazione di de Cecco, si deve esaminare il comportamento del cane e non solo della coda.
Com’è noto, il livello e le variazioni del rapporto tra debito e prodotto sono determinati essenzialmente dal saldo primario dei conti pubblici e dalla differenza fra costo medio del debito pubblico e il tasso di crescita del prodotto interno. Nella Relazione annuale della Banca d’Italia sul 2020 (pag. 121) la scomposizione della variazione dimostra che il saldo primario positivo è stato sistematicamente compensato dal divario fra contributo interessi e contributo crescita; di conseguenza, negli anni che vanno dal 2014 al 2019 il rapporto tra debito e prodotto è rimasto sostanzialmente invariato, nonostante il rispetto delle prescrizioni europee.
Il perseguimento dell’obiettivo di riduzione del rapporto tra debito e prodotto richiede dunque un’indagine riguardante le cause che hanno determinato nel nostro paese, ormai da molti decenni, un tasso di crescita inferiore a quello della generalità dei paesi europei e tassi di interesse relativamente elevati.
La stagnazione, assoluta e relativa, dell’economia italiana è testimoniata dal fatto che il tasso di crescita medio è stato in questo secolo inferiore all’1%, quando le economie a noi comparabili si avvicinavano nell’arco di un ventennio al 2. Al di là del dato aggregato, il World Economic Outlook del Fondo Monetario indica che in Italia la media dei tassi annui di crescita dei consumi famigliari fra il 2003 e il 2019 è stata solo marginalmente positiva (0,2%) contro incrementi medi superiori all’1% in Francia e in Germania.
Con fondamento si può presumere che i consumi abbiano risentito di una sostanziale stagnazione delle retribuzioni: seguendo la Banca d’Italia, nel periodo cha va dal 2013 al 2017, in linea con i decenni precedenti, “i salari sono cresciuti di appena l’1% all’anno contro l’1,7 degli altri paesi dell’area euro” (Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2017, p.27). Non sembra azzardato affermare che un aggiustamento della nostra finanza pubblica richiede, là dove non si pongono problemi nelle partite correnti dei conti con l’estero, un quadro macroeconomico appropriato, a partire dal versante retributivo.
Nelle vicende italiane più recenti si trova ulteriore conferma di quanto ha dimostrato Paul de Grauwe alcuni anni fa (Panic–driven austerity, Vox, 21 February 2013): le politiche di austerità in un contesto economico di relativa stagnazione inducono incrementi del rapporto debito prodotto, rendendo di fatto irrilevante prefissare i parametri numerici di finanza pubblica al fine di ridurre tale rapporto.
Come osservato, il costo del finanziamento del debito pubblico contribuisce all’evoluzione del rapporto fra debito e prodotto. Il divario del Btp decennale nei confronti in particolare del Bund tedesco è sempre stato elevato. Dopo gli straordinari livelli raggiunti attorno al 2011, il divario si è progressivamente ristretto, collocandosi fra l’1 e il 2% negli ultimi anni. Rimane il fatto che la determinante del rapporto tra debito e prodotto denominata dalla Banca d’Italia “contributo interessi” ha inciso negli ultimi in media per il 3,5%, provocando di fatto l’impossibilità, in presenza di bassa crescita e nonostante il consistente avanzo primario, di ridimensionare il rapporto tra debito e prodotto.
L’attenzione concentrata esclusivamente sulle dimensioni del rapporto tra debito e prodotto è stata – e potrebbe essere in futuro – un forte stimolo a comportanti speculativi. Da questa considerazione discende la rilevanza, e l’urgenza dopo la pandemia, delle proposte di creazione di organi comunitari che abbiano il compito di garantire una gestione ordinata del mercato dei titoli pubblici. Una gestione accentrata a livello europeo del debito dei singoli Stati, pur prescindendo da ogni ipotesi di mutualizzazione di hamiltoniana memoria, potrebbe essere uno strumento utile al fine di annullare pretesti per attacchi contro i corsi dei titoli di stato italiani quali si sono verificati in passato. Il sistema di gestione del debito dovrebbe, in altri termini, dimostrare l’infondatezza, in un contesto opportunamente regolato, di ipotesi di default del debito pubblico italiano. E dobbiamo ricordare che siamo in un paese in cui, sempre per citare de Cecco, è sempre stato difficile convincere le classi abbienti a detenere i loro patrimoni finanziari o in valuta nazionale o entro i confini del paese.
In una corretta lettura del quadro finanziario italiano dovrebbero valere anche altre considerazioni. Se è vero che in rapporto al prodotto il nostro debito pubblico è particolarmente elevato, è anche vero che fino allo scoppio della pandemia, all’inizio del 2020, in termini assoluti il nostro debito era di poco inferiore a quello francese (2.573 miliardi di euro contro 2.650), mentre quello tedesco era più basso di circa 300 miliardi. La vita media residua dei titoli pubblici italiani era di poco inferiore ai 7 anni, come in Germania; solo in Francia raggiungeva gli 8 anni. Si aggiunga che la quota di titoli pubblici italiani detenuta da non residenti era pari al 36% contro percentuali sensibilmente superiori, intorno al 60%, per Francia e Germania. Ne segue che il ricorso annuale ai mercati finanziari internazionali e interni è in Italia del tutto assimilabile a quello dei maggiori paesi europei (Banca d’Italia, Rapporto sulla stabilità finanziaria, Numero 2/2021 novembre, p.67).
Rimane poi aperto il problema di individuare i criteri sulla base dei quali deve essere valutata la solidità di un sistema finanziario di un paese nel suo complesso, pubblico e privato. Nella Relazione annuale sul 2019 è stato sottolineato che “la ricchezza reale e finanziaria delle famiglie italiane è elevata e che il debito delle famiglie è basso nel confronto internazionale. Nel complesso il debito privato era pari al 110 del pil, oltre cinquanta punti in meno del valor medio dell’eurozona”. Non si deve poi dimenticare che le grandi crisi finanziarie degli ultimi anni negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Spagna hanno avuto origine nel comparto privato e trovato soluzione con massicci interventi pubblici.
Le precedenti considerazioni non intendono minimizzare la portata dei problemi che il sistema finanziario pubblico dovrà affrontare nel futuro; si vuole tuttavia affermare che un’analisi approfondita della realtà è il presupposto ineliminabile per l’adozione di soluzioni appropriate, evitando la formazione di aspettative infondate che tendono ad autorealizzarsi.
È stato correttamente affermato che semplici regole di finanza pubblica non sono sufficienti per ottenere gli esiti desiderati. È necessario che queste regole siano inserite in un quadro istituzionale appropriato, un quadro che non è ora assicurato dall’attuale assetto europeo, in particolare nella gestione dei debiti pubblici nazionali. E’ inoltre necessario che le politiche economiche a livello nazionale ed europeo consentano la piena valorizzazione delle capacità produttive dell’Unione, evitando qualsiasi effetto stagnazionista.
Solo in un quadro istituzionale compiuto le nuove regole di bilancio europee, preferibilmente fondate su standard e non su numeri, potranno, più che evitare nuovi squilibri, correggere le eredità negative del passato. In un contesto che resti inadeguato, tuttavia, è del tutto verosimile che anche le nuove regole o risultino inefficaci, o producano effetti perversi.