Top menu

De profundis per l’ex Ilva? C’è un’altra via

Ennesimo rinvio sotto Natale di ogni decisione sull’ex Ilva di Taranto mentre restano al palo sia la salute sia il lavoro. Il governo cerca di rassicurare ma intanto non assume il controllo. Eppure le alternative alla. morte per consunzione ci sono: idrogeno e acciaio verde. E servono all’auto elettrica.

Spegnimento per consunzione è la locuzione più gettonata per definire il destino dell’impianto siderurgico ex Ilva di Taranto. Obsoleti e inquinanti gli aggettivi associati agli impianti. Disperata la resistenza che caratterizza la mobilitazione dei lavoratori. Rassegnata la comunità tarantina. Deprimente lo spettacolo che va in scena da mesi tra i due soci di Acciaierie d’Italia, il franco-indiano Arcelor Mittal, che detiene il 62 per cento delle quote, e Invitalia, il braccio finanziario dello Stato, al 38 per cento. Inaffidabile è l’eufemismo per definire il comportamento del socio privato. Inerme e sotto ricatto quello del Governo italiano. 

Parliamo di un impianto nazionale considerato dal 2012 strategico, l’unica acciaieria rimasta in Italia a ciclo integrale (il più inquinante), dopo la chiusura di Cornigliano, Piombino, Trieste. Il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, oramai solo per la sua imponente mole e non già per la produzione di acciaio, scesa ai minimi storici, a 3 milioni di tonnellate annue, superata dall’acciaieria Arvedi di Cremona. 

E nonostante la diminuzione della produzione, secondo i rilievi dell’Arpa Puglia, le emissioni di PM10 e benzene a Taranto sono passate da una media annuale di 3,3 microgrammi per metro cubo di aria nel 2022 ad una di 4 quest’anno. Dopo oltre undici anni dal sequestro giudiziario dell’area a caldo e numerosi decreti per garantire la produzione dell’acciaio, la situazione è peggiorata. Non si è riusciti a tutelare né salute, né ambiente, né lavoro: pende il giudizio della Corte di Giustizia Europea, continua a mancare la valutazione preventiva dell’impatto sanitario e gli interventi del piano ambientale AIA non sono stati conclusi; migliaia di lavoratori sono in cassa integrazione (su 8.200 dipendenti non collocati in amministrazione straordinaria ben 2.500 sono in cassa integrazione); 50 aziende metalmeccaniche dell’indotto hanno annunciato che non riusciranno a pagare gli stipendi ai loro dipendenti per il mancato pagamento di Acciaierie d’Italia; rimane il rischio concreto di interruzione della fornitura di gas da parte di Snam, per mancanza di risorse economiche: il provvedimento del Tar Lombardia  del 10 novembre ha posticipato la decisione al prossimo gennaio nella speranza che nel frattempo fosse chiarita la situazione.

Nel frattempo, però, dopo ben tre assemblee dei due soci non si è ancora chiarito alcunché. Il socio privato Arcelor Mittal non intende mettere soldi propri, né per il prosieguo dell’attività oramai al collasso (urgente il fabbisogno di 320 milioni di euro), né per investire nell’innovazione degli impianti e la decarbonizzazione. 

Il socio pubblico che fa? Aspetta inerme le decisioni del socio privato. 

Nell’incontro del 20 dicembre, che il Governo ha “concesso” ai sindacati, quattro ministri e altrettanti sottosegretari non hanno saputo dare risposte, rimandando a dopo l’ennesima assemblea dei soci fissata per il 22 dicembre, a sua volta rinviata in attesa di un consiglio di amministrazione convocato per il 28 dicembre. Il ministro Urso ha dichiarato che “ci sarà un altro tavolo di lavoro, anche con i sindacati”. L’inconcludenza a cui assistiamo, per una partita industriale così decisiva, è data dal fatto che una parte del Governo ritiene di dover insistere sulla strada del negoziato con Arcelor Mittal, contro ogni evidenza della inaffidabilità dimostrata dalla multinazionale.   

Ci sono alternative? I sindacati chiedono da tempo e con forza che sia lo Stato ad assumere il controllo dell’azienda. Uno dei maggiori esperti italiani di siderurgia, il professor Carlo Mapelli del Politecnico di Milano, in una recente intervista ha affermato che un’alternativa sarebbe la messa in liquidazione della società Acciaierie d’Italia per poi “consegnare” ad una realtà privata il sito produttivo a fronte di un piano industriale credibile. La liquidazione si giustificherebbe con l’esigenza di operare una cesura netta con il passato, visti i troppi rischi dati dalla poca trasparente esposizione finanziaria accumulata.  

Alternative diverse, ma tutti escludono che il siderurgico tarantino possa avere un futuro se a gestirlo rimane Arcelor Mittal, perché ha dimostrato negli anni e nei fatti di non avere interesse ad investire nell’impianto jonico. 

