Un gruppo di studiosi di diversi atenei analizza gli effetti economici delle politiche tariffarie Usa dal Liberation day in poi in un incontro organizzato all’Università di Urbino in collaborazione con la Società Italiana di Economia.
Dopo mesi di tempesta, la tregua tra Stati Uniti e Cina porta un po’ di calma nelle acque agitate del commercio internazionale. Lunedì 12 maggio, a soli due giorni dall’entrata in vigore ufficiale della pace commerciale, un gruppo di studiosi di diversi atenei si è riunito analizzando la questione dei dazi da differenti prospettive in un dibattito aperto al pubblico organizzato dall’Università di Urbino in collaborazione con la Società Italiana di Economia (SIE). Un incontro rivolto non solo agli addetti ai lavori, che aveva l’obiettivo di comprendere gli effetti economici attuali e attesi delle politiche tariffarie USA dal Liberation day in poi.
Lo scenario in continua evoluzione mette anche gli esperti alla prova. Nonostante lo stop di 90 giorni alla guerra commerciale, resta difficile formulare previsioni su cosa accadrà quando scadrà l’accordo con cui Washington ha accettato di ridurre i dazi sui prodotti cinesi al 30% e Pechino quelli sui prodotti americani al 10%. Prima di guardare al futuro, è però utile volgere lo sguardo al recente passato. Gianmarco Ottaviano, dell’Università Luigi Bocconi di Milano, ha ricordato che la politica commerciale aggressiva degli Usa non comincia con Trump, ma prende il via già durante la presidenza Obama e prosegue secondo una logica di sostanziale continuità anche nel corso della presidenza Biden. Una guerra, quella con la Cina, che si è snodata in varie fasi, per arrivare al confronto all’arma bianca innescato dalla seconda presidenza Trump, con dazi reciproci che schizzano alla stelle e superano ad aprile la soglia del 100%. Barriere senza precedenti che scuotono le fondamenta del commercio internazionale fino alla tregua di tre mesi dichiarata in questi giorni.
Per comprendere la portata del terremoto che ha investito i mercati, basti pensare che le nuove tariffe volute da Trump hanno superato addirittura i livelli raggiunti durante la Grande Depressione. Secondo Giorgia Giovannetti dell’Università di Firenze, lo scenario che si profila ora resta ignoto, perché il sistema economico globale degli ultimi 80 anni, con le sue regole, sta cedendo il passo a un nuovo sistema di cui non si conoscono ancora i contorni e le modalità di funzionamento. Grande rilevanza ha anche l’effetto sui dazi delle catene di valore globale, perché “i dazi su un prodotto intermedio moltiplicano il loro effetto quando il prodotto attraversa i confini più volte”. Le motivazioni geopolitiche che alimentano la guerra commerciale possono inoltre portare a un rimescolamento delle alleanze a livello globale.
Il piano del presidente Usa affonda le sue radici nella cosiddetta “Grievance Doctrine”, cioè nella convinzione che gli Stati Uniti siano stati imbrogliati, non siano un impero in declino e non abbiano perso competitività. A prescindere dalla fondatezza dei risentimenti, il piano di Trump ha diversi punti deboli, come spiegato da Antonello Zanfei dell’Università di Urbino Carlo Bo. Non ultimo il fatto chei nuovi dazi sono stati concepiti “come un unico strumento per perseguire più obiettivi: ridimensionamento del deficit commerciale, stimolo agli investimenti negli Stati Uniti, difesa e crescita della manifattura statunitense”. Obiettivi che mal si conciliano con la frammentazione della produzione mondiale, a cui partecipano attivamente le multinazionali Usa (che da sole generano quasi il 50% dell’import totale statunitense) e col fatto che metà degli scambi mondiali avvengono all’interno di catene globali di valore. I dazi potrebbero finire quindi per penalizzare proprio le multinazionali Usa oltre alle imprese esportatrici, che pure si approvvigionano da fornitori esteri colpiti dai dazi. Mentre difficilmente potranno favorire la localizzazione negli Stati Uniti di attività manifatturiere, dati i dislivelli delle remunerazioni della forza lavoro.
La ricetta di Trump nasconde quindi contraddizioni che potrebbero determinarne il fallimento. Secondo Giuseppe Travaglini dell’Università di Urbino Carlo Bo, l’obiettivo MAGA che richiede più investimenti e surplus commerciale è di fatto irraggiungibile “nel breve periodo, a meno di scaricare il prezzo dell’aggiustamento tutto sui partner commerciali”. I dazi, inoltre, non eliminano il deficit senza riequilibrare il risparmio con l’investimento, mentre i rischi per l’economia globale sono la stagflazione interna Usa, la frammentazione commerciale e la de-dollarizzazione.
La politica aggressiva degli Usa deve fare insomma i conti con la realtà e la pace armata con la Cina sembra un primo passo concreto in questa direzione. Siamo già entrati nell’era della de-dollarizzazione? Secondo Annamaria Simonazzi dell’Università di Roma La Sapienza, questa svolta è ancora lontana, così come è lontano l’avvento di un nuovo sistema multipolare. E se è vero che un uso coercitivo dei dazi anche verso gli alleati può ritorcersi contro gli Usa, “il vantaggio statunitense nel progresso tecnologico, se non sarà frenato da Trump, può continuare a sostenere il ruolo dominante del dollaro”.