Taranto continua a pagare un prezzo altissimo per l’inquinamento, se si mandasse in malora la fabbrica i danni per l’ambiente e per la salute sarebbero ingenti, l’esempio di Bagnoli sta a dimostrarlo. Non possiamo permetterci di perdere altro tempo, va individuata subito una governance che affronti con decisione il processo di decarbonizzazione, senza tentennamenti e scorciatoie. 

Il processo di produzione con altoforno e convertitore produce 2 Kg di CO2 per ogni Kg di acciaio prodotto. La politica europea sul clima prevede che i permessi gratuiti per l’emissione di CO2 per tonnellata andranno gradualmente eliminati tra il 2026 e il 2034 e costeranno sempre di più. L’innovazione per i settori industriali è quindi obbligatoria per continuare a stare sul mercato. Quanto all’inquinamento locale, il tributo di malati e morti già pagato dai cittadini di Taranto e dai lavoratori ex Ilva è alto, la salute delle persone non può più essere sacrificata. Gli epidemiologi stimano che ogni microgrammo per metro cubo di PM2,5 in meno eviterebbe da 12 a 18 decessi l’anno (in media 6,8 casi attribuibili per 100.000 abitanti; 7,54/100.000 abitanti nel quartiere Tamburi).

Taranto può continuare a produrre acciaio primario, utilizzando la materia prima di minerale di ferro, a condizione che si cambi il processo produttivo dell’area caldo, la più inquinante, e si faccia a meno del carbone, di altoforni e cokerie.  

È già matura la tecnologia DRI H2 based (Direct Reduced Iron – preridotto) e ad arco elettrico (EAF). È realtà in diverse parti del mondo come l’India (28 milioni di tonnellate (Mt)/anno di capacità DRI) e l’Iran (26 Mt/anno di capacità DRI). In Europa nuovi impianti sono in costruzione in diversi Stati. E sono già quattro gli esempi europei cui è possibile ispirarsi: la Svezia con il modello HYBRIT che grazie a un impianto DRI a idrogeno verde punta a produrre dal 2026 1,3 Mt l’anno di acciaio pulito, per arrivare a 2,7 Mt nel 2030 e la H2 Green Steel che punta invece a produrre 5 Mt di acciaio verde a Boden (avvio della produzione previsto entro la fine del 2025); la Finlandia dove la Blastr Green Steel vuole investire 4 miliardi  di euro per produrre 2,5 milioni di tonnellate (Mt) di acciaio low carbon dal 2026 utilizzando idrogeno verde; la Germania che punta a produrre 100mila tonnellate l’anno di acciaio tramite idrogeno grigio ottenuto dal gas, per poi passare all’idrogeno verde, tramite un progetto avviato nel 2019 proprio da Arcelor-Mittal che prevede un investimento di 65 milioni di euro per sperimentare la produzione di acciaio verde ad Amburgo; e infine l’Austria, che con il progetto H2FUTURE, finanziato dall’Unione europea, ha costruito a Linz quello che attualmente è il più grande impianto pilota per la produzione di idrogeno per l’industria siderurgica.

A Taranto, un forno a riduzione diretta potrebbe entrare in funzione già nel 2026, alimentato dapprima a gas naturale e in futuro con idrogeno prodotto da fonti rinnovabili. La decarbonizzazione dei settori hard to abate, (quelli più inquinanti ed energivori) come la siderurgia, è collegata strettamente all’incremento e ad una veloce transizione del settore elettrico verso le rinnovabili presenti sul territorio nazionale. 

Ma è un paese strano l’Italia se ad assumersi la responsabilità di indicare la strada per continuare a produrre acciaio a Taranto salvaguardando salute, lavoro e ambiente debba essere un’associazione ambientalista.

Lo ha fatto Legambiente a metà novembre con il convegno “L’acciaio oltre il carbone” che ha visto la partecipazione di esperti e ricercatori, rappresentanti delle istituzioni e delle parti sociali, innovative aziende europee del settore siderurgico e referenti istituzionali europei. Inoltre, uno studio sempre commissionato da Legambiente dimostra che dal punto di vista occupazionale, con l’adozione della tecnologia DRI, a fronte di un modesto calo dei posti di lavoro nell’industria siderurgica, corrisponderebbe un’enorme graduale crescita di forza lavoro qualificata, che nel 2050 raggiungerà 900.000 addetti, per la realizzazione, gestione e manutenzione degli impianti a FER.

Insomma, la strada da percorrere la conosciamo: per salvare l’ex Ilva, siderurgia e rinnovabili devono convivere, le tecnologiche ci sono. 

Cercasi però un’azione politica coraggiosa e una strategia industriale.